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Transizione ecologica e commercio extra Ue: il meccanismo Cbam e la sfida delle emissioni



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Dopo anni di preparazione, il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) è entrato in vigore in via sperimentale dall’ottobre 2023. Questo meccanismo, pilastro del Green Deal europeo, mira a ridurre le emissioni globali di gas serra e prevenire il “carbon leakage”. Tuttavia, la sua complessità potrebbe ostacolare le piccole imprese e alimentare l’inflazione verde

Pubblicato il 27 ago 2024

Francesco Vito Tassone

imprenditore nel Cleantech



esg

Totalmente fuori dai radar dell’informazione, dopo un poco di tentennamenti è iniziata da gennaio di quest’anno l’attuazione del meccanismo CBAM. Acronimo di Carbon Border Adjustment Mechanism, consiste nell’applicazione di una tassa alle importazioni di prodotti provenienti da paesi extra-EU in teoria con regole ambientali meno rigorose di quelle dell’Unione Europea.

Gli obiettivi del Cbam

Il CBAM è stato proposto dalla Commissione Europea come uno dei pilastri del Green Deal, il piano per rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. L’obiettivo del CBAM è quello di ridurre le emissioni di gas serra a livello globale e di prevenire la cosiddetta “carbon leakage”, cioè lo spostamento della produzione verso paesi con minori vincoli ambientali e quindi minori costi.

Il cronoprogramma del Cbam

Il cronoprogramma fin da subito e sembrato molto assertivo e prevede diverse fasi:

  • A partire dall’ottobre 2023, il CBAM è entrato in vigore in via sperimentale per alcuni settori ad alta intensità di emissioni.
  • Dal 2026, il CBAM dovrebbe sostituire il sistema attuale di assegnazione gratuita di quote di emissione ai produttori europei.
  • Entro il 2030, il CBAM dovrebbe coprire tutti i settori soggetti al sistema europeo di scambio di quote di emissione (EU ETS), che include anche l’aviazione, il riscaldamento e il trasporto marittimo.

Un titolo EU ETS è una quota di emissione di gas serra che un’impresa può acquistare o vendere sul mercato europeo. Un titolo corrisponde a una tonnellata di CO2 equivalente emessa. Il sistema EU ETS stabilisce un limite massimo di emissioni per i settori coperti, che diminuisce ogni anno, e impone alle imprese di monitorare e rendicontare le loro emissioni e di restituire un numero di titoli pari alle emissioni effettive alla fine di ogni anno.

I beni interessati

I beni al momento interessati di possono ricondurre principalmente a produzione di materiale, hard to abate. Parallelamente con questo meccanismo di dice ai produttori europei: “I diritti di emissioni gratuiti, che in questi anni hai avuto, e che ti erano dati in virtù nella possibilità che avresti potuto avere concorrenza sleale dagli importatori, non ci sono più”.

Un esempio pratico: il cemento

Per chiarire facciamo l’esempio per il prodotto più impattante della lista. Il cemento.

Oggi una tonnellata di cemento tipo 1, puro portland, ha un prezzo di vendita al grande acquirente di circa 150 euro per tonnellata. Per produrre una tonnellata di cemento si emettono circa 0,7/0,8 tonnellate di CO2. L’emissione non è causata tanto dal processo, bensì dalla reazione chimica che si ottiene dalla cottura del carbonato di calcio CaCO3 che sottoposto ad alte temperature diventa CaO+ CO2.

Quindi non è un’emissione dipendente dal luogo o dal sistema energetico nazionale. Il prezzo per un l’ETS nel momento in cui sto scrivendo il pezzo è su circa 70 euro per tonnellata. Quindi dovendo comprare CO2 sul mercato per una tonnellata di CO2 siamo di fronte a circa 50 euro di extra costo per una tonnellata di CO2.

Il meccanismo Cbam

Passiamo al meccanismo CBAM, che è come tradizione europea tutt’altro che semplice.

Per calcolare quanti ETS bisogna comprare per poter importare una determinata merce, bisogna:

  • Determinare il contenuto di carbonio del prodotto importato, che dipende dal mix energetico e dalle emissioni dirette del processo produttivo del paese di origine.
  • Sottrarre dal contenuto di carbonio del prodotto importato il contenuto di carbonio medio del prodotto equivalente prodotto nell’UE, che corrisponde alla media ponderata delle emissioni verificate dei produttori dell’UE negli ultimi due anni.
  • Moltiplicare la differenza ottenuta al punto precedente per il prezzo medio degli ETS europei negli ultimi due anni, che corrisponde alla media aritmetica dei prezzi giornalieri degli ETS.
  • Aggiungere al risultato ottenuto al punto precedente un fattore di aggiustamento per tenere conto delle fluttuazioni dei prezzi degli ETS e delle emissioni verificate nell’UE.
  • Comprare sul mercato degli ETS I titoli di emissioni al fine di compensare le extra emissioni sul mercato tenendo registri speciali per tutte queste operazioni di cui sopra.

