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L’AI “distruggerà” il business model dell’open web? Quali impatti



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L’intelligenza artificiale sta trasformando il panorama tecnologico globale, definendo nuovi scenari futuri, ma pone anche questioni di regolamentazione e rischi. L’ultimo esempio da tenere sotto controllo sono i motori di ricerca 2.0 che sintetizzano i risultati, bypassando il web

Pubblicato il 7 mar 2024

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione



linee guida sviluppo sicuro intelligenza artificiale

Sull’intelligenza artificiale si confrontano due posizioni simmetriche: AI è una potenza distruttrice e AI è una potenza creatrice e nel confrontarsi danno voce a due istanze.

  • Da un lato, infatti, essa offre incredibili opportunità di innovazione e crescita, alimentando la trasformazione digitale delle aziende e dando forma a nuovi scenari futuri.
  • Dall’altro, pone serie questioni relative alla sua regolamentazione, ai suoi rischi e alle sue implicazioni sui diversi settori, tra cui quello della ricerca online.

La ricerca online sta per essere distrutta?

Ad esempio, sostengono alcuni, l’utilizzo del classico motore di ricerca potrebbe essere completamente sostituito dalla nuova generazione dei modelli di linguaggio generale dell’intelligenza artificiale.

Sono chatbot, app eccetera che sintetizzano i risultati della ricerca tramite l’IA, in pratica evitandoci di vedere e cliccare tutti i link con i siti che parlano di ciò di cui stiamo cercando.

Perplexity.ai è forse il più noto di questi “motori di ricerca 2.0”, ma anche Google di recente sta cominciando a integrare in Chrome queste funzionalità, abilitate dal suo modello Gemini.

The Browser Company, una startup che si è distinta grazie alla sua missione di costruire un browser internet migliore, ha lanciato una ricerca sintetica basata sull’intelligenza artificiale con l’app Arc Search su iPhone.

OpenAI starebbe costruendo un proprio motore di ricerca per competere direttamente con Google.

Gartner ha appena previsto che questi sistemi causeranno un calo del 25 per cento delle ricerche tradizionali entro il 2026.

Gli impatti sugli editori

Questa evoluzione potrebbe aprire la strada a nuovi player capaci di sfidare il predominio di Google ma anche farci perdere fonti di conoscenza preziose come Wikipedia o minaccerà (ulteriormente) la sostenibilità dei media online.

Come monetizzare i contenuti se nessuno ci clicca, accontentandosi delle sue sintesi generate dall’IA? Ci sono dubbi che molti utenti andranno a cercare le fonti originali di quelle sintesi, cliccando nel bot.

Addirittura però secondo alcuni si può arrivare così al paradosso del parassita che uccide l’organismo ospite. Se questi strumenti rendono insostenibile la produzione di contenuti ben presto avranno ben poco da sintetizzare; minacceranno l’esistenza dell’open web, insomma, con danni anche ai motori tradizionali, che ora inseriscono pubblicità molto profittevole tra i link della ricerca.

In questo contesto dinamico e complesso, le grandi aziende devono definire strategie ben calibrate per investire in AI, mentre le start-up cercano di sfruttare le sue potenzialità per sfidare i giganti della tecnologia.

AI: regolare o non regolare, questo è il dilemma

L’IA, dunque, è al centro di un dibattito polarizzato in cui da un lato, si chiede una regolazione efficace per attenuare le paure del pubblico e accrescere la fiducia verso l’intelligenza artificiale. Una regolazione soft è invocata dallo stesso Sam Altman, (Ceo di OpenAI) e in qualche misura anche da Microsoft che lo finanza e sostiene.

I richiedenti sanno di non correre troppi rischi perché questa strada è irta di ostacoli, posti non solo da parte dell’industria, ma anche dai policy maker dotati di buon senso e prudenza. In una materia di tale complessità, caratterizzata da una evoluzione rapidissima è molto meglio affidarsi all’interpretazione delle norme antiche che tutelano i diritti fondamentali, estendendone l’applicazione per analogia, piuttosto che creare novazioni normative che diventano fossili il giorno dopo la loro entrata in vigore. (Questo argomento vale soprattutto per le giurisdizioni basate sulla common law, da noi, patria di codici, il rischio di novazioni improvvide è più elevato). Le aziende, d’altra parte, sanno che le sanzioni, in materie così complesse, giungono tardi, spesso azzoppate da appelli e ricorsi e quindi inutili o al peggio onerose in termini di spese legali.

