la battaglia antitrust

Google spezzatino? Che succede se si scorpora Chrome



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Il Dipartimento di Giustizia USA chiede lo scorporo di Chrome e possibilmente Android. In gioco il futuro della ricerca online e 26 miliardi di accordi commerciali. L’azienda si appella alla leadership tecnologica americana. Quali implicazioni?

Pubblicato il 25 nov 2024

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione



google (2) (1)

La posizione del Dipartimento di Giustizia (DoJ) Usa contro Google è netta. Dopo aver ottenuto ad agosto scorso da parte del giudice federale Amit Mehta il riconoscimento che Google detiene un monopolio illegale nella ricerca online, violando la legge antitrust, il Dipartimento ha confermato al giudice la lista dei rimedi proposti per garantire “non solo che Google cessi di controllare la distribuzione oggi, ma che non possa controllare la distribuzione domani[1]”.

Adesso il mercato digitale fa i conti con uno scenario che fino a qualche anno fa era impensabile: lo spezzatino Google. Forse solo il primo dei tanti in salsa big tech.

Ma quali sono i valori in gioco? Quali le implicazioni?

La questione Antitrust

Vengono confermate e rafforzate le indicazioni emerse nella fase processuale, così riassunte dallo stesso Dipartimento (e dagli enti statali che ne condividono l’azione) : “i querelanti propongono una serie di rimedi interconnessi e auto-rafforzanti per: (1) interrompere e prevenire accordi di esclusione con terze parti; (2) impedire a Google di auto-preferirsi attraverso la sua proprietà e il controllo dei prodotti correlati alla ricerca; (3) impedire a Google di soffocare o eliminare le minacce competitive emergenti attraverso acquisizioni, investimenti di minoranza o partnership; (4) divulgare dati critici per ripristinare la concorrenza; (5) aumentare la trasparenza e il controllo per gli inserzionisti; (6) porre fine alla distribuzione illecita di Google e (7) consentire l’applicazione dei rimedi elencati, impedendone l’elusione”[2].

Secondo il Dipartimento, Chrome deve essere scorporato per riaprire la concorrenza nel mercato. Il DoJ ha anche lasciato aperta la strada allo scorporo del sistema operativo mobile Android[3], azione che non viene richiesta, ma considerata come una opzione nel caso che i provvedimenti suggeriti non sortiscano il voluto effetto di aprire la competizione sulla ricerca.

Chrome è il browser più diffuso, con una quota stimata al 67% del mercato mondiale, mentre il sistema operativo per cellulari ha una quota pari al 71%[4]. Samsung ed altri produttori non devono pagare nulla per la sua installazione che è “open source”. Ma poiché Android è installato insieme alle altre app di Google, il flusso dei pagamenti è in direzione opposta. Durante il processo, uno dei punti critici di Google, era emerso con la rivelazione che solo nel 2021 l’azienda aveva pagato 26 miliardi di dollari per restare come opzione di default della ricerca nel browser Safari di Apple[5].Tra i rimedi proposti uno dei più significativi è proprio l’inibizione a “comprare” da terze parti, come Apple e altri produttori di terminali mobili, il diritto di preinstallare Google come motore di ricerca di default.

La risposta di Google

“Il Dipartimento preme per un programma di interventismo radicale che può minacciare gli americani e la leadership americana nella tecnologia globale” è stata la risposta di Alphabet, per bocca del suo responsabile degli affari legali, Kent Walker[6]. Una risposta che invoca lo spirito trumpiano di America First in modo chiaro ed esplicito. Alphabet si è messa in sala d’attesa per essere ascoltata dal nuovo inquilino della Sala Ovale. Come hanno fatto gli altri. Ma non è affatto detto che il nuovo governo dia ascolto incondizionato alle ragioni di Alphabet.

La procedura prevede che Google e il Dipartimento si ripresentino ad aprile dal giudice Mehta per il secondo gradino del confronto legale, quando sarà effettuata la valutazione e decisione dei rimedi da applicare[7]. Questo accadrà sotto la nuova Amministrazione, che per altro sarà guidata da Trump, ossia dallo stesso Presidente sotto il quale è stato avviato l’intero procedimento, al quale al momento hanno aderito, contro Google, oltre 50 entità statali americane, compresi District of Columbia, Portorico, Guam e Hawaii[8].