I problemi del meccanismo europeo

Problema numero uno, l’Europa da campione del libero mercato diventa il continente in cui le procedure di importazione, già oggi non banali, diventano esse stesse una barriera sostanziale al libero commercio.

Le difficoltà per piccole imprese e importatori spot

Le piccole imprese di fatto sono ostacolate per via della ostica gestione di procedure così complesse. Una classica trading company con un paio di dipendenti, (casistica estremamente comune) non ha la capacità di capacità di analisi, accesso a banche dati, budget per asseverazioni etc. Rispetto al classico meccanismo dei dazi in cui: lo Stato chiede, tu paghi, sdogani, qui deve essere l’importatore in grado di stabilire correttamente quanto pagare, con sanzioni monstre in caso di errori. Ammesso di essere in grado di avere i dati.

Stessa sorte spetta agli importatori spot. Quelli che fanno 2/3 importazioni annue, anche se medie aziende, il costo di compliance con tenuta di registi ed operatori sul mercato degli ETS non giustifica il beneficio.

I rischi di green inflation galoppante

Problema numero due: Siamo sicuri che al 2030 si consumerà meno cemento?  Oppure semplicemente pagheremo il cemento il doppio, creando un secondo problema di green inflation galoppante?

E qui siamo di fronte al classico problema di capire se la mano destra sa cosa fa la mano sinistra.

Prendiamo sempre il caso del cemento, già oggi ad esempio sappiamo che il settore delle costruzione consuma circa il 40% in più rispetto a quanto necessario, e per le parti strutturali circa il doppio, mediamente per 2 problemi: overdesign dato da sovradimensionamento eccessivo, e un sistema normativo che negli anni ha moltiplicato i livelli di verifica facendo esplodere il dimensionamento delle strutture, a fronte di esperienze visibili ancora oggi, di strutture leggere costruite tra gli anni 60 e 70 con un terzo dei materiali, che hanno dimostrato di reggere bene alla prova del tempo.

Norme divergenti

Un secondo problema sono sempre le norme. Per numerosissimi materiali in cui il cemento è usato, le norme del materiale sono state scritte considerando metodi di prova che hanno alla base il cemento portland tipo 1, il più inquinante. Tant’è che mercati con tradizioni diverse dalle nostre hanno norme a volte completamente diverse. Anche qui facciamo due esempi riguardanti sempre il cemento, ma per tutti i materiali il problema può essere traslato.

Nel calcestruzzo le norme stabiliscono sia dosaggi minimi che caratteristiche del cemento che devi usare. Quindi con la mano destra diciamo che dobbiamo cambiare tutto perché dobbiamo essere ecologicamente responsabili, con la mano sinistra diciamo purché non cambi nulla nel modo con cui facciamo le cose.

Un secondo esempio riguarda uno dei prodotti formulati con cemento più diffusi sul mercato. Una colla per piastrelle. In Europa la norma è stata fortemente influenzata dalla leadership tecnica europea nei prodotti formulati a base cemento, per cui la norma ha requisiti normativi che rendono i prodotti con un alto contenuto di cemento più performanti. Negli USA c’è invece una tradizione molto più lunga con gli adesivi organici ed ecco che la norma è scritta affinché i prodotti organici siamo più idonei al lavoro che devono svolgere. Banalmente in Europa testiamo i prodotti a trazione, negli USA a taglio. In entrambi i paesi non mi risulta però che le piastrelle caschino dai muri.

Sono 2 esempi banali che però servono a capire dove sono i veri ostacoli affinché ci sia una transizione ecologica vera. Noi continuiamo a pensare che i sistemi regolamentari e normativi siano neutri, guidati dalla sola scienza. Non è così, nei comitati che scrivono le norme ci sono seduti rappresentanti delle industrie in quel momento leader di mercato, lo scopo principe di questi rappresentanti e mantenere una cornice di regolamentazione tale per cui questa leadership non venga messa in discussione dai nuovi arrivati. Le norme sono anche oggetto di scontro geostrategico tra paesi, dove grazie alle norme di creano barriere commerciali ad arte in un contesto di libero mercato apparente.

