“La superficie di rotolamento della ruota deve essere cilindrica senza spigoli, sporgenze o discontinuità”.
Recita così il comma 3 dell’art.66 del Codice della Strada per dire che una ruota, per essere tale, deve essere rotonda (1).
Una legge per disciplinare l’ovvio.
E non si tratta, purtroppo, di un caso isolato. L’Ordinamento italiano è cronicamente malato di ipertrofia normativa.
Ecco dove siamo
Il nostro Ordinamento si arricchisce, ogni giorno, di 21 pagine di provvedimenti normativi e la sola produzione legislativa del 2014, se raccolta in un unico file, conterebbe 14,2 milioni di caratteri (2).
Cittadini e imprese assistono impotenti a un ricorso esasperato alla legge.
Sembra che normare costituisca la panacea di tutti i problemi socio-economici del Paese o che esista una proporzione algebrica secondo la quale più norme significano più democrazia, più diritti, più eguaglianza sociale o più produttività per le imprese.
È vero esattamente il contrario.
“Un eccessivo, o, comunque, un cattivo uso dello strumento regolatorio determina una serie di conseguenze negative. Produce costi ingiustificati per le imprese, per i cittadini, per le stesse istituzioni pubbliche. Alimenta la corruzione. Determina ingiustizie. Favorisce la conflittualità sociale. Ingessa le attività economiche. Appesantisce l’azione delle amministrazioni pubbliche.
Troppe regole, o regole confuse e contraddittorie equivalgono, non di rado, a nessuna regola. E la giungla legislativa produce quasi sempre l’incertezza del diritto, anticamera dell’illegalità.” (3)
Eppure, a decenni di distanza dalle prime lucide diagnosi della malattia e dall’elaborazione (rigorosamente a colpi di leggi) delle prime terapie, poco o nulla sembra essere cambiato per davvero. Un contesto di inquinamento normativo che avvolge ogni settore della vita del Paese e che è uno dei principali responsabili di una delle patologie più gravi che lo affligge: la burocrazia.
Perché per ogni norma ci sono decine di procedimenti amministrativi e per ogni procedimento amministrativo centinaia di formalità e adempimenti, declinati in salsa diversa, a seconda dell’Amministrazione che è chiamata, per legge, a gestirli.
Una palude stigia che separa cittadini e imprese dall’esercizio dei loro diritti e che sembra resistere ad ogni tentativo di bonifica.
“L’Amministrazione si regge su abitudini e prassi consolidate da decine di anni. Talora da centinaia. Per fare il meno possibile ed evitare di assumersi ogni responsabilità, conviene non lasciare mai il solco tradizionalmente segnato. Nel tempo si è consolidata la regola fondamentale del non decidere, del non innovare. Regola che consente a tutti di non prendere nessuna decisione (e nessuna responsabilità connessa). Così, in ogni pratica, va sempre cercato il precedente in maniera da poterlo ampiamente consultare, verificare e, per quanto possibile, copiare. Il dott. Amendola si era accorto che l’abitudine di allegare il precedente (da cui si era copiato) consentiva sempre di giustificare la propria decisione addebitandola al predecessore. In questo modo si restava tranquilli: ogni eventuale errore nella pratica era da addebitare agli antenati!”. (4)
Ma, come scriveva Massimo Severo Giannini, allora Ministro della funzione pubblica, nel concludere il suo “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato” trasmesso alle Camere nel novembre del 1979: “La situazione è sì gravissima ma non è irreversibile”.
E dove vorremmo andare
Nel Team per la Trasformazione Digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri siamo convinti che sia arrivato il momento di cambiare passo, invertire la tendenza, smettere di copiare (solo per avere un alibi qualora si sbagliasse) e iniziare a innovare sul serio perché non c’è altro modo di dichiarare, per davvero, guerra alla burocrazia e cambiare l’interfaccia del Paese, riscrivendone il sistema operativo.
E, naturalmente, siamo consapevoli che per farlo non basta essere super-esperti di tecnologia o ridisegnare e progettare l’infrastruttura digitale del Paese. È indispensabile cambiare le regole e gettare nuove fondamenta normative, per fare in modo che digitale e innovazione cessino di essere tratti straordinari ed episodici di questo o quel Governo ma entrino a far parte del DNA della nazione.
Diego Piacentini, d’altra parte, lo ha già messo nero su bianco in uno dei suoi primi post, spazzando via ogni equivoco o ambiguità, quando ha scritto: “il mio principale obiettivo sarà, paradossalmente, fare in modo che il mio stesso ruolo di “commissario straordinario” cessi di esistere.”
