Oggi il Parkinson affligge l’1% della popolazione italiana over 65. Si tratta di circa 300mila casi che lo rendono la seconda neurodegenerativa più diffusa al mondo e in Europa, anche perché il principale fattore di rischio è l’età e dunque l’invecchiamento della popolazione incide sulla sua diffusione.
Ma se saranno i farmaci del futuro ad imprimere una svolta, già le tecnologie, come l’intelligenza artificiale e un microchip “neurostimolatore”, stanno offrendo un valido aiuto per accelerare la diagnosi precoce del Parkinson, da un lato, e per enire il tremore a un malato di Parkinson, dall’altro lato.
“Nel progetto Bologna ha collaborato Germania e Gran Bretagna. In particolare, abbiamo messo insieme una corte di pazienti importanti e anche una corte di pazienti che avevano delle caratteristiche cliniche che ‘suggerivano’ una possibile evoluzione verso la malattia di Parkinson”, commenta il Professor Pietro Cortelli, direttore operativo dell’ISNB e del Centro Disordine del Movimento (Uoc Neuromet) che racconta ad Agenda Digitale il ruolo dell’AI nel contrasto a questa temibile malattia.
Fra fine 2024 e inizio 2025 arriveranno i risultati degli studi sui farmaci per modificare o rallentare l’evoluzione del Parkinson. Allora la diagnosi precoce svolgerà un ruolo cruciale. Ecco i risultati dello studio.
L’AI per la diagnosi precoce del Parkinson
Secondo la Confederazione Parkinson-Italia, questa malattia neurologica multiforme si manifesta con vari sintomi legati a problemi del controllo motorio: tremore, lentezza dei movimenti, rigidità muscolare, volto inespressivo, difficoltà nella scrittura (nei casi di lunga durata della malattia compaiono deficit cognitivi, motivazionali e di memoria). Le cause sono ignote e sono un mix di cause: si sospettano quelle ambientali, spesso si riscontra la “familiarità”. Fattori genetici e ambientali inducono a vulnerabilità i neuroni di una parte del cervello adibiti a produrre dopamina.
Anche se la malattia frequentemente si palesa intorno ai 60 anni, non è una malattia degli anziani e affligge sempre più spesso i giovani. Circa il 10% dei pazienti hanno età inferiore a 50 anni.
Pur non essendoci cure al momento, le terapie farmacologiche, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, assicurano un buon controllo dei sintomi, soprattutto quando il neurologo specialista trova la giusta combinazione farmacologica.
Ma sulla diagnosi precoce finalmente la tecnologia sta offrendo un valido aiuto.
I due studi sull’uso dell’AI per la diagnosi del Parkinson
Sono due gli studi pubblicati su ACS Central Science e su Nature Medicine che stanno esplorando le potenzialità dell’AI per accelerare le diagnosi di Parkinson, anche con 10 anni di anticipo.
Il primo studio, a firma dei ricercatori della Boston University School of Medicine (Stati Uniti) e della University of South Wales di Sidney (Australia), ha messo insieme il machine learning (o apprendimento automatico) con la metabolomica ovvero lo studio dei composti chimici del metabolismo per studiare la “firma metabolica” della malattia.
L’AI impiegata dai ricercatori si chiama “CRANK-MS: Classification and Ranking Analysis using Neural network generates Knowledge from Mass Spectrometry”. In combinazione con la spettrometria di massa, per individuare sostanze chimiche, identifica schemi di interazione fra centinaia di migliaia di metaboliti.
“Il contesto dello studio è molto interessante perché, sostanzialmente, è quello di un concorso europeo che nasce nel 2015 coordinato proprio dall’IRCSS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna (ISNB). Era un progetto che cercava di distinguere i meccanismi dell’invecchiamento fisiologico dai meccanismi delle malattie degenerative”, spiega il Professor Pietro Cortelli.
I campioni di sangue, raccolti tra il 1993 e il 1996 in maniera casuale tra i donatori di sangue spagnoli sono serviti allo scopo. Al momento del prelievo le persone erano “in salute”, ma alcuni di loro, nei 15 anni successivi, hanno sviluppato il Parkinson.
Lo studio ha confrontato i livelli di metaboliti nel plasma di 39 persone affette dalla malattia con quelli di altre 39 rimaste sane. Ciò ha consentito di identificare differenze potenzialmente rilevanti tra i due gruppi. Le persone che hanno sviluppato il Parkinson, per esempio, già alcuni anni prima presentavano livelli inferiori di triterpenoidi (con proprietà antiossidanti e antiinfiammatorie) e livelli più alti di sostanze alchiliche perfluorate (PFAS), impiegate nell’industria chimica e persistenti nell’ambiente e nell’organismo. Anche se lo studio non contava numerosi partecipanti, CRANCK-MS è stato efficace per prevedere il rischio di sviluppare il Parkinson con una accuratezza del 96%.
