L’idea di potenziare i soldati con tecnologie avanzate in grado di superare i limiti del corpo umano non è più solo fantascienza, ma una realtà che si sta rapidamente evolvendo. Queste tecnologie mirano a trasformare i soldati in combattenti potenziati, capaci di operare in scenari estremi con maggiore forza, resistenza, capacità sensoriale e intelligenza tattica.
Nel panorama delle tecnologie militari emergenti un ruolo cruciale è giocato dalle Embodied Technologies e dalle Neuroweapons, che hanno lo scopo di accrescere le capacità fisiche e cognitive del soldato moderno, impiantando su di esso dispositivi avanzati che riflettono i progressi nel campo delle neurotecnologie in campo militare, evidenziando lo sviluppo di una nuova tipologia di asset per le forze armate moderne. Queste tecnologie, diretta espressione delle ricerche sul potenziamento umano (human enhancement), stanno ampliando lo spettro di riflessione del pensiero postumanista e transumanista, ridisegnando i confini tra uomo e macchina, con implicazioni etiche e sociali significative. In questo breve articolo si offrirà una panoramica dello sviluppo di tali tecnologie in ambito militare, evidenziando il loro rapporto con il concetto di post-umano, con particolare attenzione all’impatto sui conflitti attualmente in corso, dove hanno già fatto il loro ingresso i primi soldati “aumentati”.
La militarizzazione del corpo: nascita del “super-soldato”
È indubbio che il settore emergente della neurotecnologia militare stia tuttora modificando il concetto di guerra. L’obiettivo di questo campo di ricerca (i cui studi sono spesso top secret e finanziati da black budget da parte dei governi) è quello di mettere a punto sistemi d’arma intelligenti integrati che possano essere utilizzati non solo per migliorare le prestazioni cognitive dei combattenti (human enhancement), ma anche come mezzo rendere più “umana” l’intelligenza artificiale nei sistemi d’arma autonomi e robotici. Ciò, tuttavia, richiede un quadro di governo dell’etica cyborg in grado di garantire il controllo, l’autonomia, l’integrità e la responsabilità umana nella condotta delle operazioni militari (Nørgaard & Linden-Vørnle 2021).
Embodied Technologies e neuroweapons anticipano il futuro della guerra
Le Embodied Technologies e le Neuroweapons anticipano il futuro della guerra, un futuro nel quale i confini tra uomo e macchina, corpo e tecnologia, si fanno sempre più sfumati ed evanescenti. Queste tecnologie, infatti, offrono straordinarie opportunità per migliorare le capacità operative dei soldati, ma pongono anche nuovi e difficili interrogativi di tipo etico e legale. In sostanza, la questione centrale riguarda fino a che punto siamo disposti a spingere la manipolazione del corpo e della mente umana in nome della difesa e della sicurezza nazionale. È ancora presto per parlare di macchine intelligenti, in grado di prendere il controllo del campo di battaglia sostituendo i combattenti umani, ma i recenti progressi nel campo delle neurotecnologie militari, della robotica e dell’intelligenza artificiale evocano l’immagine del “guerriero cyborg” che tante volte abbiamo visto nei film o nei videogames (Asaro, 2008; Galetta, 2024). In effetti, la nascita di una generazione di super-soldati, invincibili sul campo di battaglia, frutto di un processo di ibridazione cibernetica uomo-macchina, basato su innesti di protesi biomeccaniche e sul potenziamento neurocognitivo, fa ancora parte della mitologia del cyborg diffusa nell’immaginario collettivo dalla fantascienza a partire dagli anni Ottanta (si pensi a film come Terminator, il cult-movie diretto nel 1984 da James Cameron ed interpretato da un giovane Arnold Schwarzenegger), ma le attuali ricerche nel campo della neurotecnologia militare e, in particolare sulle Neuroweapons, mirano proprio all’innesto nel corpo umano (embodiment) di tecnologie potenzialmente in grado di migliorare le prestazioni cognitive dei combattenti (augmented cognition).
