Le Sezioni Specializzate Impresa del Tribunale di Catania, con la sentenza del 20 maggio 2024 (R.G. 14461/2020) hanno affrontato un tema alquanto insolito e complesso in materia di responsabilità dei fornitori dei servizi di hosting, in una controversia che ha coinvolto come convenuti gli stessi titolari dei diritti.
Il contesto del caso: la rimozione di un’app da uno store digitale
La causa in questione, decisa in primo grado, riguarda, fra le numerose domande svolte dalla parti, l’azione per il risarcimento del danno avanzata da un’impresa e dal suo titolare per l’asserita illecita rimozione dallo “store” di una nota piattaforma digitale di un’applicazione digitale che gli attori avevano sviluppato e messo a disposizione del pubblico per consentire la visione dei programmi di alcune delle principali emittenti televisive italiane, inserendovi contenuti pubblicitari e ricavandone un lucro.
I promotori di questa causa avevano quindi convenuto di fronte al sopra ricordato tribunale siciliano l’associazione che tutela, contro la pirateria audiovisiva, i diritti d’autore delle imprese associate, incluse quelle del settore televisivo, nonché due note società che gestiscono lo store digitale che permette agli utenti di acquisire le applicazioni sviluppate dal content provider e destinate all’utilizzazione sui dispositivi muniti di tecnologia “Android”.
Le tesi degli attori nel caso
Secondo le tesi degli attori, la richiesta di rimozione dell’applicazione digitale a suo tempo rivolta dall’associazione ai gestori della piattaforma digitale in argomento, sarebbe stata illegittima in quanto il servizio fornito da tale strumento informatico si sarebbe risolto in una mera attività di browsing, assimilabile a quella di un motore di ricerca, che mette a disposizione del pubblico i collegamenti ipertestuali ai contenuti protetti immessi sulla rete dai loro titolari, senza alcun intervento modificativo da parte dello sviluppatore o del fornitore dell’applicazione on-line. Nella fattispecie, sostenevano gli attori, l’applicazione da essi offerta al pubblico non avrebbe ritrasmesso il segnale televisivo delle emittenti associate alla convenuta principale, ma si sarebbe limitata a riproporre dei link video generati da terzi, tanto da consentire la visione in streaming dei programmi in conformità alle disposizioni in materia[1].
Inoltre, ad opinione degli istanti, i gestori dello store digitale avrebbero rimosso il contenuto dell’applicazione oggetto di causa, accettando passivamente le doglianze dell’associazione che rappresenta i titolari dei diritti delle emittenti televisive colpite dalle asserite violazioni dei loro diritti esclusivi di ritrasmissione dei programmi, senza consentire alle controparti un’adeguata difesa delle proprie ragioni, tanto da causare agli attori una perdita economica significativa, in violazione sia delle norme sulla responsabilità extracontrattuale che di quelle che regolano i rapporti fra gli sviluppatori e i gestori della piattaforma di hosting.
Seppure gli argomenti che sono stati portati all’attenzione del tribunale in questa causa comprendano questioni processuali, di diritto d’autore e analisi tecniche (inclusa una C.T.U.) di notevole ampiezza e diversità, la questione che assume rilevanza peculiare in questa fattispecie concerne la pretesa risarcitoria rivolta sia nei confronti dei titolari dei diritti (rectius: l’ente esponenziale che li rappresenta), che contro il fornitore dei servizi di hosting, per avere quest’ultimo accolto la richiesta di rimozione formulata dal soggetto che si è dichiarato leso nell’esclusiva ad esso spettante.
La questione della responsabilità dei titolari dei diritti e del fornitore dei servizi di hosting
La domanda svolta in giudizio di fronte ai magistrati di Catania circa l’asserita responsabilità dei titolari dei diritti e del fornitore dei servizi di hosting in merito alla legittimità della disabilitazione dell’accesso all’applicazione digitale in argomento, presenta alcuni aspetti che non risultano contemplati né dalle norme di legge vigenti all’epoca dei fatti (le norme sul commercio elettronico e quelle sul diritto d’autore)[2] e neppure nel Regolamento AGCOM 680/13/CONS in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettroniche.[3]
Invero, quest’ultima normativa prevede sì che l’istanza dei titolari dei diritti possa risultare “manifestamente infondata” (art. 6.4 lett. f) e pure consente, a seguito di istruttoria, che i prestatori di servizi, gli uploader e i gestori della pagina o del sito web, possono controdedurre in merito alla violazione contestata e, qualora l’istanza risultasse infondata, possono ottenere l’archiviazione del procedimento (art. 8.1 e Art. 8-bis par. 5).