Nessuna ambizione velleitaria di sconfiggere, da soli, la burocrazia che in tanti (prima di noi, migliori di noi e con mezzi e strumenti più efficaci dei nostri) hanno già provato a debellare, ma la profonda convinzione — che se preferite potete chiamare lucida follia — che, almeno quando si parla di innovazione, di tecnologia e di digitale, le regole possano e debbano cominciare, da subito, a essere scritte e riscritte in maniera diversa e che, proprio grazie all’innovazione e alle tecnologie, si possa assestare un duro colpo alla cultura del “chi copia non sbaglia”.
Non c’è nulla di sbagliato nel copiare cose già fatte bene se, a conti fatti, rappresentano il modo migliore di risolvere il problema.
Dobbiamo iniziare a scrivere meno leggi e più software [meno codici e più codice] e, soprattutto, bisogna fare in modo che nelle leggi — generali e astratte per definizione — vengano scolpiti solo i principi capaci di resistere al tempo e incapaci di imbrigliare innovazione e tecnologie nel passato, tenendo il Paese lontano dal futuro.
“Avere una visione di lungo termine, senza perdere di vista le tappe intermedie”, è uno dei principi cardine del nostro manifesto.
Le regole, quelle di dettaglio, vanno tradotte in bit, le convenzioni per lo scambio dei dati tra amministrazioni in API [Application Programming Interface], i procedimenti amministrativi nei quali l’attività discrezionale dell’amministrazione è assente o modesta, trasformati in processi machine to machine più efficaci e più democratici.
E nel farlo occorre stare attenti a non digitalizzare le inefficienze ma ridisegnare e reingegnerizzare i procedimenti perché le tecnologie di oggi abilitino soluzioni fino a ieri non implementabili.
In un team che ha nel suo DNA un’autentica ossessione per gli uno e gli zeri del linguaggio binario e una fiera avversione per ogni astrazione, neppure un avvocato può permettersi di raccontare propositi generali e astratti senza tradurli in esempi concreti, a portata di cittadino.
Ad esempio, i procedimenti amministrativi a zero discrezionalità dovrebbero essere standardizzati e automatizzati, traducendo la modulistica in bit e affidandone la gestione alle macchine in modo che tutti i cittadini e imprese, a prescindere da dove vivano e da quale sia l’amministrazione alla quale si rivolgano, potranno contare su tempi certi e risultati equivalenti: aprire un negozio a Bolzano o a Rionero in Vulture richiederà lo stesso tempo, gli stessi documenti e parità di trattamento. Oggi, purtroppo, non è così.
E a prescindere da ogni questione di merito, vorremmo che la correzione del Codice per l’amministrazione digitale fosse anche un’occasione per ripensare i processi che danno vita ad una legge: niente pezzi di carta, niente timbri, firme a inchiostro, o immagini scansionate ma solo un testo, in digitale, condiviso tra i diversi uffici competenti e nel quale, chi ne ha competenza e responsabilità, si fa riconoscere dal sistema, annota, commenta, propone una modifica o corregge.
Una legge per trasformare il Paese in digitale non può vedere la luce su un foglio di carta e un Paese moderno lo si riconosce, innanzitutto, da come scrive le leggi.
Da dove dobbiamo cominciare?
Sono tante le sfide che ci attendono per provare a mettere in pratica questi principi.
C’è, innanzitutto, da correggere e integrare — come previsto nella legge delega — il Codice dell’Amministrazione digitale.
Per qualcuno il Codice — CAD in acronimo — rappresenta uno strumento di lavoro di uso quotidiano e ci sarà persino chi è in grado di recitarne articoli a memoria ma, per i più, è solo una delle centinaia di migliaia di leggi vigenti nell’Ordinamento italiano.
E giacché nel Team per la Trasformazione Digitale abbiamo deciso di raccontare, settimana dopo settimana, quello che stiamo facendo e condividere un percorso con tutti i cittadini — nell’interesse dei quali lavoriamo per rendere l’Italia un paese più moderno — vale la pena spendere qualche riga in più per raccontare che cosa sia il CAD e spiegare la road map della trasformazione che abbiamo in animo di realizzare.
Il Codice dell’Amministrazione digitale è entrato in vigore il 1° gennaio del 2006, esattamente undici anni fa, con l’ambizione di rappresentare un testo unico di tutte le leggi in materia di amministrazione digitale e di dare un’attuazione moderna al principio scolpito nell’art. 97 della nostra Costituzione secondo il quale “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.
