Riuscirà l’industria automobilistica europea – e la tedesca in particolare – a sopravvivere al passaggio all’auto elettrica? O uscirà da questa fase di transizione energetico-ambientale fortemente ridimensionata?
Sarà la Cina – che intelligentemente (anche se non sempre rispettando le regole) da anni ha scommesso sul decollo dell’industria ambientale, con forti investimenti pubblici e privati non solo sulla mobilità elettrica ma anche sui pannelli solari (ove ha già spiazzato ogni concorrenza su scala mondiale) e sulle turbine eoliche (ove è a un buon punto nel conseguire lo stesso obiettivo), a prendere il posto dell’Unione Europea?
Le scelte della Ue tra transizione green e protezionismo
Un problema non piccolo per l’UE, che deve scegliere fra:
- una politica più fortemente orientata all’accelerazione della transizione ambientale, con il rischio – se non la quasi certezza – di mettere in crisi un comparto che, con le attività che attiva a monte e a valle, contribuisce per il 7% alla generazione del PIL comunitario e che (sempre secondo i dati della Commissione Europea) dà lavoro complessivamente a 13,8 milioni di persone, di cui 3,5 nel manufacturing diretto e indiretto,
- una politica più protezionistica, simile a quella statunitense, che – al di là dell’effetto di rallentamento della transizione ambientale – potrebbe non rivelarsi efficace nel proteggere un comparto, come detto, così importante se le grandi case automobilistiche non sfruttassero velocemente la presenza delle barriere all’entrata per accrescere la loro competitività e non perdere quote di mercato nelle altre aree del mondo.
Una scelta, quella protezionistica, che si scontra con due possibili ritorsioni da parte cinese:
- è la Cina il mercato di sbocco di oltre un terzo delle auto di Mercedes-Benz (il cui CEO non a caso nei giorni scorsi ha addirittura chiesto di ridurre le tariffe doganali esistenti) e il 40% circa di quelle di Volkswagen;
- la Cina controlla una parte rilevante delle disponibilità mondiali dei metalli critici per la transizione (litio, cobalto…) ed è leader per qualità nelle batterie, componenti che per costo (che può arrivare al 40% del totale) e per autonomia rappresentano uno dei principali fattori differenzianti nella competizione fra modelli e brand.
Industria automobilistica mondiale: il canto del cigno delle incumbent?
In un contesto mondiale in cui la penetrazione dell’auto elettrica (intesa come percentuale sul numero di auto vendute) è ancora – con l’importante eccezione del mercato cinese – ridotta, e ha anzi subito recentemente una decelerazione, sono diverse le case automobilistiche incumbent che, superate le difficoltà generate dalla pandemia e dalle successive crisi nella disponibilità di materie prime e di microprocessori, vivono un momento di particolare prosperità con le vendita in prevalenza di auto ibride (come soprattutto nel caso di Toyota) o a benzina (come ad esempio nel caso delle tre big tedesche). Di qui il richiamo al canto del cigno, che potrebbe non verificarsi nel caso di un loro veloce recupero del gap competitivo e/o nel caso in cui si modificassero le regole del gioco, a seguito ad esempio di un salto tecnologico che rimettesse in gioco – in termini di emissioni di gas-serra – le auto ibride e/o addirittura quelle a combustione interna.
La Tab. 1 elenca le 16 imprese quotate con un valore dei ricavi annui – calcolati come somma degli ultimi 4 trimestri – superiore a 49 miliardi di dollari. Volkswagen e Toyota capeggiano la classifica, con oltre 300 miliardi di ricavi. Le due big statunitensi Ford e GM e le altre due big tedesche Mercedes-Benz e BMW – tutte con una lunga storia alle spalle – hanno ricavi molto vicini fra loro, nella fascia 160-180 miliardi. Le due elettriche pure (o quasi), la statunitense Tesla e la cinese BYD (che ha recentemente superato Tesla nel numero di elettriche vendute ma non nel valore), si collocano – con poca distanza fra loro – al di sotto della soglia dei 100 miliardi. C’è anche l’indiana Tata Motors nella lista: l’avanguardia di un Paese, primo per popolazione al mondo, con una economia in grande espansione.
