Dati, dati, adorabili dati! – verrebbe da dire modificando le parole del principe Giovanni (tasse, tasse, adorabili tasse!) nel Robin Hood di Walt Disney, film di animazione del 1973. In fondo, è capitalismo di rapina quello del principe Giovanni con il suo aspide-consigliere Sir Biss come quello del tecno-capitalismo di oggi con le lobby-aspide che dettano l’agenda ai governi: come per l’AI Act dell’Unione Europea, virtuoso ma comunque pieno di falle per non impedire il profitto privato della grandi imprese hi-tech a caccia (rapina) di dati; o come la proposta di Direttiva sempre europea sulla responsabilità sociale e ambientale delle imprese (Corporate sustainability due diligence directive, Csddd), che la potentissima lobby industriale/industrialista-Sir Biss (per altro sempre pronta a dirsi – ma si chiama propaganda – responsabile e sostenibile) ha completamente svuotato di senso.
Torniamo a ragionare di dati, allora. E di capitalismo di rapina (rapina di democrazia, libertà, soggettività, sostenibilità, responsabilità, diritti umani che anche il capitalismo digitale sta producendo). E lo facciamo richiamando un libro nuovo e rileggendo un saggio della fine degli anni ’60 – Il capitale monopolistico[i] – di P. A. Baran e P. M Sweezy, di una attualità sconvolgente ancora oggi, ma oggi dimenticato (e non più ristampato, quindi recuperabile solo nelle Biblioteche o in versione vintage).
I want you! – i tuoi dati
A cosa servono i dati? A modellare, orientare, standardizzare, omologare, conformare la vita umana – molto più intensamente e pervasivamente, molto più efficientemente delle tecniche comportamentali usate fino a ieri – alle esigenze della rivoluzione industriale e della sua divisione del lavoro, della vita, dello stesso individuo perché possa poi tutto (lavoro, consumo, vita, dividuo) essere meglio integrato, connesso e sussunto nel sistema tecnico e capitalistico – secondo le leggi della razionalità strumentale/calcolante-industriale[ii] – senza ostacolare la massimizzazione del profitto del tecno-capitale: che è sempre, da tre secoli a questa parte ma sempre di più, l’obiettivo ultimo e deterministico perseguito dal sistema, dalla fabbrica di spilli di Adam Smith al positivismo ottocentesco (con le premesse in Cartesio e Bacone, nella matematizzazione di tutto e nella potenza senza responsabilità della tecno-scienza), arrivando agli anarco-capitalisti/neoliberisti di oggi. Perché questo è lo spirito del mondo capitalista e tecnico, dove l’individuo illuministico è stato ucciso dall’industria – e lo sosteneva già il francofortese Max Horkheimer: “La categoria di individuo alla quale era legata l’idea di autonomia non ha resistito alla grande industria. L’individuo non deve più preoccuparsi del futuro, ma essere pronto a adattarsi, ad agire sempre diversamente ma sempre allo stesso modo”[iii], quello cioè funzionale alla riproducibilità illimitata del tecno-capitalismo, cioè del profitto privato, dalla prima alla quarta rivoluzione industriale. E il tecno-capitalismo come forma sociale/way of life ormai egemone e totalitaria produce (human engineering e digitalizzazione delle masse) gli individui di cui necessita. E aggiungeva T.W. Adorno, un altro francofortese, nel 1962: “l’idea liberale tradizionale dell’incondizionato dispiegamento dell’individuo, della sua libertà e inflessibilità non è più compatibile con un grado di sviluppo che costringe sempre più l’individuo ad assoggettarsi senza resistere alle esigenze organizzative della società” che poi sono appunto quelle del capitalismo; così proseguendo: “Se l’individualismo, nel frattempo, si è indebolito fino a diventare pura ideologia, si insiste tanto più energicamente su di esso. Diventa una consolazione”[iv] – come oggi con neoliberismo/anarco-capitalismo e libertarismo/narcisismo tecnologico, producendo individui che devono essere in realtà tutto meno che individualisti, bensì assolutamente e sempre più gregari e quindi aggregabili (oggi i social, le community, la società-fabbrica), allevati e addestrati (human engineering, appunto) allo scopo.