Nessuna di dette disposizioni, invece, prevede conseguenze sanzionatorie a carico dei titolari dei diritti, o presunti tali, per il caso in cui la richiesta di rimozione o di disabilitazione dell’accesso ai contenuti risulti non provata o del tutto destituita di fondamento[4].
Il confronto con il Digital Millennium Copyright Act (DMCA) degli Stati Uniti
Tale situazione appare essere distonica rispetto alle norme vigenti negli Stati Uniti d’America in base al Digital Millennium Copyright Act (DMCA) del 1998, il quale stabilisce che il titolare dei diritti che dichiari il falso nell’asserire, in una richiesta di rimozione (NTD), che determinate informazioni violano i suoi diritti d’autore, è responsabile dei danni subiti dal presunto contraffattore in base al Titolo 17 U.S.C. § 512 (lett. f)[5].
La presenza di questa disposizione di legge nel DMCA, seppure possa apparire non necessaria negli ordinamenti dell’Unione Europea alla stregua delle disposizioni di civil law che contemplano la responsabilità per fatto illecito e ne puniscono le conseguenze con il risarcimento del danno, risulta quanto mai appropriata nel sistema giuridico statunitense, soprattutto in considerazione di fatti che hanno dimostrato di essere rilevanti nel tempo – anche sotto il profilo economico – ad iniziare dall’anno 2017 in avanti e pure in questi giorni[6].
Il fenomeno delle contestazioni infondate: il caso Amazon
Il riferimento va in particolare a una serie di azioni legali coltivate da Amazon.Com, Inc. nei confronti di soggetti i quali inviano sistematicamente richieste di rimozione (note anche come Notice and Take Down – NTD) all’indirizzo dell’”abuse” messo a disposizione dalla piattaforma di vendita di prodotti commerciali “Amazon”. Tali istanze includono, ad esempio, l’asserito uso non autorizzato di fotografie dei prodotti, del loro design, dei listini di vendita, del materiale promozionale o ancora della descrizione o dei segni distintivi dei prodotti stessi, caratteristiche che sarebbero state oggetto di appropriazione da parte di alcuni dei venditori presenti su Amazon. Molte di queste rivendicazioni di diritti sembrano essere inviate strumentalmente da alcuni concorrenti per danneggiare le imprese altrui che hanno un posizionamento importante presso tale fornitore di servizi on-line e, quindi, rappresentano un ostacolo alla penetrazione del mercato di vendita di altri prodotti meno appetibili per gli utenti della piattaforma.
Alcuni di questi casi di contestazioni infondate e strumentali di violazioni dei diritti da parte dei venditori che si avvalgono della piattaforma di Amazon hanno condotto ad azioni giudiziarie da parte del colosso del web: ad esempio, con un provvedimento del 25 luglio 2023, il giudice John H. Chun della District Court dello Stato di Washington a Seattle, ha autorizzato la “Discovery”, cioè la rivelazione, dei nominativi dei soggetti (esteri) che avrebbero formulato ad Amazon richieste infondate di rimozione di contenuti leciti, rivendicando inesistenti diritti di proprietà intellettuale sui beni posti in commercio da tale piattaforma digitale.
Le violazioni contrattuali e la truffa nel contesto delle NTD
La casistica giudiziaria statunitense è ricca di azioni legali sul tema di cui ci occupiamo. Tali iniziative legali sono state condotte da Amazon con l’intenzione di fare cessare il ricorso alle procedure di NTD che vengono intraprese di concerto fra loro da un elevato numero di persone e di imprese, le quali asseriscono falsamente di essere titolari di diritti d’autore e di altri diritti di proprietà intellettuale allo scopo precipuo di ottenerne la rimozione di prodotti e materiale di corredo dai listini della piattaforma digitale. Sulla base delle prove raccolte e dell’accesso ai dati personali dei soggetti coinvolti, chiesto ai giudici nel corso delle azioni legali intraprese, Amazon contesta ai convenuti la violazione del sopra ricordato Titolo 17 U.S.C. § 512 (lett. f) del DMCA con cui si vietano gli atti di falsa attestazione di violazione delle norme a tutela del diritto d’autore.
Inoltre, gli stessi fatti violano, secondo gli attori, le condizioni ed i termini contrattuali di Amazon, e tale illecito si configura anche qualora l’agente si limiti ad avvalersi dello strumento della contestazione di una violazione (c.d. “Report a Violation”). Vengono altresì contestate ai convenuti l’interferenza illecita nei rapporti contrattuali che sussistono fra i gestori della piattaforma di marketing e i propri venditori, nonché la truffa che consiste nel chiedere la rimozione di beni che sono indicati come contraffattivi di diritti altrui, senza esserlo.