“Nel progetto Bologna ha collaborato Germania e Gran Bretagna. In particolare, abbiamo messo insieme una corte di pazienti importanti e anche una corte di pazienti che avevano delle caratteristiche cliniche che ‘suggerivano’ una possibile evoluzione verso la malattia di Parkinson”, continua Cortelli: “Abbiamo poi seguito questa corte negli anni e ciò ci ha permesso di capire chi avrebbe sviluppato la malattia. Nel frattempo il team di Londra ha messo a punto un test tramite analisi del sangue, un metodo meno costoso e meno invasivo rispetto agli esami odierni. Grazie al nostro studio congiunto oggi basta un prelievo di sangue per valutare i casi”.
“Le analisi più moderne sono riuscite ad individuare un pattern di proteine che era specifico della malattia di Parkinson. Questo pattern è stato poi validato e consolidato attraverso metodologie basate sull’intelligenza artificiale. Un algoritmo di machine learning oggi fornisce una capacità di calcolo molto più grande di prima.
Mettendo insieme metodiche analitiche super innovative e il digitale è stato individuato un partner di proteine, da seguire negli anni in quella corte, che presentava caratteristiche cliniche tali da poter evolvere nella malattia di Parkinson. Effettivamente è risultata una corrispondenza nell’ottanta per cento dei casi in pazienti che si sono trasformati in Parkinson. Quindi quel pattern è importantissimo in quanto è visibile prima che inizino gli effetti motori tipici della patologia”, ha illustrato il Professor Cortelli.
Il secondo studio
Il secondo studio, invece, vede come protagonisti i ricercatori del Dementia Research Institute e dell’università di Cardiff (Gran Bretagna) che sono riusciti ad individuare manifestazioni cliniche non specifiche in associazione a un maggior rischio di sviluppare la malattia: un disturbo comportamentale nel corso del sonno REM, per esempio, caratterizzato da comportamenti violenti (come urlare, scalciare e tirare pugni durante il sonno) si associano alla comparsa del Parkinson entro 10-12 anni nel 60% dei pazienti.
L’insieme dei dati raccolti da uno smartwatch ha inoltre consentito di mettere a punto un modello di AI, in grado di idenbtificare i segni precoci del Parkinson in soggetti colpiti rispetto a oltre 40.000 persone del controllo sano.
Manifestazione cliniche, che risultano impercettibili a un occhio umano, sono invece rilevabili dall’apparato tecnologico degli smartwatch, anche 7 anni prima della diagnosi ufficiale.
Conclusioni
L’Irccs di Bologna è stato fra i primi nell’impiantare un microchip neurostimolatore su un paziente (ricaricabile via bluetooth), basato su diversi parametri per aumentare la probabilità di migliorare il più possibile la stimolazione elettrica su determinate aree del cervello in modo sempre più mirato e per registrare al contempo l’attività del nucleo subtalamico, la cui inibizione consente di ottimizzare il controllo dei sintomi motori del Parkinson.
Intanto valgono le regole di prevenzione generale per ridurre i fattori di rischio cardiovascolari e l’impatto su cervello e cuore: niente fumo, alimentazione sana (la dieta mediterranea è la più indicata) e attività fisica costante.
I neuroscienziati della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica, Campus di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs hanno inoltre scoperto, dallo studio dei meccanismi biologici sottostanti, che l’esercizio fisico intensivo sarebbe in grado di favorire un rallentamento del decorso della malattia. Anche la logopedia e la terapia psicologica giocherebbero un ruolo fondamentale.
“Dal punto di vista della pratica clinica, tuttavia, bisogna essere molto cauti. Infatti, oggi sapere che una persona potrebbe sviluppare la malattia entro alcuni anni non serve molto. Tuttavia è chiaro che, mentre la ricerca è rivolta a trovare le cure, aver scoperto dei marcatori nel sangue così specifici potrebbe risultare in futuro utile anche dal punto di vista della pratica clinica. Questo
importante risultato testimonia che aver unito le forze di tanti laboratori permette di raggiungere risultati: serve pazienza, ma soprattutto bisogna spingere molto per trovare le terapie in grado di rallentare il processo tipico delle malattie neurogenerative, che assomiglia a quello dell’invecchiamento fisiologico ma sicuramente in modalità molto accelerate”, conclude il Professor Cortelli.