Le ricerche DARPA sul controllo neurologico diretto dei sistemi d’arma
Negli ultimi anni la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), l’agenzia di ricerca e sviluppo militare incaricata di mantenere la superiorità tecnologica militare degli Stati Uniti, sta accelerando le ricerche sul controllo neurologico diretto dei sistemi d’arma, nonché lo sviluppo di tecnologie in grado di aumentare l’intake di informazioni da parte dei combattenti in situazioni ad elevato stress e pericolo, come quelle vissute sul campo di battaglia (Morrison, Kobus & Brown, 2006; White, 2008). Già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’USAF (United States Air Force) aveva avviato il programma IIC (Information Integration Center): questo progetto prevedeva la creazione di una costellazione integrata e interconnessa di satelliti “intelligenti”, che avrebbero avuto il compito di raccogliere informazioni provenienti da varie fonti, analizzare e “deconfliggere” i dati (ovvero eliminarne le incoerenze), trasmettendoli in modalità wireless ad operatori umani remoti dotati di microchip impiantati nel cervello, consentendo loro di collocarsi virtualmente nello spazio di battaglia e di visualizzare immagini mentali generate dal computer (U.S. Air War College 1996; Osborne et al. 1996).
In tal modo, si sarebbe potuto integrare gli esseri umani in un sistema informativo simile ad un network di computer collegati in rete, ma le modalità di trasmissione dei dati sarebbe stata soggetta a disturbi di frequenza o altre forme di interferenza, rendendo instabile l’intero sistema, senza considerare la fragilità psicologica propria degli esseri umani in situazioni di combattimento, nonché le ripercussioni etiche e morali insite nel processo stesso d’ibridazione uomo-macchina. Già in quegli anni gli apparati militari si erano resi conto che un tale “sistema di sistemi”, che ai più sarebbe apparso fantascientifico, avrebbe richiesto enormi capacità d’integrazione ed interconnessione fra sistemi tecnologicamente diversi tra loro (satelliti, radar, sensori di ricognizione, dispositivi di comando e controllo remoto, sistemi di visualizzazione, sistemi di rilevazione dei segnali, piattaforme d’arma avanzate, sistemi di puntamento, etc.), richiedendo una trasformazione radicale nell’architettura dei processi decisionali militari: la capacità di elaborazione dei dati da parte di un sistema così complesso sarebbe stata troppo veloce per permettere all’operatore umano di intervenire sull’intero processo senza rallentarne il ciclo. D’altro canto, più si estendeva la portata dell’operatore al di fuori dello “spazio umano”, più sarebbe stato necessario chiedere l’assistenza dell’intelligenza artificiale per l’elaborazione in tempo reale di una enorme massa di dati, finendo per delegare sempre di più l’intero processo decisionale alle macchine, determinando una perdita di controllo umano significativo.
Interfacce neurali e hyperwar
Le attuali ricerche nel campo della neurotecnologia militare stanno prefigurando nuovi scenari, sempre più complessi. Gli studi sulle interfacce neurali o BCI (brain-computer interfaces) e l’impianto di microchip nel cervello dei primi pazienti umani da parte della Neuralink di Elon Musk, costituiscono la piattaforma di sviluppo di tecnologie neurali militari in grado di accrescere le capacità cerebrali di un normale soldato, creando una relazione diretta tra cervello e computer, comprimendo in tal modo i tempi decisionali, di reazione e di prontezza al combattimento al fine di garantire risposte sempre più efficaci e performanti sul campo di battaglia (Hyperwar).
Il processo di upgrade della mente del soldato
L’enorme quantità di dati da elaborare e l’estrema velocizzazione degli stimoli nell’ambito dei nuovi scenari di combattimento “aumentato” stanno cominciando a rendere obsoleto l’addestramento ai simulatori (wargames), richiedendo una nuova generazione di dispositivi integrati (o meglio, incarnati) in grado di potenziare le capacità cognitive dei militari, accrescendo in tal modo la consapevolezza situazionale (situational awareness) all’interno degli attuali scenari multidominio a supporto dei processi decisionali (Army Capabilities Integration Center – Future Warfare Division, 2018).