La Tab. 2 aggrega i dati per Paese e/o area e aggiunge – per la Cina – due imprese non quotate ma con ricavi nella fascia delle precedenti. La Germania è in testa, davanti a Giappone e Stati Uniti; la Corea del Sud precede la Cina, se si guarda solo alle quotate. Riaggregando per aree, l’UE è prima al mondo (soprattutto per merito della Germania), con il 34% dei ricavi complessivi delle imprese che superano la soglia dei 49 miliardi; non molto distanziato il duo Giappone-Corea del Sud, 30% circa, che ho raggruppato non solo per la vicinanza geografica e storica, ma anche per la somiglianza nelle politiche delle loro imprese. Seguono Stati Uniti e Cina, quest’ultima probabilmente la più penalizzata dal criterio scelto (che esclude lo sciame di imprese con fatturati più bassi).
La Tab. 3, infine, sempre tratta da CompaniesMarketCap, offre informazioni su utili (earnings) e valori di mercato (market cap).
La prima metà della tabella, significativa anche se non del tutto omogenea (per alcune imprese sono forniti gli utili ebt prima delle tasse e per altri gli utili ebit prima anche degli interessi), conferma la tesi esposta all’inizio di questo paragrafo:
- le imprese incumbent, attive anche nell’elettrico ma con percentuali basse rispetto al totale di auto vendute, presentano livelli di utili elevati: Toyota è quattordicesima al mondo fra le quotate, davanti tra l’altro ad Amazon e TSMC, e le tre big tedesche si collocano fra le top 40;
- Tesla e BYD risentono invece della guerra dei prezzi che si è scatenata più di recente, a fronte della decelerazione della domanda di auto elettriche negli US, nell’UE e nella stessa Cina, e si collocano in posizioni più arretrate.
La seconda metà della tabella, relativa alle capitalizzazioni, evidenzia come le Borse continuino a scommettere sulle auto elettriche, ma come anche apprezzino la ritrovata profittabilità delle imprese incumbent e la politica di diverse di esse di passare agli azionisti sotto forma di dividendi e/o di buyback – similmente a quanto avviene nell’oil & gas – una parte consistente degli utili. Evidenzia anche come la crescita delle elettriche cinesi, BYD in primo luogo, abbia contribuito a più che dimezzare il valore attribuito a Tesla – che è ora (15 marzo) pari a 521 miliardi di dollari ma che aveva toccato i 1.230 in un momento di euforia del mercato a inizio novembre 2021. Evidenzia come il rinnovato successo delle ibride, che Toyota lanciò alla fine del secolo scorso, abbia rilanciato la capitalizzazione di Toyota, che è ora al suo massimo storico. Le posizioni terza e settima di Porsche e Ferrari, che potrebbero apparire sorprendenti, confermano la validità dell’intuizione di Marchionne – quando scorporò Ferrari da Fiat Chrysler (imitato poi da Volkswagen con lo scorporo di Porsche) – sul premio che il mercato avrebbe riservato al lusso.
BYD e Ie altre cinesi stanno sbarcando in Europa?
Alla fine dello scorso febbraio l’Explorer No 1, prima di una serie di grandi navi fatte appositamente costruire da BYD per il trasporto a lunga distanza delle sue auto, ha attraccato al porto tedesco di Bremerhaven con un carico di oltre 5 mila auto elettriche destinate al mercato europeo: uno sbarco che mi è sembrato dal forte valore simbolico, il preannuncio di un tentativo di invasione di un mercato ricco come quello europeo da parte di un’impresa (che come noto ha Warren Buffett sin dall’inizio fra i suoi azionisti) che – dopo i successi a casa propria – ha deciso di cercare di conquistare i mercati mondiali. Di una impresa che, come sosteneva recentemente in un suo articolo The Economist, non gioca solo la carta del prezzo, ma si differenzia anche “by its software and styling” e che sta cercando di entrare nella fascia più alta del mercato con un electric sports car da 230mila dollari in diretta competizione con Porsche e Lexus. Di una impresa che, mentre invia veicoli via mare, sta trattando per l’apertura di una fabbrica in Ungheria che le garantisca una presenza più strutturata e solida nella UE: presenza che anche SAIC sembra avere tra i suoi obiettivi.