Questa anomala rivendicazione di insussistenti violazioni dei diritti di privativa, oltre a metterci di fronte a una situazione di evidente incompatibilità fra le finalità e il corretto uso dello strumento della NTD, suggerisce che tali iniziative indeboliscano, non solo di fronte ai fornitori dei servizi di hosting, ma pure dinanzi alla collettività che, generalmente, considera credibili le rivendicazioni dei diritti d’autore da parte dei soggetti che se ne avvalgono.
Le considerazioni finali del Tribunale di Catania
In questo contesto, è di tutta evidenza che, nella causa cui abbiamo fatto cenno in apertura, le verifiche svolte dagli esperti del settore antipirateria, il contenuto dettagliato della NTD e il vaglio effettuato a livello contrattuale e sulla base delle rivendicazioni dei titolari dei diritti da parte del fornitore dei servizi di hosting, rappresentino una base solida per il giudicante nel valutare le pretese attoree, la cui insussistenza è stata accertata dal tribunale adito.
Note
[1] Sulla complessa questione dei collegamenti ipertestuali e la ritrasmissione dei programmi si può leggere questo articolo: https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/linking-framing-ed-embedding-nuove-regole-in-vista-dalla-corte-di-giustizia-europea/
[2] Per un breve excursus sul tema può essere utile l’esame di questo contributo: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/difesa-del-copyright-in-cerca-di-equilibrio-fra-i-diritti-di-isp-titolari-e-utenti/
[3] Qui il testo più recente: https://www.agcom.it/documents/10179/19245163/Delibera+295-20-CONS/bf1fe922-e581-48ed-9acb-c6c6b27b5a7c?version=1.0
[4] Il Digital Service Act (Regolamento (UE) 2022/2065, che modifica la direttiva 2000/31/CE (regolamento sui servizi digitali) prevede all’art. 17 che i provvedimenti riguardanti l’accertamento delle violazioni contestate debbano essere motivati. Per quanto concerne la rimozione o la disabilitazione dell’accesso alle informazioni illecite, il par.3 lett. a) della norma prescrive che debba essere indicato “se la decisione comporti la rimozione delle informazioni, la disabilitazione dell’accesso alle stesse, la retrocessione o la limitazione della visibilità delle informazioni oppure la sospensione o la cessazione dei pagamenti in denaro relativi a tali informazioni o imponga altre misure di cui al paragrafo 1 in relazione alle informazioni, e, ove opportuno, la portata territoriale della decisione e la sua durata.”
[5] Questo il testo della norma:
§ 512 lett. (f) “Dichiarazioni fuorvianti”. Qualsiasi persona che fornisca dichiarazioni consapevolmente e materialmente false ai sensi della presente sezione circa il fatto che
(1) un determinato materiale o una certa attività costituisca una violazione, o
(2) che il materiale o l’attività stessa siano stati rimossi o disattivati per errore o per errata identificazione,
sarà responsabile per eventuali danni, inclusi i costi e le spese legali, sostenuti dal presunto trasgressore, da parte di qualsiasi titolare del copyright o licenziatario autorizzato del titolare del copyright, o da un fornitore di servizi, che sia stato danneggiato da tali false dichiarazioni, a seguito dell’affidamento fatto dal fornitore di servizi su tale falsa dichiarazione al fine di rimuovere o di disabilitare l’accesso al materiale o all’attività di presunta violazione, o per sostituire il materiale rimosso o per fare cessare la sua disabilitazione o l’accesso allo stesso.
[6] Fra le numerose decisioni (finora oltre venticinque) che hanno riguardato l’applicazione della norma del DMCA volta a prevenire diffide infondate con richiesta di rimozione dei contenuti altrui, si ricorda il caso ISE Entertainment Corp. contro Longarzo, (Corte Distrettuale della California del 2 febbraio 2018). La richiesta di applicazione del § 512 (f) è prevalsa sulla richiesta di rigetto dei convenuti. La corte in questa causa ha affermato che “né la titolarità del diritto d’autore né la registrazione del copyright sono prerequisiti per intentare un’azione ai sensi della sezione 512 (f)”. La Corte ha quindi accolto il ricorso anche se l’attore ignorava che le NTD facevano riferimento a violazioni del diritto d’autore, considerando altresì fondate le domande volte ad accertare la malafede avanzate dai ricorrenti. Al termine del processo le domande attrici di risarcimento del danno non sono state accolte in quanto le richieste di rimozione dei contenuti non rientravano fra quelle contemplate tassativamente dalle norme del DMCA.