Tecno-capitalismo: la storia non è più opera nostra
Detto in altro modo, non è più vero – ammesso lo sia stato in passato, secondo certe filosofie incapaci di vedere criticamente la genealogia e la fenomenologia del potere (potere che da tre secoli è quello – ex ante – della razionalità strumentale/calcolante-industriale) – che il mondo umano sia il prodotto dell’agire dei singoli, ma allo stesso tempo anche di ciò che plasma l’agire individuale, nella interazione continua e virtuosa tra generale/universale e particolare. In verità l’agire individuale è del tutto alienato perché prodotto/ingegnerizzato appunto secondo le esigenze del tecno-capitale. Ovvero, la storia non è più opera nostra[v], di noi umani, consapevoli e progettuali secondo il nostro libero arbitrio (era la promessa dell’illuminismo, ma anche del marxismo), ma è fatta dal tecno-capitale (e dalle imprese e dalla società-fabbrica che ne sono la sublimazione), che da tempo ha cessato di essere economia/mezzo per diventare (il suo accrescimento, insieme all’accrescimento dell’accumulazione capitalistica e dell’ecocidio), la nostra antropologia, la nostra ontologia (ciò che dobbiamo pensare), la nostra teleologia/determinismo (l’innovazione non si può e non si deve fermare e se cresce la crisi climatica e ambientale, l’individuo e la società dovranno adattarsi anche a questa – si chiama resilienza ed è una delle parole d’ordine pedagogiche più gettonate di oggi; importante è evitare di mettere in discussione il sistema tecno-capitalista che da tre secoli produce l’una e l’altra, insieme a una incessante crisi sociale) e insieme la nostra teologia (dove la razionalità strumentale/calcolante-industriale ha preso il posto di Dio e della religione[vi]). E così come Dio vede tutto e tutti, così il tecno-capitalismo deve sapere e vedere tutto di tutti e governare il tutto sistemico, esercitando una forma di potere pastorale attraverso i suoi sacerdoti e i suoi teologi, cioè gli intellettuali organici a sé come tecno-capitalismo, cioè i produttori di egemonia, sul mondo e sulla vita umana, della razionalità strumentale/calcolante-industriale. E a questo servono appunto i dati, nuova tappa della matematizzazione del mondo e degli uomini, funzionale a standardizzare/efficientare in senso industriale i comportamenti umani, attraverso l’apprendimento di abitudini normalizzate e interiorizzate e quindi trasformate in automatismi comportamentali, magari con qualche aiuto che si chiama dopamina e insieme infantilizzazione degli individui[vii].
Libri su dati, i.a., algoritmi ne escono ormai in continuazione. Qui citiamo brevemente un libro recente, in inglese, che non aggiunge nulla di nuovo, ma segnala comunque un problema[viii]. Quello per cui gli algoritmi sono ovunque, invisibili ma prescrittivi sia dei nostri comportamenti (algoritmi predittivi/di accompagnamento, filter bubble, eccetera), sia dei nostri modi di pensare, innescando un processo crescente e incontrollabile di delega alla tecnica e insieme di alienazione dell’uomo dall’uomo, dal sapere, dal valutare, dal decidere – sempre più portandoci appunto a vivere in un mondo matematizzato all’ennesima potenza, confondendo l’esattezza (ma falsa e manipolata) offerta dagli algoritmi, con il giusto e il moralmente corretto.
