Chiunque tratti dati personali è tenuto a garantire che le informazioni dovute per Legge siano erogate agli interessati in modo intellegibile, chiaro e trasparente.
È stato definito autorevolmente che questo dovere si estrinseca nella necessità di valutare il livello medio degli interessati cui ci si rivolge e tarare, quindi, le modalità con cui le informazioni vengono messe a disposizione. E allora perché non provare a sfruttare il potere mediatico degli influencer per educare i giovani sui rischi e le opportunità del mondo online?
Il livello medio di utenza dei social
Quale è il livello medio di utenza di una piattaforma digitale video, o di un social network?
Attualmente: considerando che ciascuna piattaforma ha una fascia di utenza parzialmente difforme, è possibile considerare che il grosso degli utenti medi abbia dai 12 ai 40 anni, con preponderanza di giovanissimi.
Verrebbe automatico, quindi, pensare che le informazioni previste per legge vengano erogate in un formato pensato e studiato per i più giovani.
Ovviamente, così non è.
“Appeal”, inteso come “capacità di attrazione, di richiamo” è un termine forse forte, ma se si legge con attenzione ciò che richiede la Legge e si tiene conto dell’opinione delle Autorità preposte ad interpretarla, è esattamente ciò che ci si attende da parte di chi è tenuto a fornire informazioni in ordine al trattamento di dati personali, in particolare dei minori.
Ed è quindi un dato di fatto che le piattaforme digitali abbiano l’obbligo di studiare le modalità di informazione con maggiore “appeal” per i loro utenti medi, se ci riferiamo alla necessità che essi siano informati in modo chiaro, completo, trasparente ed intellegibile rispetto alle questioni attinenti al trattamento dei loro dati personali.
Ma hanno altresì la responsabilità etica e morale di essere più coinvolgenti ed efficaci anche nel combattere l’analfabetismo digitale inteso come incapacità di comprendere i rischi dei propri comportamenti online (sia attivi che passivi?)
Tutto lascia pensare che la risposta sia sì.
L’AI Act e il concetto di necessaria “alfabetizzazione”
Lo ricaviamo, ad esempio, dall’AI Act, laddove introduce il concetto di necessaria “alfabetizzazione”.
Essa viene intesa come “attività volta ad implementare competenze, le conoscenze e la comprensione che consentono ai fornitori, ai deployer e alle persone interessate, tenendo conto dei loro rispettivi diritti e obblighi nel contesto del regolamento, di procedere a una diffusione informata dei sistemi di IA, nonché di acquisire consapevolezza in merito alle opportunità e ai rischi dell’IA e ai possibili danni che essa può causare”.
Si auspica, inoltre, che la stessa responsabilizzazione possa trovare spazio nelle linee guida Agcom, che dovrebbero essere di prossima emanazione.
E, senza voler entrare nelle altrui competenze, è facile fare una valutazione da “esterni” e presupporre che il canale più intellegibile e attrattivo sia proprio quello che garantisce “appeal” a ciascuna piattaforma.
Arruolare gli influencer per combattere l’analfabetismo digitale
In un futuro prossimo ideale, dovrebbero forse essere (rispetto a piattaforme di intrattenimento video o social) proprio gli influencer (tik-tokers, youtubers, etc.) – debitamente formati e contrattualmente “obbligati” a farlo – a veicolare le informative privacy e, ancora perché no, a contribuire nel modo sicuramente più efficace a combattere l’analfabetismo digitale dei propri followers.
Perché non sfruttare, per il caso delle piattaforme di gaming online, l’appeal dei protagonisti dei vari giochi online, per trasmettere messaggi di informazione e sensibilizzazione prima o durante la sessione di gioco?
E così via, per ciascuna tipologia di piattaforma digitale.
Fatico a pensare che questo sia difficile da realizzare.
Fatico a pensare che questo verrà realizzato in tempi brevi.
Fatico, però, ancora di più a pensare che sia considerabile conforme l’attuale assetto.
L’importanza di una formazione accurata
Mio figlio sa cosa è una VPN e come funziona non perché si è sorbito un padre DPO per 6 dei suoi 12 anni, ma perché, banalmente, ben DUE Youtubers sono sponsorizzati da una nota azienda che vende servizi di VPN e, quindi, ne parlano in modo intellegibile ed evidentemente efficace per qualche secondo in ogni loro video. Full stop. Cos’altro vogliamo aggiungere?
Forse, potremmo solo aggiungere che le informazioni che il suddetto minore (mio figlio) ha acquisito dal suddetti youtuber sono tutte sicuramente corrette dal punto di vista del funzionamento tecnico, ma non altrettanto dal punto di vista della legittimità degli utilizzi prospettati.
Ed è pertanto fondamentale riflettere sull’importanza di fornire una formazione accurata a chi dovesse essere investito dell’onere di promulgare informazione o sensibilizzazione e, al di là di questo, anche a chi si avventura in tali ambiti per fini pubblicitari.