L’IA potenza distruttrice per il lavoro

Dall’altro lato, si annunciano previsioni catastrofiche di un impatto sul lavoro, dove la potenziale distruzione da parte dell’intelligenza artificiale non avrà precedenti. Si alimenta la paura verso l’intelligenza artificiale, invocando interventi diretti dello Stato, sul welfare, sulla tutela del lavoro, di rallentamento e controllo sull’introduzione delle nuove tecnologie. Gli scenari apocalittici si sprecano: il World Economic Forum ha stimato la sostituzione di 85 milioni di posti di lavoro da parte dei sistemi di intelligenza artificiale. Goldman Sachs prevede che i due terzi dell’occupazione in Europa e negli Stati Uniti siano esposti a forme di automazione connesse all’intelligenza artificiale. Mc Kinsey prevede che al 2030 almeno il 14 % degli occupati dovranno cambiare lavoro a causa dell’automazione connessa ad AI.[1]

È ancora presto per sapere quali previsioni hanno maggiori probabilità di avverarsi, ma ricordiamo che l’innovazione tecnologica, temuta all’inizio come distruttrice dei posti di lavoro nelle produzione dove si applica, ha sempre prodotto nel sistema complessivo effetti di reddito e di prezzo che hanno esteso i consumi e i bisogni, con un impatto positivo sull’occupazione e sulla produttività[2]. Ma, secondo gli osservatori più preoccupati, la natura orizzontale delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, il fatto che essa non sia limitata ad un settore di applicazione, fa temere un impatto generale negativo senza precedenti, se non si interviene indirizzandola verso la complementarietà con il lavoro piuttosto che verso la sostituzione del lavoro.[3] Gli osservatori più cauti, come il Fondo Monetario Internazionale, temono, ancor più degli effetti sull’occupazione quelli sulla diseguaglianza.[4]

Insomma, vi è il timore che AI possa portare ad un forte scossone nella crescita dell’economia, se non ad un deragliamento dello sviluppo in direzione di maggiore ineguaglianza sia per effetto di una maggiore disoccupazione, sia per effetto di una divaricazione tra i redditi. Tutti argomenti che rafforzano il timore che l’intelligenza artificiali possa rivelarsi una forza distruttiva sul sistema economico e sociale.

Altman è il cantore di entrambi gli estremi della contesa intorno ad AI. Secondo lui l’intelligenza artificiale è pericolosissima perché è potentissima, ma proprio perché è potentissima essa può risolvere molti problemi e segnare l’avvio di una nuova era del lavoro, della ricerca e della produzione intellettuale. Altman considera possibili entrambi gli esiti: in questo modo ingigantisce la rilevanza della tecnologia agli occhi dell’opinione pubblica, degli operatori, dei decisori politici e questo aiuta Altman a tenere viva la tensione degli investitori.

Altman suscita le aspettative, le nutre e capitalizza valori crescenti in borsa.

Investimenti in AI: la strategia delle grandi aziende

Anche le aziende che più stanno investendo nell’intelligenza artificiale hanno una visione sempre più articolata: esse sviluppano le nuove tecnologie, ma sono anche le prime a dover fare i conti con la loro introduzione. Per loro vengono al pettine nodi non semplici da sbrogliare.

Gli investimenti che Google e Microsoft, per prendere due esempi importanti, stanno facendo nell’intelligenza artificiale hanno natura aggressiva ma anche difensiva. Da un lato, si esplorano le aree applicative che possono avere più successo economico: Microsoft introduce strumenti di intelligenza artificiale nei suoi prodotti e servizi, con una strategia coerente di arricchimento della propria offerta. I suoi strumenti di intelligenza artificiale Copilot sono entrati nei software di ufficio, nei servizi cloud, nei software di comunicazione. Microsoft ha investito in ChatGPT, ma ha subito dichiarato che ritiene necessario adottare forme di regolazione del suo utilizzo, che coinvolgano le aziende produttrice in forme di autoregolazione e di responsabilizzazione.

