diritto d’autore

AI e copyright: la partita si gioca su revenue sharing e equo compenso



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Il caso Perplexity riaccende il dibattito sulla remunerazione dei contenuti usati per addestrare l’AI. Mentre i grandi editori negoziano accordi milionari, emerge la necessità di un sistema equo che tuteli anche i piccoli creator. La sfida è bilanciare innovazione e diritti d’autore

Pubblicato il 7 nov 2024

Alfredo Esposito

Studio Legale Difesa d’Autore



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Le dispute legali che ruotano intorno all’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale si sono arricchite di elementi che, soprattutto da un punto di vista strategico-processuale, permettono di effettuare alcune considerazioni sia in seno all’utilizzo delle generazioni di tali modelli in campo aziendale, sia sugli equilibri generali che potranno, eventualmente, essere raggiunti, garantendo quella certezza sugli utilizzi capaci di fornire equilibrio e sostenibilità all’intero ecosistema digitale.

Un assetto più certo consentirebbe non solo di ridurre i rischi legali, ma anche di favorire un approccio responsabile all’intelligenza artificiale, in cui le aziende possano investire con maggiore fiducia e i creatori di contenuti vedano riconosciuto il valore delle loro opere in modo equo e sostenibile.

Il caso emblematico di Perplexity

Un esempio rilevante in questa disputa riguarda il modello di AI Generativa creato da Perplexity, una delle aziende più discusse in questo momento, sia per la specificità di utilizzo che per la capacità, qui analizzata nei mesi scorsi, di fornire fonti e contributi direttamente verificabili e con espliciti link di collegamento.

Tale è stata la diffusione negli ultimi mesidel modello Perplexity che l’azienda, come riportato dal Wall Street Journal, si è trovata, in un buona compagnia insieme ad OpenAI, al centro di un procedimento legale intentato dal New York Post per violazioni di copyright.
Perplexity ha la specificità di utilizzare l’intelligenza artificiale generativa per creare risposte alle query (domande poste attraverso prompt) degli utenti, posizionandosi come concorrente di Google nel campo dei motori di ricerca. Il fondatore Aravind Srinivas ha comunicato l’ambizioso obiettivo di raggiungere mezzo miliardo di query giornaliere entro il 2026.


Per comprendere la portata economica, oltre quella meramente tecnica, può essere utile sapere che la compagnia, sostenuta da Jeff Bezos e Nvidia, è in trattative per un finanziamento che potrebbe raddoppiare la sua valutazione a oltre 8 miliardi di dollari.
La startup ha un ricavo annualizzato stimato intorno ai 50 milioni di dollari.

Le proposte di Perplexity per risolvere le dispute

Nonostante questi numeri siano poco equivocabili, Perplexity ha dichiarato, attraverso i propri funzionari, di essere stata colta di “sorpresa” dal contenzioso poiché la società era aperta a una “conversazione commerciale appropriata.”
Come segno di apertura, l’azienda ha proposto un modello di revenue-sharing, suggerendo ai ricorrenti di partecipare alla suddivisione dei proventi generati dall’utilizzo dei contenuti.
Da un punto di vista processuale, è chiaro che questo approccio non solo eviterebbe una lunga disputa giudiziaria, ma permetterebbe di stabilire una forma ulteriore di compenso per l’uso dei contenuti protetti. News Corp, proprietaria del Wall Street Journal e del Post, ha già stabilito un accordo di licenza con OpenAI per 250 milioni di dollari, della durata di cinque anni.

Training AI: le enormi implicazioni dei casi in corso

L’incertezza normativa riguardo alla liceità dell’addestramento dei modelli di AI generativa su contenuti protetti è uno degli aspetti più controversi della questione. Se da una parte abbiamo visto che le aziende di AI difendono questa pratica richiamandosi all’uso legittimo, o “fair use” secondo la dottrina americana, dall’altra i proprietari dei diritti sostengono che l’addestramento costituisca una violazione della proprietà intellettuale. Le determinazioni giuridiche che emergeranno da questi casi avranno implicazioni enormi: potrebbero diventare dei precedenti legali fondamentali, stabilendo o limitando l’accesso ai contenuti per il training dei modelli di AI.

Comprendere l’evoluzione di questi casi da un punto di vista non solo giuridico, ma anche processuale, è essenziale. Esiste la possibilità che alcuni procedimenti non arrivino a sentenza, ma si concludano con accordi pre-decisionali che evitano il rischio e i costi di un processo completo. La proposta di revenue-sharing di Perplexity ne è un esempio, offrendo un compromesso pragmatico che potrebbe influenzare il modo in cui le cause future saranno trattate.
D’altra parte non si discute se vi sia stata un’attività o meno (crawling e scraping su tutti) ma se tale attività possa ritenersi consentita per i fini, evidentemente commerciali, delle compagnie che addestrano i modelli di AI Generativa e se sia di base possibile, in qualche modo, remunerare (e non risarcire) i content creator di ogni ambito creativo o legato alla produzione di opere di ingegno.

