A riprova del fatto che solo chi svolge il proprio lavoro puntando alla sufficienza o rifacendosi alla banalità conclamata può temere di essere sostituito da un’Intelligenza Artificiale, basta giocherellare con una qualunque applicazione rinvenibile nel Web supposta a comporre canzoni per rendersi conto che la macchina da sola non ce la può fare. Se ne trovano a bizzeffe, articolate con varie funzionalità, capaci di musicare testi esistenti abbinandoli a generi e voci apparentemente idonei alla richiesta, come pure di comporre liriche su semplice suggerimento di qualche elemento indispensabile alla presunta personalizzazione.
Come giochino di società queste App sono davvero divertenti, permettono a chi se ne serve di plasmare brani musicali completi senza assumersi alcuna responsabilità per la stupidità in essi rivelata. Il Bot infatti soddisfa la duplice esigenza di produrre qualcosa di superficialmente impeccabile assumendosi al contempo la maternità della congenita idiozia manifestata nei dettagli. Chi lo usa si appropria del risultato fenomenale, salvo scaricare sulla macchina il peso delle sue lacune.
Musica e IA, una questione di gusto
Il problema è come sempre una questione di gusto. Non basta che tecnicamente una produzione sia plausibile quando non addirittura sorprendente per affidabilità e aderenza ai criteri estetici che vanno per la maggiore. Il senso complessivo di una creazione include molti strati cui l’arte combinatoria di una struttura che può pescare ovunque nel deposito dell’internet non basta. Il fattore umano rimane l’unica variabile capace di donare a quella creazione il soffio della vita.
La goffa creatività dei programmi d’Intelligenza Artificiale pensati per costruire canzoni su misura dovrebbe confortare gli autori veri: nessuna IA sarà mai in grado di costruire una vera bella canzone che penetri la squallida superficialità della combinazione di sterili dati verso una profondità che all’umano viene invece così naturale.
Ovviamente si parla di un umano dotato di talento nell’accezione cara a Roland Barthes: la conoscenza di limiti che possono solo affinarsi e non espandersi, la consapevolezza del confine oltre il quale si fallisce, l’ambito felice in cui la qualità inesorabilmente sbaraglia qualunque quantità acquisita surfando nel Web.
Le composizioni senza spessore dell’IA
Messa da parte la comodità di una costruzione su misura, con tanto di nomi e cognomi scelti dal committente che non a Biko o a Mandela, non a Bovary o a Giovanna D’Arco dedica il brano, ma alla moglie nell’anniversario di nozze, così da avere nel ritornello versi eccelsi del tipo: “La bella Emy, Emilia Corsini / tanto amata da grandi e piccini”, e tralasciata pure la facilità con cui si può far scrivere una canzone d’amore cui i bigliettini dei Baci Perugina fanno un baffo, cosa rimane di sedicente artistico nella combinazione sussiegosa di generi e note musicali su testi dalle rime dubbie a opera di una applicazione “intelligente” a tale scopo concepita?
La forma può ingannare a prima vista, anzi, a primo ascolto. Ma come staccarla dal contenuto che, da Benedetto Croce in giù, è decretato come da essa inscindibile? Contenuto e forma sono due lati della stessa medaglia, senza l’uno non si arriva all’altra e viceversa. Superficiale l’una, privo di profondità l’altro. Ed è lo spessore il grande assente da composizioni che attingono allo scibile musicale umano senza comprenderne minimamente le rilevanze e le marginalità.
Se per esempio si chiede all’IA di scrivere un testo che abbia per protagonista Maria, abile cuoca sposata con Marco e invaghita di un ex chiamato Toto, con il quale vorrebbe tornare a viaggiare per le isole greche, la mancanza di humour e la tendenza a colmare i vuoti con dati reperibili un po’ ovunque faranno scaturire un testo di una mostruosità apparentemente romantica, in cui Toto è trasformato in Totò (perché quello è più famoso e ricorre senz’altro più frequentemente nel Web), le zucchine in cucina si abbinano al lesso per fare rima con un participio passato non meno improbabile, e il sogno fedifrago finisce con una danza sulla sabbia di scarsissimo appeal. Il tutto corredato da soluzioni musicali e vocali estratte dalla mediocrità di maggior successo con un effetto esilarante. Per far ridere tutta la famiglia il brano è inestimabile, ma per il resto esprime la desolata vacuità creativa di un sistema operativo fondato su dati pressoché infiniti e sull’inesistenza del buongusto.
L’assenza della poesia nelle “creazioni” dell’IA
Qualcuno potrebbe pensare, per ovviare all’inconveniente della comicità involontaria, di scriversi il testo, il che già richiede un talento che non tutti hanno, e farlo musicare all’App scegliendo tra i numerosi stili a disposizione e gli strumenti musicali più suggestivi. Può anche decidere se farlo cantare a una voce femminile o maschile, di certo intonata oppure sfasata ad arte con l’autotune attualmente in voga. Il risultato non sarebbe meno straniante, perché all’indubbia perizia tecnica si accosterebbe inevitabilmente un concetto di medietà cui l’IA non sa sottrarsi. Insomma, incapace di comprendere la rappresentatività di una sineddoche, l’Applicazione ricorre senza tregua alla tranquillità dello stereotipo. E qui l’arte, che fondamentalmente è “tecnica”, denuncia la sua pochezza in assenza di poesia, che è “creazione”.