Se il mercato europeo è appetibile lo è altrettanto quello statunitense, più difficile però da penetrare per le barriere molto più elevate che lo proteggono. Il tentativo in atto in questo momento – da parte di BYD, di SAIC attraverso la controllata MG, nonché di Chery (il gruppo statale cinese più attivo nell’export sin dalla sua fondazione alla fine del secolo scorso) – è di entrarvi passando dal Messico, Paese legato agli US dall’accordo di libero scambio USMCA. E analogamente sembra voglia insediarsi in Messico (con un investimento di 12 miliardi di $) anche CATL, l’impresa cinese leader mondiale nelle batterie. L’interesse del Messico – settimo Paese al mondo nella produzione di auto – è ovviamente molto forte, ma altrettanto forte è la pressione statunitense per bloccare gli insediamenti. Con una carta di riserva di cui il presidente Biden ha parlato, nel momento in cui ha ordinato una indagine sui rischi alla sicurezza che potrebbero derivare dalla crescita della presenza di auto cinesi connesse nel Paese.
L’approccio cauto delle incumbent al futuro dell’auto elettrica
La maggior parte delle considerazioni che ho fatto finora parte dal presupposto che le regole stabilite dalla politica per rendere ambientalmente sostenibile la mobilità su gomma – scelta univoca dell’auto elettrica e puntuale mantenimento delle scadenze (quale quella del 2035 come ultimo anno in cui si potranno vendere auto non elettriche nella UE) – sia destinata a trovare continue conferme nei 26 anni che ci separano dal 2050.
E se così non fosse? O meglio, se le imprese incumbent avessero dei dubbi sulle reazioni ad esempio dei futuri acquirenti di auto e/o pensassero di essere in grado con le loro pressioni di modificare parti dello scenario e/o scommettessero sulla possibilità di salti tecnologici o di salti politici (quali il ritorno di Trump alla presidenza statunitense o la sconfitta della cosiddetta maggioranza Ursula alle prossime elezioni europee) in grado di cambiare le carte in tavola, come si modificherebbero i loro comportamenti? O come questi dubbi li stanno già influenzando ora, rallentando le reazioni al pericolo?
E forse ancor prima: nel caso di conferma dello scenario (auto elettrica unica opzione e scadenze rispettate) su quali differenziali competitivi residui le imprese incumbent potranno contare – rispetto non solo alle cinesi – a fronte di un cambiamento così radicale nelle tecnologie e nelle competenze, ma anche nell’organizzazione e nei modelli di business? Con la storia che ci mostra diversi casi di fallimento: Kodak ad esempio, che dopo circa un secolo di successi, non ha retto al passaggio alla fotografia digitale (di cui pure aveva i primi brevetti); Nokia, che nonostante avesse il 40% del mercato mondiale, non ha retto al passaggio allo smartphone e ha dovuto cambiare mestiere; IBM, che quasi ridotta al ruolo di assemblatore dalla crescita di importanza del software e dei microchip, si è trovata costretta a uscire dal mercato dei PC di cui era leader mondiale.
La mia sensazione (riprendendo anche quanto detto in precedenza) è che le incumbent stiano tutte investendo nell’auto elettrica, ma utilizzando solo parte delle risorse che potrebbero mettere in gioco se realmente fossero convinte della ineluttabilità del loro avvento in tempi brevi. Diverse di esse preferiscono utilizzare quote rilevanti degli utili per compensare gli azionisti, dopo gli anni grami della pandemia e delle carenze di materie prime e microchip; altre, soprattutto le asiatiche (dichiaratamente scettiche a partire da Toyota sulla scelta delle elettriche come migliore soluzione per l’ambiente), dedicano parti dei loro cash flow ad esplorare strade diverse quali l’uso dell’idrogeno.