La sentenza della Corte Regionale di Amburgo

Un piccolo passaggio sulla recente sentenza della Corte Regionale di Amburgo (case 310 O 227/23), conferma principi già consolidati nella normativa europea. La Corte ha infatti ribadito che lo scraping di immagini protette da copyright per la creazione di dataset è consentito solo se finalizzato alla ricerca scientifica, in linea con le eccezioni già previste dal diritto d’autore tedesco ed europeo.
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni commentatori frettolosi, la decisione non introduce novità sostanziali né legittima un uso indiscriminato dei contenuti protetti, lasciando peraltro aperta la questione cruciale dell’utilizzo di questi dataset per l’addestramento commerciale dei modelli di AI.

Modello revenue-sharing: un paragone con Spotify

Il modello di revenue-sharing proposto da Perplexity per risolvere le dispute legali presenta interessanti parallelismi con il sistema di compenso di piattaforme come Spotify, che distribuisce una quota delle entrate generate dagli abbonamenti e dalla pubblicità agli artisti e alle etichette in base al numero di ascolti. Tuttavia, nonostante Spotify sia nato per remunerare i creator, suscita critiche continue per le basse quote riservate agli artisti indipendenti e meno noti. Il sistema di Spotify tende infatti a favorire le grandi etichette, che negoziano accordi commerciali diretti e ricevono una fetta considerevole dei ricavi, lasciando meno risorse ai piccoli artisti.

Il modello di revenue-sharing proposto da Perplexity ricalca questa struttura: mira a risolvere i contenziosi con i grandi gruppi editoriali, ma non offre un sistema di compenso per i piccoli creator i cui contenuti sono stati ugualmente utilizzati. Così come su Spotify, dove i piccoli artisti ricevono solo frazioni di centesimo per ogni streaming, anche nell’AI i creator indipendenti rischiano di vedere poco o nulla, a meno che non abbiano la forza legale per avanzare una rivendicazione.

Equo compenso e prospettive per i content creator

La mancanza di un sistema di compenso equo per i content creator, specialmente quelli piccoli, è una questione centrale. I grandi gruppi editoriali, come News Corp, possono negoziare accordi multimilionari, ma i piccoli creator che generano contenuti digitali non hanno le risorse legali ed economiche per far valere i propri diritti. Questo crea un evidente squilibrio e solleva questioni etiche rilevanti: è giusto che solo i più potenti possano beneficiare di un sistema di compenso, lasciando i piccoli creatori senza alcuna forma di tutela?

Un modello di “equo compenso digitale” potrebbe rappresentare un approccio maggiormente risolutivo. Questo sistema consentirebbe una remunerazione proporzionale all’importanza e all’utilizzo dei contenuti nei modelli di training dell’AI, indipendentemente dal potere economico dei singoli autori o creator. Per garantire un’adeguata protezione dei diritti e un’implementazione efficace, sarebbe necessaria una regolamentazione che preveda licenze e compensi trasparenti, accessibili sia ai grandi che ai piccoli creatori.

Opportunità e sfide per aziende e content creator

La disputa sull’AI generativa e le proposte di revenue-sharing non rappresentano solo una questione legale: sono una prova del fuoco per i modelli di business del futuro. Le aziende che si occupano di contenuti, media e tecnologia devono quindi destinare risorse affinché non solo si studi attentamente l’evoluzione normativa, che potrebbe rivelarsi un fattore competitivo determinante. Altresì, un’adozione proattiva di sistemi di compenso inclusivi e trasparenti consentirebbe di anticipare le esigenze di conformità, mantenendo l’azienda competitiva in un contesto di regolamentazione incerto.

Oggi, l’utilizzo dell’AI generativa è essenziale per molte imprese, che la sfruttano per migliorare la customer experience e automatizzare la produzione di contenuti o sperimentare modelli di business ad oggi ancora poco conosciuti. Tuttavia, con l’aumento della diffusione, aumenta anche la necessità di trovare un equilibrio tra l’innovazione tecnologica e il rispetto dei diritti di chi produce contenuti editoriali. Una sfida, come stiamo vedendo, davvero ardua.

In questo contesto, le aziende lungimiranti che adottano fin da subito un approccio etico e inclusivo alla compensazione potrebbero riuscire a creare un vantaggio competitivo sostenibile. Non solo, un modello di compenso equo rafforzerebbe anche la fiducia e la reputazione aziendale, garantendo un ecosistema digitale più bilanciato. Per tale motivo, la vera sfida è costruire strategie che bilancino innovazione e sostenibilità, assicurandosi che il valore generato dall’AI Generativa sia equamente distribuito tra tutti i protagonisti della catena di produzione digitale.

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