Le relazioni commerciali continuano a riconfigurarsi e il cambiamento della geopolitica ne è una delle ragioni principali. Con l’aumento delle tensioni tra Stati Uniti e Cina, tuttavia, tale ristrutturazione non si limita solo agli Stati, ma investe anche le aziende che rivedono le proprie catene di approvvigionamento, spostando la produzione altrove.
Indice degli argomenti
Il mutamento delle relazioni economiche tra Stati
Diversi Paesi allineati agli Stati Uniti stanno “disaccoppiando” o “de-rischiando” in qualche modo i loro legami economici e tecnologici con la Cina. Gli strumenti unilaterali degli Usa, come i controlli sulle esportazioni, hanno permesso ai funzionari americani di svolgere un ruolo di primo piano nell’isolare Pechino dalle catene di fornitura globali e nell’ispirare, o costringere, altri Paesi a seguirne l’esempio, afferma Carnegie nel suo recente rapporto dal titolo China Decoupling Beyond the United States: Comparing Germany, Japan, and India.
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Politiche di disaccoppiamento in Germania, Giappone e India
In particolare, negli ultimi cinque anni, Germania, Giappone e India hanno aumentato le politiche di disaccoppiamento. Tuttavia, aggiunge il think tank statunitense, “invece di un movimento uniforme verso il disaccoppiamento, ogni nazione ha sperimentato una complessa interazione tra frammentazione in alcuni settori e impegno in altri”.
Esempi di disaccoppiamento
Ad esempio, il governo tedesco ha intensificato il controllo degli investimenti cinesi in entrata, anche se le case automobilistiche tedesche stanno aumentando la collaborazione con le aziende cinesi di veicoli elettrici. Allo stesso modo, l’India ha vietato in modo aggressivo le app cinesi sul mercato indiano, ma importa quantità crescenti di prodotti tecnologici cinesi.
Nonostante le differenze, tutte e tre le nazioni si stanno muovendo in una direzione complessivamente più restrittiva.
Influenza delle relazioni bilaterali
La traiettoria di disaccoppiamento di ogni nazione è stata modellata più dalle relazioni bilaterali con la Cina che dall’influenza degli Stati Uniti, affermano gli autori del rapporto. Sebbene i politici statunitensi abbiano a volte esercitato pressioni su ogni nazione affinché si allineasse alla politica statunitense nei confronti della Cina, con vari gradi di successo, questi sforzi sono stati raramente il fattore decisivo nella posizione politica di ogni Paese. Ad esempio, nel 2019 la Germania ha respinto le esortazioni statunitensi a vietare Huawei, ma ha iniziato a riconsiderare la sua politica su Huawei nel 2023 dopo l’intensificarsi delle preoccupazioni su un potenziale sabotaggio cinese.
Analogamente, le intense preoccupazioni del Giappone in materia di sicurezza sono precedenti a quelle degli Stati Uniti e sono determinate da un rapporto politico storicamente conflittuale con la Cina e da una compatibilità economica in declino.
A differenza degli Stati Uniti, né la Germania, né il Giappone, né l’India hanno preso l’iniziativa di ostacolare il progresso tecnologico della Cina, avverte Carnegie.
Gli USA hanno cercato attivamente di limitare i progressi di Pechino in settori chiave come i semiconduttori avanzati e il Giappone ha talvolta attuato politiche simili in risposta alla leadership e alle pressioni statunitensi. Ma l’iniziativa politica del Giappone è limitata dal desiderio di evitare ritorsioni da parte della Cina. Anche la Germania considera questo antagonismo come un’inutile escalation. La prospettiva dell’India non è chiara, ma Nuova Delhi non ha il controllo su nessun punto di approvvigionamento chiave con il quale potrebbe fare leva sulla Cina. “Nel complesso, ciascuno dei tre Paesi è più preoccupato di ridurre la propria vulnerabilità all’influenza o allo sfruttamento cinese, piuttosto che ostacolare attivamente lo sviluppo delle capacità della Cina”.
Impedire l’acquisizione dell’industria nazionale da parte della Cina, obiettivo chiave per ogni nazione
Tutte le nazioni prese in esame da Carnegie, compresi gli Stati Uniti, hanno aumentato la regolamentazione degli investimenti in entrata negli ultimi cinque anni. Tali decisioni sono state spesso prese in risposta all’afflusso di investimenti cinesi e con l’obiettivo di impedire la proprietà cinese di aziende tecnologiche chiave. Ogni nazione ha anche cercato di rafforzare la forza dell’industria nazionale attraverso sussidi, incentivi fiscali o altre politiche favorevoli.
L’approccio statunitense al disaccoppiamento
Secondo il documento, sono gli Stati Uniti ad aver adottato un approccio più restrittivo rispetto a qualsiasi altra nazione. “Washington vede l’ascesa della Cina con grande preoccupazione e, negli ultimi dieci anni, si è sempre più preoccupata che l’integrazione tecnologica con Pechino crei vulnerabilità sostanziali per la sicurezza nazionale e la leadership economica globale degli USA”.