Questo processo di upgrade della mente del soldato, comporta il superamento del modello net-centrico, basato su architetture esterne, ed il passaggio ad un modello mind-centrico, basato su una maggiore centralità della mente umana, “aumentata” dall’intelligenza artificiale (Murray & Yanagi 2015). Lo scopo, almeno apparentemente, non è quello di alterare le funzionalità del cervello, ma di delegare e velocizzare alcune funzioni che l’IA è in grado di gestire meglio, velocizzando i tempi di risposta umana, dato che la velocità d’azione è il requisito più importante sul campo di battaglia, in grado di determinare un vantaggio sul nemico (McCreight 2015). Infatti, l’obiettivo principale nello sviluppo delle Neuroweapons è quello di migliorare le prestazioni cognitive dei combattenti sul campo di battaglia attraverso il potenziamento delle capacità umane (human enhancement), reso possibile dalla neurotecnologia militare (Schmorrow & Fidopiastis 2014; Wurzman & Giordano 2015; Krishnan 2016). Per fare qualche esempio, si pensi alle interfacce avanzate cervello-computer (BCI) integrate nel casco personale utilizzato dai piloti di caccia F-35 (wearable cockpit), o ai dispositivi HMD (Head-mounted display) montati sugli elmetti degli specialisti, sia in fase di addestramento che in operazioni tattiche sul campo, connessi online a sensori e GPS (sistema Nett Warrior), che consente ai soldati di essere costantemente connessi alla rete tattica integrata (ITN) e di inviare e ricevere dati, permettendo ai comandi centrali di osservare in tempo reale le posizioni delle unità sul campo di battaglia. A tal scopo, sono stati compiuti importanti progressi neuroscientifici in aree quali la neurointelligenza (fusione di intelligenza-analisi predittiva), il potenziamento neurocognitivo dei combattenti (interfacce cervello-computer adattive e interattive) e le Neuroweapons propriamente dette (dispositivi di miglioramento cognitivo dell’operatore umano assistiti dall’IA per il riconoscimento dei bersagli, nonché il coordinamento e controllo dei sistemi d’arma) (Giordano 2015).
L’implementazione di IA e sistemi neurocognitivi in scenari di guerra
L’implementazione dell’IA e dei sistemi neurocognitivi in scenari di guerra rappresenta, dunque, la necessaria risposta alla crescente quantità di dati trasmessi in tempo reale nell’ambiente operativo, nonché alle sfide poste dal sovraccarico di informazioni che supera i limiti delle capacità cognitive umane; ed è sul terreno della velocità di elaborazione dei dati e dell’efficacia strategica che si sta spostando la competizione degli apparati militari dei vari paesi. In battaglia i tempi di risposta sono vitali e una gestione rapida ed efficace dei flussi informativi può essere decisiva per le sorti di un conflitto. Infatti, la capacità di una macchina di percepire, valutare e agire in maniera più rapida e accurata di quanto possa fare un essere umano rappresenta senza dubbio un vantaggio competitivo irrinunciabile per qualsiasi forza armata, che può così imporre la propria supremazia informativa sul nemico: si tratta di un vantaggio strategico in grado di decidere il corso di un guerra.
Embodied Technologies: il corpo come arma
Le Embodied Technologies sono dispositivi neurotecnologici o biomeccanici (invasivi o non-invasivi, ovvero innestati o indossati) in grado di integrarsi con il corpo umano, potenziando le capacità fisiche e cognitive del combattente. Tali tecnologie, come esoscheletri, protesi intelligenti e dispositivi impiantabili, mirano a trasformare i soldati in veri e propri cyborg, integrando elementi meccanici e digitali capaci di aumentare le prestazioni umane, migliorando forza, resistenza, rapidità e precisione, superando in tal modo i limiti biologici: l’obiettivo è quello di rendere i soldati in grado di operare in scenari estremi con maggiore controllo motorio, capacità sensoriale e intelligenza tattica.
Esoscheletri militari: il progetto Talos
L’esempio più noto è rappresentato dagli esoscheletri militari, come il progetto TALOS (Tactical Assault Light Operator Suit), sviluppato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, il cui obiettivo è quello di “inserire un uomo dentro un robot”, accrescendo il livello di integrazione uomo-macchina in maniera tale da soddisfare diversi requisiti operativi riscontrabili durante le missioni, come ad esempio un’adeguata protezione balistica e capacità tattiche avanzate, in grado di aumentare l’efficacia strategica delle forze speciali. Si tratta di una “super armatura” (non a caso definita tuta “Iron Man”), che combina una struttura meccanica dotata di sensori che migliorano la percezione e la protezione del soldato, permettendo un notevole incremento della capacità fisica, come la resistenza al peso o l’assorbimento di impatti. TALOS consente infatti ai soldati di trasportare carichi pesanti e affrontare situazioni estreme con una maggiore resistenza, ampliando di fatto le loro capacità fisiche: la struttura è quella di un esoscheletro indossabile, dotato di elmetto con visiera aumentata di tipo Hud (Head Up Display), un impianto interno di refrigerazione/riscaldamento e una suite di sensori collegati in remoto con i centri di comando, in grado di comunicare in tempo reale la posizione dell’operatore e i suoi parametri biomedici. La sua architettura “open” permette di implementare ulteriori accessori e sistemi, in fase di continuo aggiornamento e sviluppo da parte della Joint Acquisition Task Force Talos. Un dispositivo simile è stato sviluppato anche dalle forze armate russe, con il sistema di protezione individuale Ratnik.
