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Greenwashing: cosa devono fare le aziende per adeguarsi ai nuovi divieti Ue



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Una recente direttiva Ue in materia di pratiche commerciali scorrette e di contratti dei consumatori introduce puntuali divieti in fatto di greenwashing, puntando alla formazione di scelte consapevoli da parte dei consumatori in punto di acquisti sostenibili. Le aziende sono chiamate a una stringente compliance: ecco cosa fare

Pubblicato il 21 mar 2024

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo

Maria Rosaria Raspanti

Pavia e Ansaldo Studio Legale



Transizione 5.0
Transizione 5.0

Il 6 marzo è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la direttiva n. 825 del 2024, la quale introduce modifiche alle direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE, in materia, rispettivamente, di pratiche commerciali scorrette e di contratti dei consumatori.

Il nuovo testo introduce puntuali divieti, sancendo l’ingresso ufficiale di determinate fattispecie nel corpus normativo esistente in materia di tutela dei consumatori, consolidando e consacrando i principali profili emersi negli anni dalla prassi applicativa in materia di greenwashing.

Si tratta, nel complesso, di elementi che formano e influenzano le decisioni dei consumatori, su cui è apparso di primaria importanza intervenire affinché questi possano “assumere decisioni di acquisto informate e contribuire in tal modo a modelli di consumo più sostenibili”, come indicato al considerando n. 1 della direttiva stessa.

Obiettivo della Direttiva: il corretto funzionamento del mercato e il progresso della transizione verde

Il testo chiarisce quindi subito l’obiettivo perseguito dal legislatore dell’Unione: la formazione di scelte consapevoli da parte dei consumatori in punto di acquisti sostenibili è un medium per il perseguimento degli obiettivi di corretto funzionamento del mercato interno e di progresso nella transizione verde dell’Unione, e su di essa si può intervenire indirettamente agendo sulle condotte delle aziende che tali scelte determinano e influenzano con la propria comunicazione commerciale.

La direttiva, che si compone di appena sei articoli e un allegato, ha quindi un contenuto rilevante, che giustifica previsioni di impatto sostanziale sulle pratiche e condotte degli operatori economici.

Il corpo normativo, per quanto sintetico, è comunque arricchito da un ampio preambolo, che inquadra e specifica l’ambito di applicazione delle norme di nuova introduzione.

I tempi di recepimento della direttiva

Gli Stati membri dovranno conformarsi entro 24 mesi dall’entrata in vigore della direttiva, ossia entro il 27 marzo 2026, data entro cui i Paesi dell’Unione dovranno adottare e pubblicare le misure necessarie a conformare la legislazione interna alle nuove disposizioni. In Italia si tratterà in particolare di aggiornare e modificare il D.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo), come già avvenuto in occasione del recepimento di precedenti direttive modificative.

Sebbene non ci si attenda che gli Stati membri adottino le nuove norme immediatamente, non pare però il caso di procrastinare gli sforzi di compliance da parte dell’aziende. Molti dei nuovi divieti, infatti, non fanno che recepire prassi applicative consolidate in riferimento a fattispecie ben delineate sul piano pratico; il nuovo intervento va infatti a codificare, puntualizzare e coordinare i divieti relativi a fattispecie note e da più parti già censurate.

Non è poi escluso che, in pendenza della trasposizione a livello nazionale, le disposizioni della direttiva vengano da subito tenute in considerazione dalle autorità, regolatorie e giudiziarie, preposte al controllo e alla repressione delle pratiche commerciali scorrette, le quali troveranno nel testo della direttiva la sostanziale conferma di trend applicativi che le stesse hanno contribuito ad avviare e consolidare.

È quindi lecito attendersi che il nuovo testo normativo si inserisca direttamente nel flusso dell’enforcement, fosse anche solo per corroborare o supportare provvedimenti e decisioni con un sempre valido richiamo all’acquis comunitario.

Non è peraltro da escludere che le disposizioni di nuova introduzione vengano considerate, almeno in parte, di diretta applicabilità. Una simile interpretazione giustificherebbe interventi basati direttamente sulle previsioni del testo, senza stretta necessità di attenderne la trasposizione a livello nazionale.

L’urgenza di un’immediata azione di compliance da parte delle aziende

La compliance con la direttiva è quindi un’urgenza pratica che non ammette rinvii, né ritardi. Per questo, è necessario familiarizzare subito con i contenuti della direttiva, mettendo a fuoco le fattispecie interessate e le conseguenze della loro realizzazione.

Il principale profilo su cui interviene la direttiva è quello delle asserzioni di sostenibilità o ambientali, che rappresentano il fulcro del più generale fenomeno del greenwashing. La direttiva interviene inoltre sui marchi di sostenibilità e sulle rappresentazioni in punto di durabilità e riparabilità dei prodotti.