Il libro è di Kyle Chayka, del New Yorker e il titolo è Filterworld. How Algorithms Flattened Culture, dove sostiene che per musica, film, visual art, letteratura, fashion e giornalismo “algorithmic recommendations have fundamentally altered all these cultural products, not just influencing what gets seen or ignored but creating a kind of self-reinforcing blandness we are all contending with now”. E aggiunge, ma è un processo antico – compresa la falsa differenziazione/novità dei prodotti (e basterebbe rileggere I persuasori occulti di Vance Packard, saggio del 1957[ix]): “Filterworld culture is ultimately homogenous, marked by a pervasive sense of sameness even when its artifacts aren’t literally the same. […] We may all see different things in our feeds, but they are increasingly the same kind of different. Through these milquetoast feedback loops, what’s popular becomes more popular […] and the lowest-common-denominator forms of entertainment inevitably rise to the top again and again”.
E quindi – ma qui si potrebbe rimandare al capitolo sull’industria culturale in Dialettica dell’illuminismo[x] di Horkheimer e Adorno (testo del 1947) – come scrive il recensore al libro: “This is actually the opposite of the personalization Netflix promises. Algorithmic recommendations reduce taste—traditionally, a nuanced and evolving opinion we form about aesthetic and artistic matters—into a few easily quantifiable data points. That oversimplification subsequently forces the creators of movies, books, and music to adapt to the logic and pressures of the algorithmic system. Go viral or die. Engage. Appeal to as many people as possible. Be popular”.
Con questo confermandosi appunto per l’ennesima volta che il capitalismo digitale non è un cambio di paradigma rispetto ai capitalismi precedenti, ma ne è solo una evoluzione (in peggio, quanto a controllo e manipolazione della realtà e degli individui, quanto a pervasività totalitaria della sua razionalità strumentale/calcolante-industriale, quanto a sua egemonia ideologica e governamentale sul mondo). Ovvero, è sempre e ancora di più capitalismo monopolistico, ma digitale – e monopolistico qui inteso in senso economico (il potere delle poche grandi imprese, oggi soprattutto tecnologiche in senso lato, di governare il mondo in modo unidimensionale) ma monopolistico soprattutto in termini appunto antropologici, ontologici, teleologici e teologici, impedendo non solo ogni alternativa (ogni idea, proposta, progetto concorrente – e pure Marx e i marxismi novecenteschi sono stati catturati dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale) ma anche ogni pensiero critico che sarebbe poi la premessa per pensare altro e diversamente e liberamente e soprattutto in senso emancipativo. Il sistema è totalmente irrazionale, come ogni totalitarismo della storia, ma presentandosi come razionale, moderno, tecnologico riesce a nascondere questa sua irrazionalità, facendola anzi sembrare assolutamente razionale (ancora, algoritmi e i.a.).
Il capitalismo monopolistico digitale
E andiamo dunque a rileggere il libro di Baran (1910-1964) e di Sweezy (1910-2004) ricordato all’inizio. E riprendiamo alcune delle analisi fatte dai due economisti in questo saggio del 1966, con gli autori che erano allora due fra i maggiori polical economists del neo-marxismo e ancora fondamentali per provare a vedere il capitalismo monopolistico digitale di oggi, in moltissime cose (quelle sulle quali poniamo l’attenzione) identico a quello analizzato allora.