Le tendenze in atto nell’industria
Fra i movimenti in atto ne vorrei citare due: le alleanze fra imprese incumbent per gestire i problemi a monte (batterie, minerali critici, software), rimanendo però in competizione sul mercato finale delle auto; l’entrata con quote di minoranza in imprese cinesi (non nelle maggiori), per acquisire competenze e per completare – agevolando l’importazione delle auto da esse prodotte soprattutto in Europa – la gamma messa a disposizione del mercato. Tre esempi recentissimi del primo caso: Honda e Nissan (numero due e tre fra i produttori di auto giapponesi) hanno annunciato ufficialmente una partnership, volta a fronteggiare la concorrenza di Tesla e delle cinesi, con la precisazione “the scope of the collaboration includes automotive software platforms and core components related to EVs”; il CEO di Renault ha annunciato il progetto di collaborazione con Mercedes-Benz; il CEO di Volkswagen, nell’annunciare la messa in cantiere di un nuovo modello di costo inferiore a 25mila euro, ha parlato delle esplorazioni in atto per la formazione di partnership volte a ridurre i costi di auto che (a detta anche del CFO) presentano ora margini quasi inesistenti. Un esempio del secondo caso: l’entrata di Stellantis nello scorso ottobre nell’azionariato della cinese Leapmotor, operante nella fascia medio-alta del mercato, con l’acquisizione del 20% per 1,5 miliardi di euro, con l’inserimento di suoi modelli nella gamma offerta da Stellantis stessa.
I rischi di un protezionismo eccessivo in un contesto mondiale in evoluzione
Il protezionismo, per difendere le imprese incumbent e per far crescere con la produzione delle auto elettriche nuove opportunità di lavoro e nuove competenze che compensino almeno parzialmente le perdite connesse con la transizione nella mobilità, potrebbe apparire come la scelta più naturale e più conveniente, anche in un orizzonte temporale abbastanza prossimo. Lo dimostrano i tentativi di ferrea chiusura del mercato interno alla penetrazione cinese da parte di Biden e l’apertura da parte dell’UE – in vista di possibili incrementi delle tariffe doganali – di una procedura di verifica degli aiuti concessi dal governo cinese per promuovere la crescita delle imprese operanti nella filiera delle auto elettriche e la loro espansione su scala globale.
Una serie di misure sarà senz’altro indispensabile, ma – nell’ipotesi che l’auto elettrica sia confermata come la scelta vincente – un eccesso di protezionismo sarebbe estremamente pericoloso in un orizzonte temporale più lungo. Non si possono isolare i mercati europeo, statunitense, giapponese e sudcoreano (per fare riferimento alle aree più interessate), abitate ora da un miliardo di persone circa sugli 8 miliardi totali, se si pensa a come cambieranno i numeri di qui al 2050:
- gli 8 miliardi diventeranno, secondo le proiezioni ONU, 9,7;
- l’India, ha già superato la Cina e ha un’età media sensibilmente più bassa, rafforzerà il suo primato;
- il Pakistan e la Nigeria avranno ciascuno una popolazione numericamente prossima a quella statunitense, con l’Indonesia un po’ più indietro ma comunque oltre i 300 milioni;
- la popolazione europea rimarrà circa invariata in termini assoluti, ma scenderà – sempre secondo le proiezioni ONU – a poco più del 7 per cento di quella globale.
Cambieranno, almeno in parte in connessione, gli equilibri del potere (come già si sta visibilmente verificando) e cambierà, con lo sviluppo di nuove aree nel mondo, la distribuzione della ricchezza e nel PIL.
Si allargherà conseguentemente – e si sta già peraltro allargando a nuove aree – il mercato mondiale dell’auto. E si deve evitare che le nuove aree, a causa di un eccesso di protezionismo, diventino libero pascolo per le elettriche cinesi.