La modalità di intervento prevede l’introduzione di precise definizioni, attraverso la modifica dell’art. 6 della direttiva 2005/29; dall’altro, integra l’Allegato I della direttiva 2005/29, il quale contiene l’elenco delle pratiche commerciali che si considerano “in ogni caso” vietate, e che viene integrato con ben dodici pratiche.

Le asserzioni ambientali

Per quanto riguarda i claim ambientali, la direttiva chiarisce che, ai fini dell’applicabilità dei relativi divieti, per “asserzione ambientale” debba intendersi, nel contesto di una comunicazione commerciale, qualsiasi messaggio o rappresentazione avente carattere non obbligatorio a norma del diritto dell’UE o nazionale, in qualsiasi forma, che asserisce o implica che un dato prodotto, categoria di prodotto, marca o operatore economico ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente, oppure è meno dannoso per l’ambiente rispetto ad altri prodotti, o ha migliorato il proprio impatto nel tempo.

La correlata fattispecie vietata consiste nel formulare un’asserzione ambientale generica, definita qualsiasi asserzione “non inclusa in un marchio di sostenibilità e la cui specificazione non è fornita in termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo di comunicazione”. La norma, quindi, non impedisce di formulare claim ambientali, ma solo di formulare asserzioni “generiche”.

Il preambolo fornisce esempi pratici di claim ambientali che possono avere natura generica e, pertanto, vietata. Tra questi rientrano asserzioni come “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”, “verde”, “amico della natura”, “biodegradabile”, “a base biologica” e così via. Il considerando chiarisce però che tali asserzioni sono vietate (cioè, si qualificano come generiche) se non può essere dimostrata la relativa eccellenza delle prestazioni ambientali. Diversamente, se la specificazione è fornita in “termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo”, il claim non è considerato generico e non sarà pertanto vietato.

La direttiva offre al riguardo l’esempio del claim “imballaggio rispettoso dal punto di vista del clima” a confronto del messaggio “il 100% dell’energia utilizzata per produrre questo imballaggio proviene da fonti rinnovabili”. Ciò che determina il passaggio da asserzione generica (e vietata) a asserzione specifica (consentita) è, appunto, la specificazione del fondamento dell’eccellenza prestativa nel medesimo messaggio.

Veridicità, dimostrabilità e verificabilità: i principi cui fare attenzione

Un primo aspetto cui porre attenzione è quindi la possibilità, o meno, che una data asserzione ambientale abbia natura specifica, individuando puntualmente nel messaggio il fondamento dello standard asserito – standard che, naturalmente, dovrà essere fondato su circostanze reali, dimostrabili e verificabili dal consumatore, pena l’ingannevolezza del messaggio alla luce delle disposizioni consumeristiche di applicazione generale, anche a prescindere dall’imbastitura a regola d’arte del claim per conferirgli un’aura di specificità.

L’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali è dimostrabile anche tramite la conformità alle norme in materia di qualità ecologica, ai sistemi di assegnazione dei marchi EN ISO, o per corrispondenza al massimo standard di prestazioni ambientali eventualmente stabilito dalla normativa dell’UE (ad esempio, la “classe A” per gli elettrodomestici).

Viene però precisato che l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali deve essere rilevante per l’intera asserzione. Pertanto, l’eccellenza dimostrabile, ad esempio, tramite conformità a una regolazione di settore non rende di per sé “specifica” (e quindi legittima) l’asserzione generica adottata, se tra i requisiti di conformità alla specifica normativa non rientra la caratteristica reclamizzata. Ad esempio, il claim “biodegradabile” basato sul possesso dell’Ecolabel UE non diverrebbe, per ciò solo, specifico (e consentito), poiché la biodegradabilità non è tra i requisiti per il rilascio dell’Ecolabel. In questo caso, quindi, l’eccellenza riconosciuta non sarebbe rilevante ai fini dell’asserzione.

Altre importanti precisazioni vengono fornite in relazione alla riferibilità dell’asserzione al prodotto o all’attività dell’azienda nel suo complesso, chiarendo che rientrano nell’ambito di applicazione del divieto di asserzioni ambientali generiche i claim riferiti all’intero prodotto o alla complessiva attività commerciale, quando in realtà relativi soltanto a un determinato aspetto del prodotto o a un elemento specifico non rappresentativo dell’attività dell’azienda. Non sarà quindi possibile, ad esempio, indicare che un prodotto è “in materiale riciclato” quando la base di materia riciclata è, ad esempio, riferibile al solo imballaggio.

Trasparenza sulle emissioni di gas serra

Vengono infine espressamente vietate le asserzioni ambientali basate sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra, come quelle che riportano “zero emissioni nette per il clima”, “impronta CO2 ridotta” e simili. È, in particolare, vietato asserire che un prodotto ha impatto nullo, ridotto o addirittura positivo sull’ambiente, sulla base della compensazione delle emissioni.

