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La via italiana alla sostenibilità è irta di ostacoli: aziende in perenne “stress test”



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Dal rapporto Brundtland del 1987 a iniziative globali come l’Agenda 21 e Agenda Onu 2030, passando per strategie come il Green Deal europeo: innumerevoli le iniziative che puntano allo sviluppo sostenibile. Tuttavia, l’Italia è in ritardo: servono politiche mirate e un impegno congiunto di istituzioni e imprese per una sostenibilità effettiva

Pubblicato il 22 mag 2024

Giuseppe d’Ippolito

European Climate Pact Ambassador, Rome



ESG e finanza
Photo by Riccardo Annandale on Unsplash

L’idea di uno sviluppo sostenibile, in grado di armonizzare progresso economico, equità sociale e integrità ambientale, ha preso forma negli ultimi decenni diventando un pilastro per le politiche globali.

Dalla definizione pionieristica del rapporto Brundtland alla recente Agenda 2030 delle Nazioni Unite, la strada intrapresa a livello internazionale ha visto passaggi storici e svolte cruciali. Ma come si posiziona l’Europa in questo scenario? E l’Italia?

Il bilancio è complesso e sfida le aziende a ripensare i loro modelli di business. La ricerca di una “via italiana alla Sostenibilità” apre a prospettive nuove ed entusiasmanti, ma si scontra con un sistema “bulimico” fatto da di normative nazionali, norme volontarie d’autoregolamentazione predisposte da organizzazioni internazionali, codici etici e deontologici che rendono difficile perseguire obiettivi sostenibili.

Il rapporto Brundtland e i capisaldi dello sviluppo sostenibile

Sono ormai trascorsi quasi quarant’anni da quando, nel 1987, la Commissione mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED) ha licenziato il documento “Our Common Future”. Quel documento è poi passato alla storia come rapporto Brundtland ed è ricordato soprattutto per essere il primo documento che introduce il concetto di sviluppo sostenibile: “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Il rapporto fissava i punti critici e le maggiori problematiche dell’ambiente, dovuti essenzialmente a due fattori: la grande povertà del sud del mondo, e i modelli produttivi non sostenibili del nord. Si definiva la necessità di attuare una nuova strategia, che potesse armonizzare le esigenze dello sviluppo socio-economico e dell’ambiente. Si coniò la definizione “sustainable development” tradotto dovunque in “sviluppo sostenibile”.

Risulta chiaro come questa spiegazione sia l’esito di una presa di coscienza che le risorse del pianeta non sono infinite e, di conseguenza, devono essere preservate. Il significato di sostenibilità ambientale definiva quindi gli aspetti chiave dello sviluppo sostenibile, responsabile – a sua volta – delle azioni che possono essere introdotte da istituzioni, imprese e privati in tutto il mondo. Si evidenziò per la prima volta, l’urgenza di risolvere il problema delle risorse energetiche non rinnovabili, le criticità legate all’inquinamento, il problema dell’alimentazione e della creazione di cibo a sufficienza per tutti gli abitanti del pianeta. Ma anche il bisogno di imprimere una svolta nei cambiamenti degli stili di vita.

Dall’Agenda 21 all’Agenda Onu 2030: i passaggi chiave

Successivamente, nel 1989, l’Assemblea generale dell’ONU, dopo aver discusso il rapporto, ha deciso di organizzare una Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo. Altre tappe fondamentali che hanno rafforzato la consapevolezza su questi concetti sono state:

  • l’Agenda 21, adottata al termine della Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992.
  • Quindi sono state tracciate, nel 2015, lo stesso anno dell’Accordo di Parigi sulla riduzione dell’emissioni climalteranti, nel programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030.
  • In seguito, nel luglio 2015, attraverso l’adozione dell’Agenda di Addis Abeba viene, inoltre, definito il quadro globale per il finanziamento delle politiche di sostenibilità. Il documento, considerato dal Segretario generale delle Nazioni Unite, “una pietra miliare”, contiene più di 100 misure concrete volte a generare investimenti per affrontare le sfide economiche, sociali e ambientali che la comunità internazionale deve affrontare.