Il programma HULC
Un altro esempio è il programma HULC (Human Universal Load Carrier), un esoscheletro sviluppato dalla Lockheed Martin, progettato per consentire ai soldati di trasportare fino a 90 kg senza compromettere la velocità di movimento. HULC è equipaggiato con una serie di sensori che monitorano il livello di affaticamento e regolano automaticamente l’assistenza per ottimizzare l’efficienza. Questi esoscheletri sono pensati per resistere a lungo in ambienti difficili e in futuro potrebbero essere integrati con l’intelligenza artificiale per potenziare le prestazioni cognitive e migliorare ulteriormente l’interazione uomo-macchina. Ma gli innesti biomeccanici non si limitano all’aumento delle capacità fisiche: dispositivi come protesi neurali e interfacce cervello-computer sono in grado di restituire sensibilità tattile o persino fornire il controllo diretto dei sistemi d’arma tramite impulsi neurali.
L’evoluzione della Neurowarfare
Tali sviluppi portano direttamente all’evoluzione della Neurowarfare, dove il cervello diventa parte integrante del sistema d’arma (Krishnan, 2016). Infatti, uno degli aspetti più rivoluzionari delle ricerche riguarda una più stretta integrazione tra l’uomo e la macchina: si pensi ai dispositivi impiantabili e alle interfacce neurali, che permettono ai soldati di controllare veicoli e droni con il pensiero, o accedere a informazioni tattiche proiettate direttamente nel campo visivo tramite display retinici impiantati, dotati di realtà aumentata. Questo tipo di tecnologia è attualmente in fase di sperimentazione avanzata presso laboratori militari, come dimostrato dai recenti test sul Cognitive Pilot Assist del progetto DARPA, dove un’interfaccia cervello-macchina consente ai piloti di controllare aeromobili senza mani, semplicemente attraverso l’uso delle onde cerebrali (Morrison, Kobus & Brown, 2006). Questi progressi stanno introducendo in battaglia una nuova logica, quella del manned-unmanned teaming, dove il soldato potenziato agisce come un “centro di comando mobile” (human in the loop) per una rete di dispositivi autonomi, come droni o robot esploratori dotati di sistemi FPV (first person view), che possono essere inviati in aree pericolose senza rischiare la vita umana e senza la necessità di effettuare operazioni boots on the ground.
Nell’ambito del simposio NATO dal titolo “Applying neuroscience to performance: from rehabilitation to human cognitive augmentation”, svoltosi a Roma nell’ottobre 2021, uno studio presentato dall’Applied Physics Laboratory della Johns Hopkins University in collaborazione con la TNO (società olandese attiva nel settore delle neurotecnologie), pubblicata sul portale NATO Science and Technology Organization (STO), ha affermato che i risultati raggiunti attualmente dalla ricerca indicano chiaramente che l’introduzione delle interfacce neurali (BCI) in ambito militare rappresenta un mezzo importante per espandere e migliorare il lavoro di squadra tra uomo e macchina (human-machine teaming), dato che l’esercito statunitense sta incorporando sempre di più l’intelligenza artificiale ed i sistemi semiautonomi nelle sue operazioni (Brouwer et al., 2022). In questo caso, la stretta integrazione uomo-macchina attraverso l’innesto di impianti neurotecnologici (le Embodied Technologies sono sostanzialmente “tecnologie incarnate”) non riguarda soltanto i veterani feriti in battaglia, cui è possibile restituire mobilità e funzionalità (tecnologie riabilitative), ma anche i soldati attivi in servizio (tecnologie aumentative). Ma lo human enhancement in ambito militare non si limita solo al potenziamento delle capacità fisiche: come già visto, impianti neurali e interfacce cervello-computer (BCI) offrono nuove opportunità per il controllo a distanza di dispositivi e sistemi d’arma tramite il pensiero, portando a una connessione sempre più stretta tra mente e tecnologia. Tale sviluppo è profondamente connesso al pensiero transumanista, che promuove il superamento dei limiti biologici umani tramite l’integrazione con i dispositivi cibernetici (Bostrom, 2005). Infatti, le tecnologie aumentative non sono solo in grado di potenziare le capacità tattiche dei soldati, ma pongono le basi per una reale fusione tra cervello e computer, inserendosi nel contesto della Information Age Transformation in ambito militare, dove l’integrazione uomo-macchina è fondamentale per migliorare l’efficacia operativa delle truppe, come suggerito da Alberts (2002) nel suo studio sulla trasformazione militare del XXI secolo. Tuttavia (come sta già accadendo con i sistemi autonomi d’arma o LAWS), le “tecnologie incarnate”, pur offrendo vantaggi significativi sul piano strategico, sollevano complessi interrogativi sul piano etico, legati all’integrità e all’autonomia del soldato potenziato, nonché cruciali domande su come l’identità umana e l’autodeterminazione siano messe a rischio da queste trasformazioni (Balistreri, 2015). I futuri sviluppi dovranno pertanto essere bilanciati con una riflessione critica sui rischi e le implicazioni che tali tecnologie potranno avere sulla natura umana e sulla guerra.