Dunque, scrivono i due economisti: “il capitalismo monopolistico è un sistema costituito di società per azioni giganti” – oggi lo definiamo Gafam, ma non è solo questo – in grado di controllare tutti gli elementi determinanti del processo economico capitalistico, come prezzi, produzione, consumo, investimenti, innovazione tecnologica. “Questo non vuol dire che in esso non vi siano anche altri elementi […] che accanto al settore monopolistico vi sia un settore più o meno esteso di imprese minori. […] Ma il fattore dominante, il motore primo è la grande impresa organizzata in società per azioni giganti […], strumenti per massimizzare il profitto e accumulare capitale”[xi], imprese governate da un management totalmente identificato con l’impresa stessa, votato alla riduzione dei costi (e dell’occupazione, al crescere dell’innovazione tecnologica) e appunto alla massimizzazione del profitto. E “a differenza del capitalismo concorrenziale, dove l’impresa individuale riceve i prezzi, nel capitalismo monopolistico è invece la grande impresa che fa i prezzi” – in realtà anche oggi la concorrenza non è morta ed è anzi la forma e la norma di funzionamento della società-fabbrica, comunque dominata e governata dal capitale monopolistico. E “in questo sistema lo stato ha la funzione di servire gli interessi del capitale monopolistico”, esattamente come oggi, mentre “i managers delle società giganti e i loro portavoce hanno tutto l’interesse a dare di sé una immagine di progresso tecnologico e di efficienza organizzativa, ma sappiamo anche che tali immagini sono spesso pure e semplici ideologie razionalizzatrici. Bisogna quindi determinare non ciò che le direzioni delle società vogliono farci credere, ma le regole di condotta imposte loro dai meccanismi del sistema”[xii]. Di nuovo, come oggi. Sempre con la sua tendenza all’aumento del surplus economico, sempre alla ricerca di modi per assorbire questo surplus e proseguire nell’accumulazione e nella massimizzazione del profitto privato. In vari modi: attraverso consumo e investimento, promozione incessante delle vendite (oggi con gli algoritmi e le community e i Black Friday e Amazon), l’aumento della spesa pubblica (ieri, oggi semmai il contrario) e delle spese militari e con il ricorso alla guerra (esattamente come oggi, nel boom delle spese in armi convenzionali, nelle retoriche guerrafondaie à la Macron o per la difesa del mondo libero, che in realtà libero non è – e non solo).
Continuano Baran e Sweezy: “Lo stimolo della domanda – la creazione e l’espansione dei mercati – diventa in misura sempre maggiore il leitmotiv della condotta degli operatori pubblici e privati nel capitalismo monopolistico. […] e se stimolare la domanda per mezzo della riduzione dei prezzi è impossibile nella struttura del capitalismo monopolistico, non si può dire altrettanto per altri metodi”[xiii], si pensi al marketing e alla pubblicità, perché l’imperativo del capitalismo monopolistico è “stimolare incessantemente la domanda, pena la morte”.
E anche se “la promozione delle vendite ha fatto la sua apparizione molto prima della fase del capitalismo monopolistico”, ora la strategia del marketing “è quella di far entrare bene in testa alla gente la desiderabilità indiscussa, anzi la necessità imperativa, di possedere l’ultimissimo prodotto che giunge sul mercato. Perché questa strategia funzioni, però, i produttori devono riversare sul mercato un flusso continuo di nuovi prodotti, senza mai osare rimanere indietro. […] I prodotti veramente nuovi o diversi, però, non si trovano facilmente, neanche nella nostra epoca di rapido progresso tecnologico e scientifico. Di conseguenza, molte delle novità che servono a bombardare sistematicamente i consumatori, o sono fraudolente o hanno un rapporto superficiale e in molti casi anche negativo con la funzionalità e l’utilità dei prodotti. […] e tuttavia oggi [anni ’50 e ‘60] tutte le trasformazioni di prodotto si trasferiscono anche al processo di produzione, imponendo ciò che si deve produrre secondo i criteri stabiliti dall’ufficio vendite”[xiv].
Tutto questo grazie alla sovrastruttura del sistema politico e giuridico e dove la democrazia, con il voto “è solo la fonte nominale del potere politico, mentre il denaro ne è la fonte reale, cioè il sistema è democratico nella forma e plutocratico nella sostanza. Una cosa ormai tanto pacifica che non sembra necessario argomentarla”[xv], esattamente come oggi. “E poiché nel capitalismo monopolistico le grando società per azioni sono le principali fonti di mezzi finanziari, esse sono anche le principali fonti di potere politico”, l’oligarchia dominante rendendo impossibile modificare il sistema, a partire dagli Stati Uniti (“dove lo sport nazionale non è il baseball ma gli affari”[xvi]) che sono “l’utopia realizzata della proprietà privata e dell’economia capitalistica”, mantenendo la struttura di classe a partire dal sistema scolastico e dalla sua pedagogia di svuotamento di conoscenza e di pensiero critico – e attualissime ancora oggi sono le pagine che Baran e Sweezy dedicano al sistema scolastico americano, ma anche ai problemi creati dal trasporto automobilistico, al divertimento e allo spettacolo come armi di distrazione di massa, a quello che allora si chiamava risanamento urbano e oggi gentrificazione, alla falsificante distinzione tra povertà assoluta e relativa e molto altro ancora.