I lavoratori di Google avevano incontrato in precedenza (23 ottobre) online il Dipartimento per chiedere che nel porre in discussione il monopolio del motore di ricerca non si mettessero a rischio i dipendenti di Alphabet[9]. Queste preoccupazioni “sociali” intorno all’azione del Dipartimento, manifestate da parte dei lavoratori e dei sindacati, potrebbero essere tra la ragioni più ascoltate da parte della nuova Amministrazione, se avesse intenzione di non calcare la mano contro Big Tech e al tempo stesso di tenere d’occhio il consenso elettorale. Insomma, quando Trump assumerà il potere, assisteremo ad una nuova fase nella quale si potrà intravedere se le relazioni con la nuova amministrazione cambieranno o rimarranno conflittuali come durante l’amministrazione Biden, ovvero tese e ondivaghe come durante la prima amministrazione Trump.

Con l’occasione verificheremo anche se l’evidente avvicinamento di Big Tech al campo repubblicano, che si è manifestato durante tutto il 2024, avrà portato i frutti di una amministrazione meno interventista.

Gli ammiccamenti delle big tech a Trump pagheranno?

Trump ha annunciato che ritirerà l’ordine esecutivo di Biden sull’intelligenza artificiale.

In bilico il destino della Sezione 230 del Communication Decency Act del 1996

E questo è un segnale. Ma Brendan Carr, scelto da Trump per la Federal Communication Commission, non è affatto vicino alle posizioni di Big Tech, essendo tra coloro che ritengono che debba essere rivista la tutela rispetto ai diritti d’autore e alle responsabilità editoriali, derivanti dalla Sezione 230 del Communication Decency Act del 1996[10]. In sostanza, la formulazione del 1996 garantisce l’immunità da responsabilità per i provider e gli utenti di un servizio informatico interattivo che pubblicano informazioni fornite da utenti terzi: “Nessun provider o utente di un servizio informatico interattivo sarà considerato l’editore o l’enunciante delle informazioni fornite da un altro fornitore di contenuti informativi”. Lo stesso Trump durante la campagna elettorale del 2020 annunciò che voleva revocare le protezioni determinate dalla Sezione 230. Quelle che sono state chiamate le “26 parole che hanno creato internet”, erano pensate dai relatori bipartisan Chris Cox (repubblicano) e Ron Wyden (democratico) come strumenti per la “autoregolazione” delle aziende stesse[11].

Un tema, come sappiamo, che torna sulla scena con l’avvento dell’intelligenza artificiale e le posizioni di Microsoft favorevoli ad un mix di regolazione ed autoregolazione.

La presa di posizione pro Trump del Washington Post a guida Bezos

Che cosa farà Trump con Big Tech? Trump, nel 2020, affermava “Twitter non sta facendo nulla a riguardo di tutte le bugie e alla propaganda diffuse dalla Cina o dal Partito Democratico di Sinistra Radicale”[12]. Certamente oggi X, la nuova versione di Twitter è molto attento alle ragioni di Trump: non ci poteva essere più stretta convergenza. È probabile che questo fatto, ossia il semplice schieramento dalla sua parte, sia sufficiente a far svanire le velleità regolatorie di Trump in questo ambito.

Ma è difficile immaginare una linearità di interventi; è facile, invece, prevedere una politica opportunista, alla quale Big Tech risponderà con altrettanto opportunismo, come ha dimostrato di fare, prima ancora dell’esito delle elezioni Bezos, con il bavaglio posto al Washington Post, che gli è costato oltre 200.000 abbonamenti on line. Bezos ha seguito l’onda cavalcata dagli altri top manager e imprenditori di Big Tech, quando ha saluto l’elezione di Trump con giubilo: “Grandi congratulazioni al nostro 45° e ora 47° Presidente per uno straordinario ritorno politico e una vittoria decisiva. Nessuna nazione ha opportunità più grandi. Auguriamo a @realDonaldTrump tutto il successo nel guidare e unire l’America che tutti amiamo.”[13]

L’impatto sul mercato e sull’innovazione

Ma quanto vale il contenzioso in corso? Il ricavo dalla pubblicità sul motore di ricerca, vale circa il 56% dei ricavi di Google, come si vede dalla figura 1.