A livello europeo, a seguito dell’adozione dell’Agenda 2030 il Consiglio dell’UE ha emanato due Conclusioni in materia di attuazione interna dell’Agenda 2030: “La risposta dell’UE all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile – Il futuro sostenibile dell’Europa” e “ Verso un’Unione sempre più sostenibile entro il 2030”, ove si demanda alla Commissione Europea la presentazione di ulteriori proposte concrete per definire un quadro strategico di riferimento onnicomprensivo per attuare l’Agenda 2030 a livello europeo.

Tappe che hanno seguito di pari passo l’evoluzione di quel primo documento storico. Il rapporto Brundtland fu infatti aggiornato in diverse occasioni. Nel 1992 fu pubblicato “Beyond the Limits” (Oltre i Limiti), un documento nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta. Poi, nel 2004, venne pubblicato un nuovo aggiornamento, “Limits to Growth: The 30-Year Update”, che ribadiva e confermava i pericoli e i limiti ormai superati di “sostenibilità”. La strada era tracciata e da allora non si è tornati più indietro. E così, negli anni successivi, abbiamo avuto un vero profluvio di norme e regolamenti con valenza globale, europea e nazionale.

Sono arrivate le linee d’azione (supportate normativamente), nel 2019, dal Green Deal europeo, la strategia proposta dalla Commissione europea per trasformare l’Unione Europea in un’economia moderna, efficiente e competitiva, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

La situazione attuale: i risultati dell’Europa

Alla base di tutte queste strategie, sempre l’idea di Sviluppo Sostenibile, come definita nel 1987. Non esiste norma o regolamento, interno o sovranazionale, successiva a tale data, che non si sia ispirata a quella idea e non l’abbia posta come sua finalità ultima.

La lettura dell’ultima relazione (riferita al 2023) di Eurostat sul raggiungimento degli obiettivi di Sviluppo Sostenibile in Europa, dà contezza di quanto si è raggiunto e di quanto si è ancora indietro nei vari paesi europei. Ricordo che Eurostat è l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea: la direzione generale della Commissione europea che raccoglie ed elabora dati provenienti dagli Stati membri dell’Unione europea a fini statistici.

Nella relazione si analizzano i progressi compiuti da ciascun paese negli ultimi cinque anni. E lo status di ogni singolo obiettivo in un paese è l’aggregazione di tutti gli indicatori dell’obiettivo specifico, messi in relazione con la media dell’UE. Si tratta, in verità, di una metrica relativa, che dipende in una certa misura anche dalle condizioni naturali e dagli sviluppi storici di ciascun paese. Il punteggio di progresso di ciascun OSS (Obiettivo di Sviluppo Sostenibile) in un paese si basa, comunque, sui tassi di crescita medi annuali di tutti gli indicatori valutati nell’obiettivo specifico dal 2006 ad oggi. Questa è, invece, una misura assoluta non influenzata dai progressi compiuti da altri paesi.

L’Italia e gli obiettivi di sviluppo sostenibile: un bilancio

Dico subito che l’Italia non ne esce affatto bene. Per brevità prenderò in considerazione solo tre obiettivi, i più coerenti e riferibili allo sviluppo economico: “Energia pulita e accessibile” (OSS 7); “Lavoro dignitoso e crescita economica” (OSS 8); “Industria, innovazione e infrastrutture” (OSS 9). Gli indicatori nazionali sono tutti ben al di sotto della media europea e con una scarsa progressione nell’ultimo quinquennio (come del resto per 15 dei 17 obiettivi). Addirittura, quelli relativi a “Lavoro dignitoso e crescita economica”, sono inferiori di meno della metà della media dei paesi europei con uno scarso incremento nel quinquennio. Se poi si considera il valore degli investimenti sul PIL nazionale per l’obiettivo relativo alla crescita economica, i dati riferiti al 2023 sono praticamente identici a quelli del 2006 e quelli per “Industria, innovazione e infrastrutture” sono praticamente sempre, dal 2006 ad oggi, la metà della media europea.

