L’abbiamo vista tutti: la frenesia che ha avvolto il mondo del marketing con l’arrivo delle tecnologie generative. Un’euforia, quasi una sbornia, alimentata dalla potenza creativa dell’intelligenza artificiale, capace di produrre contenuti, immagini e persino intere campagne pubblicitarie in un batter d’occhio. Eppure, come dopo ogni grande corsa verso l’innovazione, arriva il momento di riflettere, di fermarsi e chiedersi: ma è davvero tutto qui? Il futuro del marketing può essere affidato solo a delle macchine? La risposta è chiaramente sorprendente, viste le premesse: no.
Il ritorno al fattore umano nel marketing
In un mondo sovraccarico di stimoli, in un contesto dove le aziende e i loro brand competono per l’attenzione del pubblico/consumatore, la differenza non la fa solo la tecnologia, ma la relazione.
Alec Ross, già consigliere di Obama, sul suo profilo LinkedIn spiega che “Quando penso al Made in Italy, la possibilità in questo ambito dell’AI è di ridurre i costi, sì, ma anche di ridurre i processi industriali in modo da lasciare alle risorse umane la creatività e l’immaginazione”.
L’intelligenza artificiale e gli algoritmi ci hanno senza dubbio semplificato la vita. Hanno ottimizzato i processi, accelerato i tempi di produzione e personalizzato le offerte come mai prima d’ora. Ma tutto questo ha creato una sorta di distanza. La sfida per le aziende e i loro brand, ora, è quella di riportare al centro il fattore umano: un equilibrio tra automazione e servizio personalizzato, dove l’uomo – e la sua capacità di interpretare emozioni, desideri, bisogni – torna a essere il protagonista.
L’importanza di connettersi in modo autentico e personalizzato con le persone
Per Seth Godin, uno dei guru del marketing moderno, il vero valore aggiunto di un brand risiede nella capacità di connettersi in modo autentico e personalizzato con le persone. “Non si tratta di spammare contenuti, ma di creare una connessione significativa”, afferma Godin. E aggiunge: “Nel futuro del marketing, non vincerà chi ha la tecnologia più avanzata, ma chi saprà coltivare la fiducia del proprio pubblico”.
Nel dibattito sull’evoluzione del marketing nell’era dell’intelligenza artificiale (IA), Stefania Romenti, professoressa di comunicazione strategica all’Università IULM, ha sollevato una questione cruciale: “La vera sfida per il marketing sarà capire che l’intelligenza artificiale non è un’antagonista di questo processo, ma una potente alleata perché può aiutare le imprese a fornire risposte anche più empatiche rispetto a quelle formulate dagli umani.” Un’affermazione provocatoria che spinge a una riflessione profonda sul ruolo che l’IA può svolgere nell’empatia e nella personalizzazione delle relazioni con i consumatori. Ma è davvero così?
IA nel marketing: opportunità e limiti
Uno dei principali argomenti a favore dell’uso dell’IA nel marketing empatico è la sua abilità di analizzare enormi quantità di dati in tempo reale, permettendo alle aziende di conoscere profondamente i propri consumatori. L’intelligenza artificiale può leggere e interpretare segnali che agli esseri umani spesso sfuggono: dalle abitudini di acquisto alle interazioni social, l’IA costruisce un quadro completo che consente di offrire risposte sempre più personalizzate. In un contesto dove la personalizzazione è cruciale, questa capacità di adattamento e risposta immediata appare come una risorsa preziosa. Le interazioni con i consumatori, che grazie agli algoritmi possono essere calibrate su misura, sembrano diventare non solo più efficienti, ma paradossalmente anche più empatiche, nella misura in cui l’IA è in grado di riconoscere le emozioni e modulare il tono delle proprie risposte. Chatbot e assistenti virtuali dotati di elaborazione del linguaggio naturale permettono di rispondere con una cortesia che, in alcuni casi, gli umani non riescono a mantenere con continuità.
Ma questa visione ottimistica nasconde anche dei limiti importanti. L’IA, per quanto avanzata, non può realmente provare empatia. Quella che restituisce è un’imitazione, una simulazione basata su modelli e schemi predeterminati. Anche se può riconoscere le emozioni, le sue risposte sono prive di quella profondità che deriva dall’esperienza umana. Il rischio è che le interazioni diventino fredde e meccaniche, soprattutto in situazioni in cui la sensibilità e il tatto sono essenziali. L’intelligenza artificiale, per quanto abile, non è in grado di cogliere le sfumature emotive o contestuali più complesse, quelle che richiedono un ascolto empatico autentico. Alcuni critici sostengono che questo potrebbe portare a un’interazione disumanizzata, minando la fiducia nel brand proprio nel momento in cui i consumatori cercano un contatto più autentico.
La dipendenza dalla tecnologia
Un altro aspetto controverso riguarda la dipendenza dalla tecnologia. Affidarsi troppo all’IA può compromettere la capacità di un brand di mantenere la propria autenticità nelle relazioni con i clienti. Molti consumatori continuano a preferire il contatto umano, soprattutto in situazioni più delicate o complesse. Anche se l’IA offre efficienza e velocità, può risultare inadeguata quando il cliente cerca comprensione e vicinanza emotiva, tratti distintivi di un rapporto umano reale. Inoltre, l’utilizzo massivo di queste tecnologie solleva interrogativi etici, soprattutto quando si tratta di delegare processi così sensibili alla tecnologia.
In questo scenario, la visione di Romenti è affascinante, ma non priva di sfumature. L’IA può senza dubbio potenziare le capacità dei brand, migliorando la personalizzazione e accelerando i tempi di risposta. Tuttavia, rimane una tecnologia, e come tale non può sostituire l’empatia umana. Il marketing del futuro, quindi, dovrà trovare un equilibrio delicato: sfruttare l’efficienza e la precisione dell’IA senza perdere di vista la centralità del fattore umano, che resta insostituibile nelle relazioni più profonde e autentiche.