Neuroweapons: la militarizzazione della mente
Le Neuroweapons rappresentano un campo di ricerca molto controverso, in quanto comportano la modificazione della mente a scopi bellici. Lo sviluppo di interfacce neurali, che consentono la comunicazione bidirezionale tra cervello e computer o sensori esterni, permette non soltanto di collegare l’operatore umano con un hardware o un software, ma anche con un altro operatore umano (B2BI, brain-to-brain interface) (Skinner 2019). La confluenza uomo-computer (HCC, human computer confluence) rappresenta dunque il nuovo paradigma di una interazione paritaria ed incarnata tra uomo e macchina, che può esprimersi a vari livelli (fisico, meccanico, cognitivo e comportamentale): l’operatore umano non ha più necessità di fornire comandi o istruzioni alla macchina, in quanto si realizza una modellazione reciproca tra i due partner attraverso un’ibridazione tra realtà fisica e realtà digitale (human-machine integration) (Sariel, 2021). Il risultato è l’empowerment dell’operatore umano all’interno di un crescente processo di militay enhancement basato sullo sviluppo di dispositivi cibernetici sempre più avanzati, che renderanno possibile innestare le capacità di elaborazione e analisi dell’IA direttamente nel cervello dei soldati, incorporando (o meglio, incarnando) le capacità di visione onnicomprensiva e di elaborazione dell’intelligenza artificiale, realizzando un apparato integrato di percezione-visione-elaborazione-decisione-azione in grado di potenziare le performance e i tempi di reazione delle truppe, giungendo alla creazione di un soldato “aumentato” (augmented warfighter) o “potenziato” (enhanced soldier) (Schmorrow e Kruse, 2004; Balistreri 2015). Infatti, l’integrazione dell’IA nelle operazioni militari rappresenta un altro pilastro dello human enhancement (Ahmed, 2022): la collaborazione uomo-macchina può portare a nuovi livelli di efficienza operativa, soprattutto grazie all’uso del machine learning nei processi di intelligence militare, ed è stata già sottolineata l’importanza di applicare algoritmi avanzati al campo bellico, delineando il futuro della cosiddetta algorithmic warfare, dove l’IA supporta il processo decisionale sul campo di battaglia (Layton, 2018). Infatti, la combinazione di augmented cognition e innesti cibernetici consentirà ai soldati di elaborare quantità enormi di dati, aumentando notevolmente la loro capacità di percezione e reazione: tecnologie come l’Exocortex, una sorta di “cervello esterno” che agisce come un’estensione cognitiva del soldato, permetterebbero di eseguire in tempo reale calcoli complessi (come le coordinate di tiro) e analizzare scenari tattici con una rapidità che supera le naturali capacità umane (Schmorow & Fidopiastis, 2014). Alcuni dei potenziali sviluppi comprendono la creazione di una rete di soldati cibernetici interconnessi, in grado di condividere informazioni tramite reti neurali in tempo reale, creando una forza operativa capace di agire come un’entità unificata e sincronizzata secondo una “logica di sciame”. Inoltre, la medicina rigenerativa e i materiali avanzati sviluppati tramite le nanotecnologie potrebbero consentire l’autoriparazione di protesi e innesti, riducendo la necessità di interventi chirurgici e migliorando la longevità delle tecnologie integrate, a beneficio della salute e dell’integrità fisica delle truppe.