La preoccupazione di Microsoft non è solo un omaggio alle richieste di controllo che vengono dal versante catastrofista, è anche un tentativo di impedire che le tecnologie AI dilaghino in forma incontrollata, secondo modalità open source, che toglierebbero valore al combustibile tecnologico che sta immettendo nei suoi prodotti e nei suoi servizi. Al di là dei personalismi, sempre importanti quando si parla di Elon Musk, il contrasto di questi con Altman e Microsoft ruota intorno a questo punto. Altman e Microsoft hanno deciso di portare la strategia di OpenAI fuori dall’open source per mantenere il controllo della evoluzione delle tecnologia e piegarla dentro ai prodotti e servizi di Microsoft.

Per quanto tempo sarà sostenibile l’attuale modello di AI?

I recenti incidenti di ChatGPT, testimoniati tra il 20 e il 21 febbraio da innumerevoli post su X e Reddit riportano risposte incoerenti, incomprensibili, passaggi improvvisi da una lingua all’altra e allucinazioni. Essi potrebbero essere un segnale significativo: per quanto tempo il servizio gratuito sarà sostenibile a fronte di una domanda crescente e spontanea?[5] È chiaro che la necessità di tenere aperto il servizio gratuito serve ad alzare una barriera all’entrata contro chi volesse affacciarsi nel nuovo mercato. In sostanza, si tratta di una strategia difensiva che fa comodo a Microsoft.

I numeri della sua ultima relazione trimestrale indicano che la strategia sembra funzionare, i ricavi sono cresciuti del 18% sull’ultimo trimestre del 2022 e i profitti di un terzo. Naturalmente non è facile dire quanto sia dovuto alla scelta di arricchire con AI i prodotti e servizi di Microsoft, ma il processo è in corso con l’introduzione di Copilot praticamente nell’intera gamma di offerta di Microsoft.

Le trimestrali dimostrano anche che le aziende più veloci a monetizzare, ossia ad accrescere i ricavi con l’intelligenza artificiale non sono quelle che vendono i servizi, ma quelle che producono l’hardware, in particolare Nvidia, che produce i processori veloci e a basso consumo. Altre aziende, quelle che sviluppano la tecnologia e i modelli, stanno invece capitalizzando le attese di guadagni, più che i guadagni correnti. Sicuramente le aspettative sollevate e alimentate dall’intelligenza artificiale stanno creando una spinta verso l’alto delle quotazioni dei protagonisti. Ma sono due meccanismi diversi quelli che sostengono i ricavi e i profitti correnti e quelle che, attraverso le aspettative, gonfiano i valori di borsa.

Le aziende che investono per scoprire dove l’intelligenza artificiale produrrà profitti, come Google e Microsoft, si trovano in posizioni simili per quanto riguarda quelli che abbiamo chiamato investimenti aggressivi: investono all’interno, riorganizzano il personale e le sue capacità per premiare le competenze più scarse e più necessarie. Fanno anche molto venture capital ed acquisizioni, il modo più rapido per investire in innovazione. Ma le due aziende divergono negli investimenti difensivi.

Si direbbe, anche dall’andamento recente delle quotazioni, che Alphabet corra rischi maggiori di quelli di Microsoft e forse anche di quelli di Meta. Rispetto a Microsoft Alphabet è fortemente concentrata sulle entrate pubblicitarie e all’interno di questa voce sulla pubblicità connessa al motore di ricerca. Meta ha anch’essa una assoluta prevalenza da entrate pubblicitarie, ma non legate alla ricerca, bensì ai social network, che al momento sembrano meno esposti ai rischi di essere scavalcati o sminuiti dall’uso dell’intelligenza artificiale. Queste differenze contano.

Difendere o difendersi da AI?

Ricordiamo gli acquisti da parte di Zuckerberg di WhatsApp o Instagram: la principale motivazione era difensiva: eliminare un concorrente. Poi gli investimenti si dimostrarono sinergici con il business di Facebook, ma la volontà di eliminare un concorrente pericoloso era molto sentita.