La centralità dei social media per il marketing
E non possiamo parlare di relazione senza menzionare i social media. Luoghi dove ogni giorno milioni di persone si incontrano, discutono, si confrontano. Spazi dove i brand possono – e devono – esserci, ma in modo autentico. Philip Kotler, il padre del marketing moderno, ha sempre sostenuto che “la comunicazione non è solo uno strumento, è una relazione”. E se i social media hanno rivoluzionato il modo in cui i brand dialogano con i propri consumatori, non possiamo dimenticare che, dietro a ogni ‘like’ o ‘commento’, c’è una persona reale con bisogni concreti.
Negli ultimi anni, le aziende e i brand hanno investito enormemente in campagne social, cercando di raggiungere quante più persone possibili, spesso a scapito della qualità della relazione. Ma se c’è una lezione che possiamo trarre dall’esplosione delle tecnologie generative è che il volume non può e non deve essere l’unico obiettivo. Perché mentre gli algoritmi possono individuare il target giusto, è la capacità di creare una relazione autentica, basata su fiducia e trasparenza, a fare davvero la differenza. “I social media non sono solo una vetrina”, prosegue Godin. “Sono una piattaforma di dialogo, e come in ogni dialogo, l’ascolto è fondamentale”.
Perché molte azienda abbandonano i social
Eppure negli ultimi anni alcune aziende anziché investire sempre più nei social media, hanno deciso di abbandonarli parzialmente o del tutto. Una scelta che non è frutto di una disattenzione strategica, ma di una precisa volontà di differenziarsi e di ridefinire il proprio rapporto con il pubblico.
I casi di Lush, Patagonia e Balenciaga
Un caso emblematico è quello di Lush, il marchio britannico di cosmetici naturali, che nel 2019 ha annunciato l’abbandono dei social per le difficoltà crescenti di costruire un dialogo autentico con i propri consumatori attraverso strumenti come Facebook, Instagram e TikTok.
Patagonia, noto brand di abbigliamento outdoor con una forte vocazione ambientale ha deciso di ridurre significativamente la propria presenza e investire meno nelle piattaforme social.
Il caso di Balenciaga ha segnato un altro momento clamoroso nel dibattito sull’uso dei social media. Nel 2021, la celebre maison di moda ha deciso di eliminare tutti i contenuti dal suo profilo Instagram come atto di ribellione verso le logiche dell’hype immediato, concentrandosi sulla costruzione di un’immagine che si fonda sul mistero e sul controllo narrativo.
Queste aziende hanno intrapreso un percorso controcorrente, puntando su una visione di lungo termine che esclude la rincorsa ai numeri facili e ai trend effimeri. In un ecosistema sempre più dominato da piattaforme digitali, la scelta di rinunciare ai social media è una dichiarazione di indipendenza che lascia spazio a nuove modalità di relazione con il pubblico.
Dall’efficienza all’efficacia: i servizi a valore aggiunto
In questo nuovo paradigma, l’obiettivo per le aziende e i loro brand non è solo quello di essere presenti, ma di esserci nel modo giusto. Questo significa investire in servizi a valore aggiunto, quelli che fanno sentire il cliente ascoltato, capito e, soprattutto, valorizzato. La sfida per gli operatori del marketing non è più (solo) quella di sviluppare contenuti o strategie virali, ma di costruire esperienze personalizzate e umane.
Per farlo, è necessario un cambio di prospettiva. Se negli ultimi anni abbiamo visto una corsa alla massimizzazione dell’efficienza – con l’intelligenza artificiale che ha automatizzato processi e ottimizzato ogni fase della customer journey – ora è il momento di puntare sull’efficacia delle relazioni. Un servizio a valore aggiunto non è solo quello che risolve un problema, ma quello che crea un legame duraturo tra brand e consumatore.
“L’IA ci darà una mano e già lo sta facendo, ma la pennellata umana è centrale e lo sarà sempre” ha detto Carlo Colpo, Group marketing communication director and Brand home director per Lavazza che ha lanciato una nuova campagna dal respiro internazionale “pleasure makes us human”. “Abbiamo bisogno di istinto e razionalità, i processi di intelligenza artificiale possono generare output creativi di storytelling simili tra loro” aggiunge Colpo al Sole24Ore.
L’IA quindi come detto su queste pagine altre volte non è una bacchetta magica, ma uno strumento per supportare, ma soprattutto per pensare oltre e aiutare le aziende e i loro brand a costruire esperienze multicanale e multiformato in direzione – anche per realtà con risorse più ristrette – della media company, con l’obiettivo di creare e gestire relazioni stabili.
Il futuro del marketing è nella connessione umana
Alla fine, la vera innovazione non sta nella tecnologia, ma in come la tecnologia può potenziare l’esperienza umana. I brand che sapranno vincere questa nuova sfida saranno quelli che riusciranno a integrare il meglio dell’automazione con la personalizzazione e la relazione umana. Sarà una strada non sempre facile, ma, come ci ricorda Kotler, “nel marketing, l’obiettivo finale è creare un cliente, non solo una vendita”.
E in un mondo sempre più digitalizzato, è proprio il ritorno alla relazione umana a rappresentare il vero futuro del marketing. Non si tratta di abbandonare la tecnologia, ma di usarla come strumento per creare connessioni più profonde, autentiche e durature. La tecnologia, in definitiva, ci ha portato lontano. Ora tocca a noi, come esseri umani, riportare il marketing più vicino al cuore delle persone.