Ora, al netto degli anni della pandemia da Covid 19, sarà bene avviare una breve riflessione per individuare le ragioni di una così significativa difficoltà del nostro paese a raggiungere gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile e le conseguenze che una tale difficoltà comporta. Ci sarà forse pure una scarsa propensione dei nostri decisori politici verso i temi della sostenibilità ma, in questa sede, preferisco lasciare queste considerazioni ad altri. E rimanendo, invece, nell’ambito di quei confini normativi e costituzionali che frequento quotidianamente, provo a verificare la praticabilità di una “via italiana alla Sostenibilità “.

Imprese e sviluppo sostenibile: un rapporto complesso

Partendo dalla considerazione che lo sviluppo sostenibile coinvolge in ugual modo e con gli stessi meccanismi di proattività, ogni singolo cittadino ma, soprattutto, le istituzioni e le imprese. Quest’ultime ormai coinvolte totalmente sui temi della corporate governance, corporate purpose e capitalismo responsabile. Ma nel rapporto tra legislatore (complessivamente inteso e senza distinzioni tra maggioranza e opposizione) e imprese ci si muove in un campo minato, fortemente presidiato dall’art.41 della Costituzione che garantisce quella libertà dell’iniziativa economica che fortemente confligge con i nuovi doveri dell’impresa, non più solo preoccupata di produrre utili ma anche dal doverlo fare con specifiche politiche ambientali, sociali e di governance.

Sarà proprio il principio costituzionale che limita lo Stato da un’eccessiva intrusione nella gestione dell’impresa ad aver reso più complicato il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile o, almeno, dei più importanti? Francamente, non credo proprio. Sono ormai anni che lo “scopo dell’impresa” è stato fortemente riconsiderato dalla necessità (anch’essa costituzionalmente prevista) di non porsi in contrasto con quell’”utilità sociale” oggi rappresentata anche da una corretta gestione dell’ambiente, dei rapporti sociali e dell’organizzazione interna, nella produzione di beni e servizi e nelle loro catene d’approvvigionamento e distribuzione.

Normative e regolamenti: ostacoli o stimoli alla sostenibilità?

Opportunità e rischi tutti ricompresi in un sistema fatto di normative nazionali, di norme volontarie d’autoregolamentazione predisposte da organizzazioni internazionali, di codici etici e deontologici.

È in quest’ultimo sistema, semmai, che, a mio parere, vanno ricercate le responsabilità del difficile raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Principi e linee guida nazionali generiche e mere riproposizione di principi globali o comunitari, senza alcuna concreta indicazione sulle politiche industriali, da programmare necessariamente per ciascun settore economico e essenziali per affrontare la sfida delle molteplici transizioni: climatica, ecologica, energetica, digitale, alimentare, finanziaria, ecc.. Con un legislatore nostrano poco attento alla competitività industriale nazionale in un mercato globale dove i nostri principali competitor sono sempre più impegnati nel fare, piuttosto che nel regolamentare.

Una bulimia normativa che precede l’esistenza di un problema di mercato, che forse mai ci sarà (es. carne coltivata) o che vorrebbe disciplinare fenomeni tecnologici prima che sia completata la loro sperimentazione (es. intelligenza artificiale). Si aggiunga a una tale frammentazione normativa, la non infrequente contraddittorietà tra le varie disposizioni, la normazione di interi settori senza valutazione attenta dei suoi effetti sul sistema-paese cui segue la deprecabile consuetudine di abrogare regole scritte pochi mesi prima o disporre retroattivamente su normative precedenti, il tutto rimanendo indifferenti alle possibili lesioni di diritti acquisiti o alla frustrazione dei legittimi affidamenti futuri di interi comparti economici.

E ancora, pluralità di Autorità competenti e pluralità di fonti: Autorità indipendenti e Autorità private, che nell’esplicare l’attività di regolazione scrivono regole di natura imperativa, come quelle poste in essere dal potere statale, che rendono difficile la loro collocazione all’interno del sistema delle fonti: es. Consob, Agcom, Garante per la protezione dei dati personali, Autorità per l’energia elettrica e il gas; codici di deontologia professionale o quelli in materia di protezione dei dati personali, sull’informazione politica locale, sulla comunicazione e la pubblicità, sugli standard di certificazione, ecc., tanto da indurre autorevoli autori a parlare di un “nuovo diritto” con seri problemi di compatibilità costituzionale (Giovanna De Minico, Regole. Comando e Consenso, Giappichelli, Torino, 2005).