I rischi per il modello di business di Google

Google, più di Microsoft e di Meta, teme che l’intelligenza artificiale presenti dei rischi per il modello di business basato sulla ricerca. Da anni ognuno di noi fa ricerca sul web, e la fa con Google. To google vale ormai per fare ricerca in internet. Noi utenti abbiamo imparato ad usarlo, che vuol dire schivare le notizie false a cercare i siti più affidabili, reperire le informazioni più aggiornate ed attendibili, affinare le fonti e tradurre in modo significante testi scritti in lingue che non conosciamo. Anche Google ha imparato dalla nostra ricerca, anzi si può dire che fin dall’inizio della sua avventura, quando ancora non sapeva come fare i soldi con il suo motore di ricerca, Google poggiava la significatività delle ricerche in buona parte sul nostro stesso comportamento.

L’interazione tra ricerca e risposta era elevata e tendeva ad accumulare conoscenza sia nel motore sia nelle nostre teste: una sinergia virtuosa. Certo, questo meccanismo si è parecchio appesantito quando Google, dopo anni di perdite che mettevano in crisi la stessa sopravvivenza dell’azienda ha capito di essere un editore e che come tutti gli editori avrebbe fatto i quattrini con la pubblicità. La pubblicità sta appesantendo il lavoro di ricerca e questo potrebbe essere un trampolino di lancio per innovazioni sorprendenti. Da un lato Google ha capito questo fatto, dall’altro continua a negare di essere un editore per continuare a lucrare sul lavoro degli altri, i produttori di contenuti. Qualche cosa si è mosso con la protesta dei media, qualche diritto d’autore è stato riconosciuto, ma la forza del monopolio della ricerca on line è tale che il coltello dalla parte del manico continua ancora ad essere in mano a Google.

È recente la risposta alla rassegna delle questioni del copyright condotta dal Governo australiano intenzionato a garantire il riconoscimento dei diritti d’autore degli editori “saccheggiati” dai servizi di ricerca on line, il cosiddetto “copyright safe harbour”[6]. In una lettera in cui Google risponde ai quesiti posti dal Governo, l’azienda ripropone la peculiarità del suo mestiere, sottolineando i rischi di una normativa troppo stringente nella tutela dei diritti d’autore e si addentra nel tema dei diritti nell’era dell’intelligenza artificiale: “noi incoraggiamo l’Australia a rivedere le sue flessibilità attuali sul copyright e a considerare la possibilità di concordare su base equa delle eccezioni, comprese quelle riguardanti il mining di testo e di dati (TDM). Se mancano tali flessibilità gli investimenti e lo sviluppo dell’AI e del machine learning avverrà al di fuori del Paese”.[7] Qui Google difende la riserva di caccia del motore di ricerca, magari dotato di strumenti di intelligenza artificiale, cercando di non pagare i diritti dovuti per l’uso dei contenuti nella fase di addestramento dei modelli. Ma l’intelligenza artificiale non pone soltanto la questione del copyright in forma nuova e più estesa. Essa è uno strumento potenzialmente distruttivo dei modelli di business legati al search e all’editoria on line. Il fatto che Google non si consideri editore non la aiuta a capire questo passaggio e la sua criticità.

Possibili scenari futuri: l’AI può sostituire la ricerca su Google o Wikipedia?

Se con l’intelligenza artificiale gli articoli di Wikipedia fossero riassunti e integrati in modo rispondente alla nostra domanda, ne conseguirebbe che gli accessi diretti a Wikipedia verrebbero meno: “sembra che le persone per le loro richieste di informazione si rivolgano a ChatGPT invece che a Wikipedia” [8]. Tutti noi perderemmo una fonte di conoscenza formidabile, se l’effetto di questa “disintermediazione” fosse tale da scoraggiare coloro che contribuiscono allo sviluppo dell’enciclopedia online.