Di più, e sembra oggi: “Con la crescente specializzazione e razionalizzazione dei processi settoriali dell’economia capitalistica, il calcolo ha pervaso tutti gli aspetti della vita. Dal momento della nascita l’individuo viene fatto entrare in una delle tante caselle prefabbricate […] con il risultato di avere normalmente un prodotto umano standardizzato e razionalizzato, controllato sistematicamente per mezzo di strumenti statistici qualitativi regolati da innumerevoli servizi di controllo che incominciano dal nido d’infanzia. Le reazioni di questo prodotto [l’uomo] diventano sempre più automatiche e prevedibili”[xvii] – appunto come oggi, oggi ancora di più e a questo appunto servono i dati.
Eppure, scrivono Baran e Sweezy avviandosi alla conclusione del loro saggio, “il capitalismo monopolistico, malgrado tutta la produttività e la ricchezza che ha creato, è completamente fallito nel compito di porre le basi di una società capace di promuovere il sano e felice sviluppo dei suoi membri” – e non poteva non fallire. Il problema semmai – quel modello replicandosi oggi nel capitale monopolistico digitale – è capire perché, nonostante il suo fallimento di ieri e di oggi, continui a essere dominante e semmai ancora più totalitario. La spiegazione va cercata ancora in Marx, per il quale “il capitalismo genera dovunque da un lato ricchezza e dall’altro miseria”, come oggi con i ricchi sempre più ricchi e la disuguaglianza ancora e sempre come scelta politica: una verità nascosta dagli economisti borghesi che hanno invece “propagandato la nozione apologetica di una tendenza livellatrice che sarebbe inerente al capitalismo”[xviii]. Compreso quello digitale. Ma ancora una volta è accaduto – e non poteva non accadere – il contrario di ciò che promettevano gli apologeti del tecno-capitalismo.
Perché il problema è il tecno-capitalismo. O meglio: la razionalità strumentale/calcolante industriale che ne è la premessa.
Bibliografia
[i] P.A. Baran – P.M. Sweezy (1968), “Il capitale monopolistico”, Einaudi, Torino
[ii] L. Demichelis (2023), “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma
[iii] In ivi, pag. 102
[iv] In ivi, pag. 27
[v] G. Anders (2003), “L’uomo è antiquato II”, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 3
[vi] W. Benjamin (1921), “Capitalismo come religione”, in (2011) “Scritti politici I”, Editori Riuniti, Roma, pag. 83 e segg.; L. Demichelis (2015), “La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica”, Mimesis, Milano-Udine
[vii] B. R. Barber (2010), “Consumati. Da cittadini a clienti”, Einaudi, Torino, pag. 268 e 275
[viii] https://www.technologyreview.com/2024/02/27/1088164/algorithms-book-reviews-kyle-chayka-chris-wiggins-matthew-l-jones-josh-simons/
[ix] V. Packard (2015), “I persuasori occulti”, Einaudi, Torino
[x] M. Horkheimer – T.W. Adorno (2015), “Dialettica dell’illuminismo”, Einaudi, Torino
[xi] P.A. Baran – P.M. Sweezy (1968), “Il capitale monopolistico”, Einaudi, Torino, pag. 45
[xii] Ivi, pag. 59
[xiii] Ivi, pag. 94
[xiv] Ivi, pag. 110
[xv] Ivi, pag. 132
[xvi] Ivi, pag. 36
[xvii] Ivi, pag. 292
[xviii] Ivi, pag. 241