Il punto di partenza, prezioso e condivisibile era che, già allora, il buon andamento e l’imparzialità di un ufficio pubblico avessero come presupposto un adeguato livello di digitalizzazione dei processi e dei servizi erogati a cittadini e imprese. Ed è in questa prospettiva che il CAD riconosceva ai cittadini il diritto all’uso delle tecnologie digitali nei rapporti con la Pubblica Amministrazione affrontando la materia degli strumenti informatico-giuridici di supporto all’azione amministrativa come il documento informatico, le firme digitali, il protocollo informatico o i sistemi di conservazione.
Le leggi, anche quelle scritte meglio, devono, però, proprio come i software, essere considerate come strumenti in continuo divenire per garantire che restino al passo coi tempi.
E anche il CAD non si è sottratto a questa regola e dalla sua entrata in vigore ad oggi è diventata oggetto di decine di interventi di riforma. La stratificazione di questi e le centinaia di penne che vi hanno lavorato hanno inesorabilmente compromesso, negli anni, la struttura originaria del testo.
Nessuna sorpresa, dunque, che proprio come avviene a una valanga di neve nel suo rotolare lungo un pendio, il Codice, negli anni, sia cresciuto a dismisura, fagocitando dozzine di previsioni diverse, spesso in modo disordinato e disorganico.
Il Parlamento ha affidato al Governo con una legge Delega (5) il compito di intervenire sul Codice entro dodici mesi dal varo del decreto legislativo con il quale le ha dato prima attuazione, per razionalizzarne le decine di previsioni e rendere la relativa disciplina più moderna e, soprattutto, coerente con quella di matrice europea che frattanto ha visto la luce.
La scommessa è rendere il Codice un’autentica “Carta della cittadinanza digitale” come, d’altra parte, suggerisce il titolo dell’art. 1 della Legge stessa.
Un Codice più simile a un bill of rights che al nostro Codice della strada.
Non partiamo da zero e non abbiamo alcuna intenzione di cambiare quello che già c’è di buono per il solo gusto di cambiarlo. Come recita il nostro manifesto “Valorizzeremo gli asset esistenti; non ricostruiremo quanto di positivo è già stato realizzato nella Pubblica Amministrazione italiana e ci ispireremo anche a modelli internazionali funzionanti”.
Tre le linee direttrici lungo le quali abbiamo intenzione di muoverci, per ciascuna, fedeli al principio “astratti mai”, un esempio per tradurre le parole in immagini:
1 . Un Codice più accessibile
Vorremmo rendere il codice un testo più accessibile e facile da leggere, cancellando le disposizioni che non servono perché ribadiscono l’ovvio [la ruota non deve avere spigoli], semplificando, ogni volta che è possibile, il linguaggio senza sacrificarne il rigore e, razionalizzando la struttura [solo i principi e i diritti di cittadinanza digitale nella prima parte e solo le norme di attuazione nella seconda].
Esempio: principi e diritti di cittadinanza digitale nei primi dieci articoli del Codice e un codice più leggero di almeno una dozzina di articoli destinati all’abrogazione.
2 . Il tempo della deregolamentazione
Vorremmo deregolamentare quanto più possibile, rendendo le previsioni di legge tecnologicamente neutre e centellinando le regole tecniche perché nessuno, nel 2017, è in grado di dire quale sarà, tra due mesi, la tecnologia migliore per risolvere un problema e non possiamo permetterci il lusso di tenere il Paese ancorato al passato solo perché in una norma di legge o in una regola tecnica si è fatta una scelta superata dai tempi. L’attuazione delle disposizioni del Codice dovrà, per quanto possibile, essere affidata a linee guida e policy, frequentemente aggiornate — attraverso processi di consultazione e condivisione degli obiettivi e delle soluzioni — e in continuo divenire.
Esempio: le dozzine di regole tecniche alle quali l’attuale testo demanda l’attuazione di decine di previsioni contenute nel Codice cederanno il passo, in molti casi, a linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale all’esito di una consultazione pubblica e destinate a essere pubblicate sul sito istituzionale della stessa agenzia, così da essere periodicamente aggiornate senza farraginosi processi normativi.
3 . Un ecosistema normativo sostenibile
Vorremmo individuare per ogni previsione e per ogni obbligo imposto a carico di cittadini, imprese e amministrazioni una o più soluzioni tecnologiche, facili da usare, accessibili e a portata di mano per fare in modo che il Codice contribuisca a risolvere problemi, rendendo l’amministrazione più efficiente e i diritti di cittadinanza digitale più effettivi senza limitarsi, come, purtroppo, spesso accaduto sin qui, a moltiplicare diritti e obblighi, egualmente destinati però a rimanere inattuati.