Se il giudice dovesse accogliere le richieste del Dipartimento riguardo alla cessione di Chrome, sarebbe difficile fare una stima diretta del suo valore, poiché si tratta della chiave di accesso agli altri servizi. Basandosi sul numero degli accessi, pari a 3 miliardi di utenti-mese, la stima potrebbe essere compresa tra 15 e 20 miliardi di dollari.[14] D’altra parte, l’associazione dell’industria dei computer e delle comunicazioni (CCIA) critica la richiesta di eliminare gli accordi con i produttori di terminali per la preinstallazione del motore di ricerca di Google come default. CCIA sostiene che il tal modo si eliminerebbe un sussidio che, basandosi sui dati resi noti in giudizio, potrebbe significare un aumento del costo di un singolo apparecchio di circa 87 dollari.[15] Non tutto l’aumento di costo potrebbe essere traslato sul consumatore, parte potrebbe trasformarsi in riduzione dei profitti, ma l’impatto resterebbe significativo.

Mozilla offre gratuitamente il suo browser Firefox, ed è sostenuta dall’accordo con Google, che ha dato un contributo di 510 milioni di dollari negli anni 2021-2022, pari all’86% del totale dei ricavi. Infine, secondo CCIA altri costi si manifesterebbero se fossero accolte le richieste del Dipartimento di Giustizia, a causa del fatto che molti servizi offerti gratuitamente da Google in un ecosistema che funziona in modo integrato, diverrebbero servizi a pagamento, dal browser ai sistemi operativi dei telefoni.

Il timore, certamente partigiano, ma non del tutto infondato, è che rimedi draconiani portino ad una rallentamento della capacità di investimento dell’industria, senza riuscire a creare quegli spazi competitivi che dovrebbero spingere ad una maggiore innovazione.

Note

1) Jack Simpson, Google faces US government attempt to break it up, The Guardian, Oct. 9, 2024.

2) Executive Summary of Plaintstiff’s Proposed Final Judgment, https://storage.courtlistener.com/recap/gov.uscourts.dcd.223205/gov.uscourts.dcd.223205.1062.0.pdf

3) Lauren Feiner, DOJ says Google must sell Chrome to crack open its search monopoly, The Verge, Nov. 21, 2024.

4) David McCabe, U.S. Proposes Breakup of Google to Fix Searchg Monopoly, The New York Times, Nov. 20, 2024.

5) US considers breaking up Google after illegal monopoly ruling, reports say, The Guardian, Aug. 15 2024.

6) Kent Alker, DOJ’s staggering proposal would hurt consumers and America’s global technological leadership, Google Public Policy Post, Nov. 21, 2024.

7) Dan Milmo, Google must sell Chrome to end search monopoly, says US justice department, The Guardian, Nov. 21, 2024.

8) DoJ, https://storage.courtlistener.com/recap/gov/otscourts.dcd.223205/gov.uscourts.dcd.223205.

9) Lauren Feiner, Google workers to DOJ: we need protections to make your breakup effecctive, The Verge, Nov. 20, 2024.

10) La norma fu ripresa dal Communication Act del 1934, ed estesa nella norma del 1996, che voleva proteggere le aziende che cominciavano ad operare in modo interattivo sulla rete, e che erano oggetto, all’inizio degli anni Novanta, di alcune cause che, sollevando la responsabilità per affermazioni diffamatorie, ponevano la questione se i provider dovessero essere trattati come editori.

11) Anshu Siripurapu, Trump and Section 230: What to Know, Council for Foreing Relations, Dec. 2, 2020.

12) Paolo Confino, Trump vuole che le Big Tech si assumano la responsabilità dei contenuti postati sui social, Fortune Italia, Nov. 20, 2024.

13) https://x.com/JeffBezos/status/1854184441511571765.

14) Leah Nylen, Google’s Chrome Worth Up to $20 Billion If Judge Orders Sale, Bloomberg News, Nov. 19. 2024.

15) Trevor Wagener, Consumers Beware: Potential Costs of DOJ Antitrust Remedies in the Google Search Trial, Computer and Communication Industry Association, October 7, 2024.

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