Il welfare aziendale sta cambiando volto, trasformandosi in un elemento strategico per le imprese: non si tratta più solo di benefit e servizi a disposizione dei dipendenti, ma di un vero e proprio strumento di gestione delle risorse umane, capace di favorire lo sviluppo di un ambiente lavorativo più produttivo.
Ma la strada verso un welfare aziendale sostenibile ed efficace non è esente da ostacoli: le imprese dovranno cercare nuove soluzioni per adattarsi alle sfide del futuro, compreso l’avvento dell’intelligenza artificiale.
Welfare di precisione: un nuovo approccio
Sul finire dello scorso anno, l presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Azzone, in un’intervista ha parlato di “Welfare di precisione”: un concetto con il quale intende interventi mirati sulle esigenze dei singoli, così da utilizzare al meglio le risorse a disposizione.
Tale concetto di assistenza individualizzata in ambito socio sanitario riabilitativo si è consolidato nel tempo. L’estensione del concetto “welfare di precisione” associato al sociale, all’educativo e al welfare in generale è una naturale conseguenza auspicabile e forse inevitabile, grazie anche alle nuove tecnologie che consentono una migliore e più approfondita profilazione e quindi soluzioni assistenziali sempre più sofisticate e mirate.
Se i tempi sono maturi per attuarlo, al momento è difficilmente applicabile in ambito di welfare aziendale, perché gli strumenti e le misure che godono del favore fiscale e contributivo devono essere strutturate per la generalità dei dipendenti o per categorie omogenee degli stessi. Eventuali interventi personalizzati e individualizzati, seppure con le finalità più nobili, concorrono alla formazione del reddito.
Welfare, produttività e redditività
D’altronde, l’impresa non è finalizzata al welfare né al benessere dei dipendenti né alla loro soddisfazione, malgrado una certa narrazione che enfatizza molto, forse troppo, le capacità dei datori di lavoro di determinare la felicità dei loro dipendenti.
Non dobbiamo dimenticare che, per come è fiscalmente delineato oggi il welfare aziendale, le misure previste dal legislatore come non concorrenti alla formazione del reddito da lavoro dipendente (e quindi più o meno impropriamente definite “welfare aziendale”) sono quelle che servono al datore di lavoro per migliorare la produttività e la redditività dell’azienda, non per migliorare la qualità della vita dei lavoratori. Poi, certo, se un miglioramento della qualità di vita di un lavoratore produce anche un miglioramento della sua produttività è sicuramente utile e va incentivato. Ma il miglioramento della qualità della vita del lavoratore è una derivata, un positivo effetto collaterale.
Per esempio, il buono pasto come sostitutivo della mensa aziendale fu concepito dal legislatore per consentire ai datori di lavoro di garantire ai dipendenti un’alimentazione sana e completa anche fuori casa; le agevolazioni sul trasporto pubblico locale servono a garantire che il personale arrivi in sicurezza e puntuale sul luogo di lavoro piuttosto che ad agevolare i lavoratori. Entrambe queste misure sono molto apprezzate dai lavoratori e concorrono a migliorare la qualità della loro vita e questo è indubbiamente un vantaggio per il welfare complessivo della comunità ma non è questa la finalità principale che, invece, rimane la produttività.
In quest’ottica, risulta evidente che misure di welfare aziendale individualizzate, pur essendo possibili e sempre più frequenti, soprattutto per professionalità di alto profilo, sono interamente da ricomprendere nel sistema di benefit retributivo e come tale non godono di particolari vantaggi fiscali né contributivi.
Equilibrio tra vita privata e lavorativa: la nuova sfida
La tendenza che si va consolidando è quella di una nuova e diversa interpretazione dell’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa, soprattutto in termini di tempo da dedicare alla prima rispetto alla seconda. Lo leggiamo chiaramente nel settimo Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, dove si nota che il 67,7% degli occupati italiani in futuro vorrebbe ridurre il tempo dedicato al lavoro. Un auspicio che viene espresso dal 65,5% dei giovani, dal 66,9% degli adulti e dal 69,6% degli over 50.
La settimana corta
È ormai accertato, quindi, che soprattutto le nuove generazioni che si approcciano all’impiego lavorativo sono meno disponibili a sacrificare pezzi significativi della propria vita privata sull’altare della realizzazione professionale, indipendentemente dal significato che ognuno intenda dare a questo concetto.
Un tema estremamente dibattuto è, infatti, stato quello della settimana corta, ma quello davvero importante e significativo che è emerso negli ultimi accordi su tale tema, soprattutto quelli sottoscritti nel manifatturiero, è la volontà di trovare soluzioni che consentano di conciliare non la vita privata con quella professionale dei lavoratori ma la produttività dell’azienda con il benessere del personale. Se l’azienda si rende conto che ridurre l’orario di lavoro, oppure che una sua diversa articolazione settimanale o multi periodale, non solo non riduce la produttività ma, anzi, la migliora, allora si creano le condizioni per trattative sindacali virtuose che finalmente soddisfino pienamente tutte le parti interessate. L’importante non è tanto la riduzione del tempo al lavoro, quanto piuttosto la condivisione d’intenti, valori ed obiettivi di azienda, parti sociali e lavoratori; forse questa è la componente più rivoluzionaria di questi ultimi accordi che hanno avuto così clamore.
Impatto della digitalizzazione sul welfare aziendale
È da sottolineare che è stato possibile raggiungere questi risultati perché il fattore tempo non è più quello determinante per valutare, e quindi ricompensare, l’attività lavorativa e perché stanno cambiando gli equilibri tra domanda e offerta di lavoro, per cui è sempre più importante per le aziende rendersi attrattive per conquistare e mantenere le migliori professionalità sulla piazza.
A oggi, con la forte digitalizzazione avviata nel tempo, vediamo una “piattaformazione” di soluzioni per il welfare aziendale che è ormai diventata prassi consolidata. Ad essa si associano nuovi player, che portano l’esperienza fintech in un comparto che pur essendosi sempre più digitalizzato continua ad operare con vincoli normativi ormai datati.
Il problema è che in ambito di welfare aziendale le potenzialità delle nuove tecnologie, abbinate alla volontà delle parti interessate di trovare soluzioni sempre più elastiche e flessibili, allontana le soluzioni proposte da quanto intendeva il legislatore 40 anni fa.
La soluzione a questo punto non può che essere normativa e/o interpretativa (da parte dell’Agenzia delle Entrate), in modo da delimitare chiaramente l’ambito di applicazione e sviluppo delle ormai molteplici e complesse iniziative avviate dalle imprese per strutturare i propri piani di welfare aziendale.
Il ruolo dell’Intelligenza Artificiale nel welfare aziendale
In questo panorama che dovrà subire un’attualizzazione si inserirà l’Intelligenza Artificiale, che, se la vediamo come strumento, in sé non ha connotati positivi o negativi per l’attività umana, ma aprirà nuovi interessantissimi scenari e offrirà possibilità ancora inesplorate. Un suo utilizzo responsabile e sostenibile potrà portare benefici per tutti, compresi i lavoratori dipendenti. Come sempre e da sempre, sarà il set dei principi e dei valori delle organizzazioni che ne faranno uso a determinarne gli esiti.
Conclusioni
Il mio timore è che un eccesso ideologicamente regolamentatorio, tipicamente europeo, in questa fase iniziale possa limitarne le potenzialità e addirittura anche generare involontari effetti distorsivi, anche nella gestione del personale.