L’opportunismo di Google che non vuole apparire come un editore é forse una maledizione, non solo per gli editori, ma anche poer Google. Infatti, se Wikipedia rischia di essere disintermediata da ChatGPT, lo stesso, ma proprio lo stesso, potrebbe accadere al motore di ricerca di Google. Allora i fatturati della pubblicità si perderebbero e il potente motore di ricerca diverrebbe inutile.

Secondo il prof. Ethan Mollick dell’Università di Pennsylvania, l’utilizzo del motore di ricerca potrebbe essere completamente sostituito dalla nuova generazione dei modelli di linguaggio generale dell’intelligenza artificiale. Ma potrebbe collassare anche il modello di business di chi produce i contenuti on line e vive dei contatti che essi realizzano proprio attraverso il motore di ricerca. Con Arc Search, un motore di accesso libero che si avvale di intelligenza artificiale, la ricerca si svolge in due stadi: dapprima viene individuata la lista dei siti più attendibili e poi si fa il sommario. Di quei siti si perde traccia.

Per Google, adottare immediatamente un simile approccio potrebbe essere esiziale, poiché a lungo andare verrebbe meno l’incentivo a produrre i contenuti, su cui in definitiva, si basa tutto il modello di business dell’attuale motore di ricerca.[9]

Ma la minaccia al trono di Google si estende se consideriamo anche gli attacchi diretti, di OpenAI che intende sviluppare il proprio motore di ricerca o di Browser Company, una start up che è emersa per aver lanciato il suo motore di ricerca che produce un sommario basato sull’intelligenza artificiale.[10]

Se l’utente viene distaccato dal contenuto originario e il risultato della ricerca appare in forma di riassunto che perde ogni riferimento diretto alla fonte, la fonte rischia di perdere ogni possibilità di essere riconoscibile dall’utente. La fonte inaridisce e tutta la costruzione win-win dell’advertising online viene rimessa in discussione. Il modello di business che si è sviluppato nei primi due decenni del millennio potrebbe evaporare rapidamente.

Mercati contendibili: startup all’attacco

Il fatto che su questo terreno si muovano le start up, ancora prima dei giganti Big Tech, è un motivo di preoccupazione per questi ultimi. Non solo perché significa che il terreno tecnologico ed economico di AI rimane contendibile, ma anche perché una start up non ha nessuna preoccupazione ad attaccare il modello di business di un gigante, poiché ha solo da guadagnarci, sia che il gigante decida di comprarla sia che continui a preoccuparsi, contribuendo a conferirle un valore prospettico elevato.

Se AI è contendibile lo è anche quello che fino ad oggi è stato considerato il mercato inattaccabile per antonomasia, quello del motore di ricerca. Forse in un lasso di tempo più breve di quanto si possa immaginare.

Note


[1]) Mark Talmage – Rostron. How Will Artificial Intelligence Affect Jobs 2024-2030, Nexford University, January 10, 2024.

[2]) Kristalina Georgieva, AI Will Transform the Global Economy. Let’s Make Sure It Benefits Humanity, .IMF Blog. January 14, 2024.

[3]) Daron Acemoglu, Simon Johnson, Rebalancing AI, IMF, F&D, Decembre 2023.

[4]) Andrew Berg, Chris Papageorgiou, Maryam Vaziri, Some workers will win, others will lose as the use of artificial intelligence grows, IMF, F&D, December 2023.

[5]) Ankita Garg, ChatGPT has gone mad today, OpenAI says it is investigating reports of unexpected responses, India Today, February 22, 2024.

[6]) Australian Government, Attorney-General’s Department, Copyright enforcement review, December 2022.

[7]) Google, Response to the Copyright Enforcement Review Issues Paper, 7 March 2023,

Attorney General’s Department copyright.consultation@ag.gov.au.

[8]) Will Wikipedia Survive AI?, AI News DataDrivenInvestor, August 25, 2023.

[9]) Daniel Hertzberg, It’s the End of the Web as We Know It, The Wall Street Journal, February 16. 2024.

[10]) Brian Broderick, Does anyone even want an AI search engine?, Fast Company, February 21, 2024.

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Pnrr, il Dipartimento per la Trasformazione digitale si riorganizza
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Competenze digitali e servizi automatizzati pilastri del piano Inps
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