Tale divieto appare radicale e slegato da qualsiasi valutazione di genericità dell’asserzione. Tuttavia, il preambolo della direttiva chiarisce che le asserzioni relative alle emissioni possono essere consentite se si basano sull’impatto effettivo del ciclo vita del prodotto, purché non sulla compensazione delle emissioni al di fuori della catena di valore del prodotto. Il tutto, ancora una volta, deve comunque essere veritiero, dimostrabile e verificabile, pena l’ingannevolezza della pratica a prescindere dalla costruzione del messaggio.

I marchi di sostenibilità

Altro profilo interessato dalla direttiva è quello dei marchi di sostenibilità, categoria in cui viene fatto rientrare (per i fini della direttiva) qualsiasi marchio di fiducia, di qualità o equivalente, di natura pubblica o privata e avente natura volontaria, che mira a distinguere e promuovere un prodotto, processo o impresa con riferimento alle sue caratteristiche di sostenibilità ambientale o sociale. Sono esclusi i marchi obbligatori dell’UE o nazionali, considerato che la loro apposizione non è volontaria e che si tratta in ogni caso di marchi stabiliti da autorità pubbliche.

L’attenzione specifica dedicata ai marchi di sostenibilità è comprensibile, dato che una delle modalità di attuazione di pratiche di greenwashing è proprio quella di fare ricorso a segni, label e altri segni distintivi che hanno ad oggetto uno o più profili di sostenibilità del prodotto. Il divieto al riguardo introdotto prende di mira l’esibizione di marchi non basati su un sistema di certificazione o che non sono stabiliti da autorità pubbliche.

È interessante notare come la definizione di asserzione ambientale generica (categoria, come visto, vietata), faccia riferimento a qualsiasi asserzione “non inclusa in un marchio di sostenibilità” (e, come detto, la cui formulazione non è fornita in termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo). Il marchio di sostenibilità che soddisfi le caratteristiche indicate dalla direttiva (certificazione o natura pubblica) potrà pertanto fungere da strumento per garantire la specificità dell’asserzione ambientale, ove realmente correlata alle caratteristiche oggetto del marchio.

La norma inserita va a sua volta ad integrare l’Allegato I della direttiva 2005/29, che già vieta di asserire che i prodotti sono stati approvati, accettati o autorizzate da un organismo pubblico o privato quando ciò non sia avvenuto o quando non siano stati rispettati i requisiti di autorizzazione.

Le asserzioni di durabilità e obsolescenza programmata

La direttiva interviene infine sui claim di durabilità dei prodotti.

Tale aspetto, legato al tema dell’obsolescenza programmata, incide direttamente sulla sostenibilità complessiva del bene immesso in commercio, che si misura anche in termini di vita media del bene, di necessità di una sua sostituzione o di reintegro con materiali o altri prodotti nel tempo. Le condotte basate sui profili di obsolescenza dei prodotti sono quindi strettamente legate al tema della sostenibilità, riguardando da vicino il ciclo vita e l’impatto complessivo del prodotto (e delle relative abitudini di consumo) sull’ambiente.

La direttiva, andando ad integrare l’Allegato I della direttiva 2005/29 anche con riguardo a tale profilo, sancisce così il divieto di claim che nascondono una caratteristica del prodotto, introdotta proprio al fine di limitarne la durabilità, qualora le informazioni su tale caratteristica e i suoi effetti siano a disposizione dell’azienda.

La direttiva introduce ulteriori divieti sul tema dell’obsolescenza programmata e su profili correlati, come l’induzione del consumatore alla sostituzione o reintegrazione di materiali di consumo del bene prima di quanto tecnicamente necessario.

Una direttiva ad ampio raggio di applicazione

Vediamo così che la battaglia al marketing scorretto della sostenibilità non si ferma alle dichiarazioni esplicite delle aziende (più propriamente rientranti nel fenomeno del greenwashing) che fanno della sostenibilità una leva commerciale, con un fine decettivo, estendendo il raggio d’azione anche a condotte spesso attuate in forma omissiva, ma non per questo meno rilevanti rispetto al tema della sostenibilità, poiché a loro volta determinanti per le scelte sostenibili dei consumatori.

Conclusioni

Con la nuova direttiva l’UE sembra quindi mostrare un approccio coerente con le complessive politiche rientranti più in generale nel Green Deal e in corso di elaborazione ed adozione ormai da alcuni anni, rimanendo nel solco regolatorio che caratterizza la normativa a tutela del consumatore, basata sulla repressione di pratiche essenzialmente decettive, egualmente basabili su comunicazioni espresse che fanno leva su caratteristiche asseritamente positive, così come su messaggi reticenti che, invece, mirano a nascondere quelle negative.

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