Neuroweapons e guerra cognitiva: il rapporto dello Stato Maggiore della Difesa italiano
Il profondo impatto delle neurotecnologie sulla dimensione cognitiva ed il loro utilizzo operativo in scenari di guerra è attualmente argomento di attenta riflessione anche da parte Stato Maggiore della Difesa italiano, che ha dedicato alla tematica un interessante rapporto, con l’intento di innovare la propria dottrina militare sulla base dei più recenti sviluppi delle neurotecnologie applicate al settore della difesa (Ministero della Difesa – Stato Maggiore della Difesa 2023). Lo spostamento della competizione militare nella dimensione cognitiva si basa sull’idea che le guerre del futuro saranno combattute sempre più nella mente dei soldati e dei comandanti, con tecnologie che interferiscono sui processi cognitivi influenzando il risultato delle operazioni sul campo. Le Neuroweapons, infatti, possono essere progettate anche per interferire con il sistema nervoso degli avversari, alterandone le capacità cognitive e comportamentali. Tecnologie come le armi elettromagnetiche sono in grado compromettere le funzioni cerebrali, causando confusione, disorientamento e persino paralisi temporanea. Giordano (2015) evidenzia come tali dispositivi rappresentino un nuovo tipo di minaccia nel campo della guerra cognitiva, dove la manipolazione della mente diventa un’arma di controllo strategico. Krishnan (2016), nel suo studio sulle neuroscienze militari, suggerisce che tali tecnologie cambieranno radicalmente il modo in cui vengono condotte le operazioni belliche.
Nel contesto della “guerra cognitiva”, le Neuroweapons non solo attaccano il corpo, ma puntano a disabilitare l’avversario tramite la manipolazione diretta delle sue percezioni e delle sue decisioni. Il raggiungimento della Cognitive Superiority è infatti l’obiettivo principale per i prossimi anni dell’agenda NATO, che ha individuato come pilastro fondamentale delle ricerche lo sviluppo di un proprio Cognitive Warfare Concept, con la certezza che le guerre del futuro si combatteranno nella dimensione cognitiva e ciò richiederà un nuovo tipo di soldato.
Come già anticipato, le Neuroweapons non comprendono solo le interfacce cervello-computer (BCI), ovvero i dispositivi impiantati direttamente nel cervello, in grado di potenziare le facoltà mentali del soldato (Augmented Cognition), ma anche dispositivi in grado di influenzare a distanza l’attività elettrica cerebrale dell’avversario. Poiché i conflitti globali stanno assumendo forme sempre più asimmetriche, sviluppando oscure “zone grigie”, il settore militare sta utilizzando le scienze neurocognitive per mettere a punto dispositivi in grado di manipolare il pensiero e il comportamento umano, che verranno sempre più utilizzati nelle operazioni di guerra, intelligence e sicurezza nazionale (WINS operations).
Questa nuova tipologia di armi, infatti, ha lo scopo di manipolare o danneggiare il sistema nervoso degli avversari, interferendo con le loro capacità sensoriali e cognitive (DeFranco, DiEuliis & Giordano, 2020). I progressi nel campo delle neuroscienze, infatti, hanno aperto la strada allo sviluppo di armi che agiscono direttamente sul cervello umano, interferendo con la percezione, la memoria e persino le emozioni: si pensi ad esempio alla stimolazione magnetica transcranica (TMS), alla stimolazione elettrica transcranica (tES), alla stimolazione ultrasonica transcranica focalizzata (tFUS) o alla stimolazione transcranica dei nervi periferici (tPNS) (Brunyé, 2022). Un’altro scenario che si sta attualmente configurando è quello di armi che utilizzano onde elettromagnetiche o altri mezzi (come armi soniche o a microonde) per alterare lo stato mentale e l’equilibrio psichico dei soldati nemici, disabilitandoli senza necessariamente provocare danni fisici diretti. Il caso più noto (e ancora in fase di studio) è rappresentato dalla cosiddetta “sindrome dell’Avana”, comparsa per la prima volta nel 2016 quando numerosi membri dell’ambasciata statunitense a L’Avana accusarono simultaneamente alterazioni sensoriali e cognitive. Da allora lo stesso fenomeno si è ripetuto ai danni di funzionari statunitensi in varie parti del mondo. Tali tecnologie mettono in discussione il tradizionale concetto di guerra, spostando il focus dalla distruzione fisica alla manipolazione cognitiva (Gramm & Branagan, 2021). Anche in questo caso, l’uso delle Neuroweapons e la militarizzazione delle neuroscienze sollevano questioni etiche di enorme portata, che coinvolgono la violazione dell’integrità mentale dell’individuo e della sua autonomia, ampiamente analizzate da numerosi studiosi e centri di ricerca internazionali, che hanno denunciato i pericoli di una disumanizzazione del soldato (Mehlman, Lin & Abney, 2018; Comitato Nazionale per la Bioetica, 2013; de Boisboissel & Revue, 2020; Brunyé et al., 2020; Sattler et al., 2022).