Già oggi sappiamo fare calcestruzzi e colle più ecologici, sappiamo ottimizzare il consumo di materiali per consumerne molto meno, sappiamo progettare in modo più efficiente con materiali più innovativi, sabbiamo ottimizzare l’utilizzo dei metalli, ma in quasi tutti i settori è vietato. In un mercato iperregolamento come quello europeo qualsiasi prodotto che arriva sul mercato deve rispettare dei requisiti normativi, il cui tavolo tecnico che ha stabilito quella norma magari si è riunito la prima volta 40 anni fa.

La difficoltà di cambiare le norme tecniche

E qui un altro problema che rende difficile l’innovazione e la possibilità di affrontare i problemi. Se un meccanismo come il CBAM può essere introdotto su mercato in pochi anni, cambiare le norme tecniche è un processo lentissimo.

Ci sono norme che hanno richiesto 20 anni per essere scritte ed altri 10 per essere implementate.  Un meccanismo come i CBAM può funzionare se dall’altra parte si deregolamenti velocemente il mercato, permettendo di sperimentare tutto ciò che è sostenibile su larga scala ed in deroga alle norme.

Con pochi requisiti prestazionali che garantiscano la sicurezza, intesa come incolumità delle persone, ma senza stabilire ex ante come le cose devo essere fatte e soprattutto con un grado di predisposizione al rischio di fallimento maggiore di oggi.

È una questione di gerarchia dei rischi: se il collasso degli ecosistemi è il più grande rischio esistenziale che corriamo, possiamo rischiare che un ponte secondario tra 20 anni debba essere abbattuto o restaurato o che un edificio ad un piano debba essere ripristinato. Se questo serve a cercare la strada che tecnicamente risolve il problema delle emissioni. La possibilità di introdurre vera innovazione nei settori hard to abate senza permettere innovazioni radicali è impossibile.

Cosa dovrebbe fare l’Ue per rendere la transizione ecologica un’opportunità

Purtroppo, i settori hard to abate sono la spina dorsale dell’economia mondiale. Se non puoi costruire case, infrastrutture, fabbriche, perché troppo care ottieni si una riduzione delle emissioni, ma attraverso l’impoverimento della popolazione. Non ci sono scappatoie, un’infrastruttura si paga o con le tasse o a debito, se è troppo cara molto probabilmente non la si farà, se non la fai decresci.

Da qui cosa dovrebbe fare la commissione europea per cogliere la transizione ecologica come opportunità e non adempimento. Deregolamentare introducendo soglie di sperimentazione molto ampie a mercato, specie quando la committenza è pubblica.

Smantellando o rivedendo gran parte delle regolamentazioni che si sono stratificate negli ultimi anni che sono andate in senso diametralmente opposto. Permettendo a pubblico e privato di sperimentare. Naturalmente con soglie tali per cui il rischio sia quantificabile. Facciamo qualche esempio. Se devo costruire una struttura comunale tipo una mensa, un centro di accoglienza, delle case ad un piano etc. definita una soglia sopra la quale il rischio economico diventa rilevante, e premesso che bisogna tutelare l’incolumità umana, dovrebbe avere un punteggio premiale una struttura che sia fatta con materiali ecologici, in cui, valutate le prove e la documentazione prodotta, si possano usare anche materiali non certificati. Ed esempio, un vetro anche senza gli stessi livelli di trasparenza, ma fatto magari inquinando un terzo dovrebbe essere incentivato. Noi invece continuiamo ad innalzare gli standard qualitativi senza verificare gli impatti a latere. Questo permette di avere un primo mercato, di qualche decina di migliaia di tonnellate, utile alle aziende ed al regolamentatore per fare esperienza, scalare i processi, valutare la durabilità etc. Numeri minuscoli in un mercato che si misura in centinaia di milioni di tonnellate ma che non è sostenibile. Oggi non si può fare, è vietato vendere prodotti e materiali non “catalogati” in tutti i vari regolamenti. Per cui il materiale deve sottostare alle norme ISO, alla normativa REACH, quella UFI, le norme tecniche locali, deve avere processi tali per cui può avere il marchio CE, nel caso di grandi committenti sottostare anche alle norme proprie etc. di fatto negli ultimi 20 anni non è stato possibile introdurre quasi nessun nuovo materiale sul mercato, se non versioni ad emissioni “compensate” di quelli esistenti. Il risultato ad oggi visibile è solo una successione di scandali. L’ultimo in ordine di tempo viene dalla Germania dove 623 milioni di euro di contributi pubblici a petrolieri per progetti green atti compensare le emissioni si sono rivelati essere al 100% falsi.

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