E ogni volta che arriva una nuova ondata normativa europea (siano direttive o regolamenti) e il successivo loro recepimento (quando non sono self-executive), il sistema delle imprese italiane è sottoposto ad uno stress test. È accaduto con le DNF, le CSRD, i criteri ESG, gli standard EFRAG e IFRS, i piani PNACC e PNIEC; capiterà ancora nei prossimi anni, quando si tratterà di recepire ed applicare la CSDDD, le direttive Greenwashing e Green Claims, la EPBD, l’Ecodesign, le norme sulla qualità dell’aria, sul Packaging, sulla Plastica.

Verso una “via italiana alla sostenibilità”: sfide e prospettive

Perché l’Europa disegna cornici normative di principi, ma è poi il legislatore di ciascuno stato a doverne garantire forme e modi d’applicazione. Ho già detto che ritengo essenziale indirizzare le politiche industriali su focus specifici sugli obiettivi necessari per affrontare la sfida dei cambiamenti climatici e promuovere le innumerevoli transizioni verso uno sviluppo sostenibile ma, temo, che ancora una volta dovremo fare affidamento sulla capacità delle imprese di sopperire alle criticità segnalate, districandosi autonomamente all’interno di un ginepraio di norme, in questa rinnovata definizione costituzionale di “utilità sociale”, in una via italiana alla Sostenibilità irta di trabocchetti.

Bibliografia

– Rapporto Brundtland: cos’è e perché è stato importante per la …. https://www.greenstyle.it/rapporto-brundtland-sostenibilita-413030.html.

– Rapporto Brundtland – Wikiwand. https://www.wikiwand.com/it/Rapporto_Brundtland.

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– La Costituzione – Articolo 41 | Senato della Repubblica. https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-iii/articolo-41.

– Articolo 41 Costituzione: spiegazione e commento – La Legge per Tutti. https://www.laleggepertutti.it/542046_articolo-41-costituzione-spiegazione-e-commento.

– Art. 41 costituzione – Brocardi.it. https://www.brocardi.it/costituzione/parte-i/titolo-iii/art41.html.

– Che cosa prevede la Costituzione rispetto alla libertà di iniziativa …. https://www.ernesto.it/faq/che-cosa-prevede-la-costituzione-rispetto-alla-liberta-di-iniziativa-economica.

– Sistema Economico Misto Italiano – dirittoeconomia.net. https://www.dirittoeconomia.net/economia/sistema_economico/sistema_economico_misto_italiano.htm.

– Cosa ostacolano lo sviluppo sostenibile? – ernesto.it. https://www.ernesto.it/faq/cosa-ostacolano-lo-sviluppo-sostenibile.

– Sostenibilità: i 3 ostacoli più comuni e come superarli. https://www.centricabusinesssolutions.it/blogpost/sostenibilita-i-3-ostacoli-piu-comuni-e-come-superarli.

– Agenda2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. https://www.esteri.it/it/politica-estera-e-cooperazione-allo-sviluppo/cooperaz_sviluppo/obiettivi-di-sviluppo-sostenibile/.

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– Normative – SostenAbility. https://www.sostenability.it/normative/.

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– Autorità amministrativa indipendente – Wikipedia. https://it.wikipedia.org/wiki/Autorit%C3%A0_amministrativa_indipendente.

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– The creation of Independent Authorities in Italy | SpringerLink. https://link.springer.com/chapter/10.1007/978-0-387-72141-5_10.

– The creation of Independent Authorities in Italy: an inside political …. https://www.researchgate.net/profile/I-Rizzo/publication/226982292_The_creation_of_Independent_Authorities_in_Italy/links/552d733d0cf2e089a3ad76e9/The-creation-of-Independent-Authorities-in-Italy.pdf.

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