Human-Machine Integration: sviluppi futuri e influenza del postumanesimo
Il concetto di human enhancement è al centro del dibattito sull’uso delle tecnologie aumentative e delle neurotecnologie in ambito militare. Come si è visto, il potenziamento umano riguarda l’uso della tecnologia per migliorare le capacità fisiche, mentali, cognitive ed emotive del combattente, affinché possa essere più performante sul campo di battaglia: l’obiettivo è quello di potenziare le truppe oltre i loro limiti biologici, creando un soldato “potenziato”.
Questa visione è intrinsecamente legata al pensiero transumanista, che promuove l’uso della tecnologia per migliorare la condizione umana e, in definitiva, superare la nostra attuale forma biologica, evolvendo e potenziando l’essere umano in stretta connessione con le tecnologie digitali e le neurotecnologie; ma in tal caso il potenziamento riguarda le capacità offensive e difensive del soldato moderno, non soltanto l’essere umano in quanto tale: si tratta quindi dello sviluppo della dimensione post-umana e transumanista della guerra (More & Vita-More, 2013). Il Transumanesimo, infatti, promuove un’umanità potenziata dalla tecnologia, dove gli esseri umani non saranno più limitati dai vincoli biologici della propria corporeità. Questa visione si estende al concetto di post-umano, una condizione futura in cui l’essere umano, grazie ad impianti cibernetici, modifiche genetiche ed interfacce uomo-macchina, potrebbe evolversi in una forma di vita superiore, potenzialmente immortale, in stretta connessione con la macchina.
Tuttavia, in ambito militare, queste idee si traducono in un’arma a doppio taglio: se da un lato un soldato potenziato potrebbe essere in grado di svolgere missioni impossibili per un essere umano normodotato, dall’altro si rischia di spersonalizzare il combattente, riducendolo a una macchina da guerra depotenziata della sua umanità. Togliere l’umanità ai soldati ci espone al rischio che anche le guerre diventino disumane, nonchè al pericolo che la tecnologia, lungi dal produrre soldati migliori, finisca per produrre un esercito di zombie fuori controllo o di Manchurian candidates (Condon, 1988; Hanlon, 2011).
Il dibattito sull’etica del potenziamento umano in contesti di guerra
Embodied Technologies e Neuroweapons aprono, dunque, un dibattito complesso sull’etica del potenziamento umano in contesti di guerra. Da una parte, le forze armate vedono in tali tecnologie la possibilità di ridurre le perdite umane e aumentare l’efficacia operativa delle azioni e l’efficienza psicofisica dei combattenti; dall’altra, l’idea di manipolare o potenziare i soldati solleva preoccupazioni su come queste tecnologie possano minare diritti umani fondamentali, quali l’integrità mentale e l’autonomia.
Se il concetto di cyborg militare si scontra con il principio di autonomia e autodeterminazione del soldato, l’uso delle Neuroweapons rappresenta una sfida al principio di proporzionalità nel diritto bellico, che impone di minimizzare la sofferenza inflitta agli avversari. Il calcolo delle analisi costi-benefici associate alle tecniche di neuro-miglioramento, spesso basato anche su dispositivi di natura chimica e farmacologica, può essere difficile quando gli effetti a lungo termine di una data tecnologia sono relativamente sconosciuti: si pensi, ad esempio, all’uso del Pervitin da parte delle truppe naziste durante la Seconda guerra mondiale, che aveva lo scopo di eliminare la percezione della fatica e dello stress in battaglia, potenziando le prestazioni dei soldati, ma causando effetti collaterali imprevisti e devastanti per i soldati stessi.