Se la definizione di trash è il fallimento nella riproduzione di un modello, l’IA produttrice di canzoni non riesce a sfuggire al trash nemmeno quando appare tecnicamente ineccepibile, venendole a mancare la genuinità creativa che, insondabilmente, si rivela essere proprio una caratteristica umana.
Il genio creativo di Elio e le Storie Tese e la superiorità umana rispetto alla macchina
Per capirci: il gioco della decostruzione e ricostruzione dei generi è stata la specialità di uno dei gruppi più geniali della canzone italiana, Elio e le Storie Tese, che con espressione più o meno compassata nel 1992 ha pubblicato quel capolavoro intitolato İtalyan, Rum Casusu Çıktı (letteralmente dal turco: Italiano, spia greca espulsa).
In quest’opera riccamente ispirata campeggiano capolavori di sberleffo postmoderno quali Uomini col borsello (Ragazza che limoni sola), cui collabora vocalmente l’ex Pooh Riccardo Fogli, e Il vitello dai piedi di balsa, cui collabora l’ex Decibel Enrico Ruggeri. Le voci degli illustri ospiti dei due brani servono a siglare autorevolmente il valore dei pastiche in questione concedendosi alla presa in giro di sé stessi con una serietà che fa loro onore. Uomini col borsello trasforma un testo dedicato a un accessorio maschile in una perla di sentimentalismo, con finale strappalacrime da neomelodico napoletano, mentre Il vitello dai piedi di balsa schiaccia l’acceleratore sul nonsenso attribuendogli una parvenza sensata del tutto accettabile, con note da crooner, spunti drammatici alla Marco Masini e assertività degna di Eros Ramazzotti. Entrambi smantellano i codici dei generi presi di mira rimontandoli alla perfezione come un’IA non saprebbe fare meglio. Anzi, come un’IA non sa coscientemente fare.
L’esempio di Elio e le Storie Tese viene utile in virtù della smisurata ampiezza di citazioni di opere sublimi e infime, dai Beatles a Stefano Rosso, da Ben Turpin a David Cronenberg, che ne costituiscono la tessitura (basti consultare Wikipedia al riguardo per registrare la copiosità dei riferimenti presenti nelle canzoni del suddetto album). La loro operazione culturale è lo specchio impareggiabile dello sterminato campo di raccolta cui può far ricorso un’intelligenza nel comporre un prodotto richiesto e al tempo stesso la dimostrazione della superiorità umana rispetto a una macchina cui sfuggono l’idea del buffo, perciò il senso del ridicolo, e la capacità di valutare quanto l’insistenza su un luogo comune contribuisca a distruggerne l’efficacia.
Mentre Elio & Co. scelgono i vari elementi allo scopo decostruttivo critico di quanto rappresentato, in primis della canzone in sé, l’App “canzonettistica” riproduce moduli senza alcun discernimento nei rimandi, seguendo quale unico indirizzo il preconcetto del genere ricercato.
Il tutto condito da alcuni sfasamenti lessicali che sembrano accomunarli ma invece li allontanano, come il “catoblepa” animale fantastico di etimologia quattrocentesca citato dagli Elii in Supergiovane e il “gordo”, versione obsoleta di ingordo, estratto invece dalla Commedia dantesca per il brano di cui sopra creato in casa dall’IA. Parole non più in uso, si mostrano paradossalmente simboli di cultura sofisticata nella citazione umana e di ignoranza livellante in quella artificiale.
In Elio e le Storie Tese il genere mostra la corda autodistruggendosi, nell’IA la banalità esplode offrendo l’illusione di “cantare qualcosa che conosciamo tutti”, richiesta di per sé stereotipica, una canzone “bella senz’anima” che a un ascolto esteticamente sintonizzato lascia smarriti.
Se esiste caricatura, non è più applicata al genere usato bensì alla creatività umana, disastrosamente quanto inconsapevolmente scimmiottata. Il ricorso meccanico a generi e stereotipi senza spirito artistico individuale è parodia dell’umano. L’arte creata da algoritmi ne è falsificazione, in quanto tale risulta vuota. Non tutte le cose meritano di diventare canzone, Elio e le Storie Tese lo dimostrano facendo di tale inclusione forzata, nel ritmo e nella metrica, la loro missione di inarrivabile arguzia. Un’arguzia incomprensibile all’IA.
Non escludiamo che App del genere possano essere di una qualche utilità per suggerire melodie e spunti armonici, come in passato lo furono i dischi ascoltati al contrario per coglierne qualche idea musicale. Non possiamo escludere che possano rivelarsi utili per costruire canzoni per il prossimo Festival di Sanremo, ammesso che già non siano state usate per quello scorso. Ma siamo certi che l’intelligenza complessa alla base di una buona ideazione artistica, quando si tratta di creare la poesia musicale chiamata canzone, non possa essere affidata a un Robot, per quanto ben programmato.