Esempio: l’elezione di un domicilio digitale per ogni impresa, professionista o cittadino è un presupposto irrinunciabile per la trasformazione digitale del Paese ma anziché limitarci al principio — già previsto dal Codice vigente — abbiamo intenzione di mettere, nero su bianco, nel Codice, una soluzione moderna, tecnologicamente neutrale e aperta, semplice da usare e destinata a non soffrire dello scorrere del tempo. Abbiamo già iniziato a lavorarci con il Dipartimento della funzione pubblica senza il quale questa piccola rivoluzione semplicemente sarebbe impossibile e con l’Agenzia per l’Italia digitale alla quale toccherà poi rendere “vivo” il Codice: effettivi i diritti e rispettati i doveri.
In che direzione stiamo andando?
I tempi per varare il decreto legislativo di correzione del Codice sono stretti e stiamo procedendo in modo aperto, trasparente e condiviso, coinvolgendo stakeholder e addetti ai lavori, restando lontani dai soliti e vecchi tavoli, dalle commissioni, le audizioni, le consultazioni nei saloni degli stucchi: vogliamo andare a caccia dei bug e correggerli come si corregge il codice sorgente di un programma nelle comunità degli sviluppatori. Siamo interessati a conoscere proposte, critiche e preoccupazioni di tutti e vi invitiamo a scriverci a info@teamdigitale.governo.it
Ma non c’è solo il Codice dell’Amministrazione digitale da correggere e integrare.
Ci sono da scrivere e coordinare le regole tecniche previste dal Codice attualmente in vigore o, almeno, quelle che probabilmente sopravviveranno alla correzione del CAD.
Anche le regole tecniche, proprio come le leggi, rischiano di imbrigliare la tecnologia e di frenare l’evoluzione dei sistemi e dei servizi.
C’è bisogno di riscriverle in maniera moderna, renderle agili, accessibili, comprensibili a chi è chiamato a tradurle in bit come un manuale di istruzioni fatto bene, capace di spiegare step by step a privati e pubbliche amministrazioni — piccoli o grandi che siano — come procedere per rispettare le leggi ma, soprattutto, per fornire ai cittadini e alle imprese il miglior servizio possibile.
È un percorso in salita, lungo il quale ci siamo già incamminati con il Dipartimento della funzione pubblica e, naturalmente, l’Agenzia per l’Italia Digitale. Citando il primo post di Diego “Una cosa che vorremmo mettere in chiaro è che l’innovazione non è un punto di arrivo ma un percorso continuo e non ci si può mai permettere il lusso di sentirsi arrivati: domani si deve sempre far meglio di oggi.”
C’è una un’autentica rivoluzione culturale da scatenare.
Pensate a un futuro vicino o, almeno non troppo lontano, in cui algoritmi di intelligenza artificiale analizzano le leggi e suggeriscono quali leggi tenere, quali abolire, e quali previsioni semplificare o eliminare e, magari, come si ipotizza ormai da decenni anche nel nostro Paese, suggeriscono ai giudici come risolvere questa o quella questione, garantendo una giustizia più giusta perché più prevedibile e più uguale, davvero, per tutti.
Non è fantascienza ma questione di forti competenze tecnologiche, scelte politiche coraggiose, buona volontà e cambio di passo culturale.
Ma questa rivoluzione non possiamo farla da soli. Scriveteci e diteci la vostra, anche criticando, nell’interesse del Paese. Noi siamo di passaggio, l’Italia ha un futuro che l’attende!
(1) A ricordarlo è Gian Antonio Stella in “Bolli, bolli, sempre fortissimamente bolli” [Feltrinelli, 2014].
(2) Secondo i dati dell’ultimo Rapporto sull’attività normativa elaborati dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati [2014] e raccontati da Il Sole 24 ORE.
(3) Lo hanno messo nero su bianco, in modo tanto esemplare da rendere inutile cercare sintesi o parafrasi per ripeterlo, Franco Bassanini, Silvia Paparo e Giulia Tiberi nel loro “Qualità della regolazione: una risorsa per competere”.
(4) Una palude mirabilmente raccontata da Ciro Amendola in “Non ci credo ma è vero — Storie di ordinaria burocrazia” del quale vale la pena citare almeno l’incipit di un paragrafo dal titolo illuminante: “Chi copia non sbaglia” [ndr nella Pubblica Amministrazione, naturalmente].
(5) Legge 7 agosto 2015, n. 124 [ndr la c.d. riforma Madia].