Proprio come con la somministrazione di stimolanti, che ha rischi a lungo termine di dipendenza e abuso, anche le tecniche neuromodulatorie possono avere conseguenze negative a lungo termine per il benessere psicofisico. Mentre in alcuni casi ci si potrebbe aspettare che il neuro-miglioramento riduca il rischio di lesioni o morte (limitando ad esempio i sintomi del PTSD o disturbo postraumatico da stress), in altri casi i risultati potrebbero essere del tutto sconosciuti o imprevedibili. In effetti, qualsiasi intervento progettato per alterare esogenamente l’attività cerebrale, il pensiero, il carattere e il comportamento, aumentando la prestanza psicofisica, sta già probabilmente riducendo la capacità dell’individuo di autogovernarsi, soprattutto se si pensa agli impianti neurali e alla possibilità che questi possano essere alimentati e in qualche modo “condizionati” dall’intelligenza artificiale (Puscas, 2019). Il concetto di autonomia implica il rispetto e l’evitamento di qualsiasi influenza indebita sulla capacità e sul diritto di autogovernarsi da parte del singolo individuo, specie se questo è abilitato all’esercizio delle armi e all’uso della forza letale. Il personale militare rappresenta, infatti, un caso particolare per quanto riguarda l’autonomia, dato che la scelta di servire il proprio paese e di assoggettarsi alla dottrina e alla disciplina militare già implica una limitazione dell’autocontrollo, seppur per dovere di servizio. Le tecnologie di potenziamento, specie quelle invasive come i microchip cerebrali, aumentano ulteriormente la probabilità di coercizione dell’individuo ed espone il personale militare a rischi indebiti per la sicurezza. Tale possibilità non è esclusiva delle popolazioni militari, ma qui il rischio è amplificato dalla necessità di battere il nemico, salvaguardando la propria incolumità e quella dei propri commilitoni in battaglia. Come si vede, i rischi del potenziamento umano in ambito militare sono numerosi ed investono sia la sfera medica, che quella etica e giuridica, imponendo enormi sforzi di regolamentazione a livello internazionale: politiche e procedure per la scelta e l’impiego di tecnologie di neuro-potenziamento in ambito militare sono assolutamente necessarie per supportare la sicurezza e proteggere l’autonomia individuale.
Conclusioni
Le Embodied Technologies e le Neuroweapons segnano un cambio di paradigma nelle modalità di conduzione della guerra. Il soldato del futuro potrebbe essere potenziato a livelli inimmaginabili, grazie all’integrazione di tecnologie avanzate in grado di amplificare le sue capacità fisiche e cognitive. Tuttavia, un tale sviluppo porta con sé sfide etiche, sociali e giuridiche enormi, che richiedono una riflessione profonda sul futuro dell’umanità e della guerra. Mai come oggi, l’integrazione tra uomo e macchina è in grado non solo di ridefinire la logica dei conflitti, ma anche di trasformare radicalmente il senso stesso dell’essere umani. Come si è visto, le nuove tecnologie di human-machine integration in ambito militare pongono importanti questioni etiche, soprattutto in termini di autonomia, integrità umana e proporzionalità nel conflitto armato. Come suggerito da Asaro (2008), una guerra combattuta con robot e soldati potenziati potrebbe condurre a conflitti asimmetrici e disumanizzati, dove la sofferenza e la distruzione non saranno più valutate attraverso il prisma della moralità umana tradizionale.
La riflessione etica si estende anche alla responsabilità decisionale nei sistemi di guerra automatizzati (LAWS), un tema centrale per le discussioni sul post-umano, che immagina un futuro in cui l’uomo sarà inesorabilmente ridotto a una componente di un sistema più grande e tecnologicamente avanzato, simile ad una sorta di Matrix (Ceola & Gaza, 2013). Come già ribadito, sebbene i progressi nel campo delle Embodied Technologies e delle Neuroweapons offrano numerosi vantaggi in ambito militare, gli stessi pongono questioni etiche significative. Quali sono i limiti dell’integrazione uomo-macchina? Qual è il rischio di disumanizzazione dei soldati, trasformati in macchine da guerra prive di autonomia decisionale, assoggettate alla guida di sistemi decisionali artificiali? L’impiego delle tecnologie aumentative sta già evidenziando come il potenziamento tecnologico del corpo sia in grado di alterare la percezione dell’individualità e della responsabilità morale del soldato. Inoltre, l’utilizzo diffuso di tali tecnologie potrebbe inesorabilmente scatenare una corsa agli armamenti tecnologici, con implicazioni devastanti in caso di conflitto tra superpotenze.
La superiorità tecnologica è ormai diventata un fattore determinante nella conduzione dei conflitti, ma la possibilità che le macchine possano essere in grado di controllare gli armamenti e i soldati stessi, renderebbe obsolete le forze armate tradizionali, spingendo gli Stati a investire massicciamente nella ricerca e nello sviluppo di sistemi di guerra cibernetica e neurale sempre più avanzati, con il rischio della perdita definitiva del controllo umano sugli eventi.
Bibliografia
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