Gli USA, inoltre, attuano politiche che implicitamente mirano allo sviluppo tecnologico della Cina. La più chiara di esse è rappresentata dai controlli sull’esportazione dei semiconduttori, emanati nell’ottobre del 2022, che limitano la capacità di Pechino di accedere e sviluppare tecnologie avanzate per i semiconduttori. Sebbene nominalmente concepiti per impedire l’equipaggiamento tecnologico delle forze armate cinesi, questi controlli limitano ampiamente l’accesso della Cina ai semiconduttori per una serie di scopi commerciali e tecnologici.
Gli Stati Uniti sono riusciti a incoraggiare altri Paesi, tra cui il Giappone e i Paesi Bassi, ad allinearsi a parti dei controlli statunitensi, ma nessun altro Paese ha intrapreso di propria iniziativa misure così significative per ostacolare l’accesso della Cina alle tecnologie avanzate.
Ad esempio, gli USA sono stati il primo Paese a limitare l’installazione di reti 5G da parte di Huawei e hanno adottato meccanismi di controllo degli investimenti sempre più severi per regolare sia gli investimenti cinesi in aziende statunitensi sia gli investimenti statunitensi in aziende tecnologiche cinesi. Alcuni Paesi hanno seguito l’esempio, limitando le apparecchiature di telecomunicazione di Huawei e limitando l’afflusso di capitali da parte degli investitori cinesi, ma pochi si sono avvicinati al livello di restrittività degli Stati Uniti.
Le politiche restrittive dell’india
L’India è l’unica nazione che si avvicina alla politica statunitense in termini di restrittività complessiva. Sebbene l’India non abbia emanato sanzioni di tipo statunitense né controlli sulle esportazioni rivolte alla Cina, secondo il think tank Nuova Delhi ha limitato in modo significativo l’accesso al mercato di prodotti hardware e software cinesi come i telefoni e la tecnologia di rete Huawei, TikTok e UC Browser, anche più di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti. Infatti, la decisione dell’India di vietare TikTok nel 2020 è stata successivamente citata dal Presidente Donald Trump come motivazione per un divieto statunitense.
È improbabile che la Germania, il Giappone o l’India eguaglino o superino la restrittività degli Stati Uniti nei confronti della Cina nel prossimo futuro.
Sebbene le traiettorie di disaccoppiamento di tutte le nazioni abbiano subito un’accelerazione negli ultimi cinque anni, per Carnegie la politica statunitense nei confronti della Cina rimane la più restrittiva per ragioni che non sembrano destinate a cambiare. La Germania non condivide molte delle valutazioni di sicurezza degli Stati Uniti sulle minacce provenienti da Pechino. Le intenzioni strategiche del Giappone sono più complesse e poco chiare, ma Tokyo ha a lungo rinunciato a molte restrizioni per paura di ritorsioni. L’India, infine, non ha né la capacità né il desiderio di contrastare lo sviluppo e l’accesso alle tecnologie avanzate da parte della Cina. Di conseguenza, gli Stati Uniti rimarranno il principale motore della politica restrittiva nei confronti della Cina nel prossimo futuro. Si veda il riquadro 1 per una panoramica della politica di disaccoppiamento degli Stati Uniti.
La dipendenza dell’Ue da Pechino
Con il passare del tempo, l’Unione Europea è diventata sempre più dipendente da Pechino per le sue importazioni, che superano di gran lunga il valore delle sue esportazioni in Cina.
Secondo Eurostat, nel settembre 2022 il deficit commerciale dell’Europa con Pechino ha raggiunto i 36 miliardi di euro, per poi scendere a 27,4 miliardi di euro nel dicembre 2022.
Scambi commerciali tra Ue e Cina
Nel gennaio 2021, invece, il deficit commerciale dell’Europa con la Cina era di soli 14,6 miliardi di euro.Attualmente, la Cina è il secondo partner commerciale dell’UE per le merci dopo gli Stati Uniti, con gli scambi bilaterali che hanno raggiunto i 739 miliardi di euro nel 2023. Ciò rappresenta un calo del 14% rispetto al 2022.
La Cina è il terzo partner dell’UE per le esportazioni e il più grande per le importazioni. La bilancia commerciale UE-Cina è stata costantemente a favore della Cina. Nel 2023, il deficit dell’UE è stato di 292 miliardi di euro. Le esportazioni dell’UE verso la Cina sono state di 223,6 miliardi di euro, mentre le importazioni dell’UE dalla Cina sono state di 515,9 miliardi di euro, indicando diminuzioni annue rispettivamente del 3,1% e del 18%.
Importazioni ed esportazioni dell’Ue
Nel 2023, i beni che l’UE ha importato maggiormente da Pechino sono stati: apparecchiature per le telecomunicazioni, macchinari e apparecchi elettrici e macchine automatiche per l’elaborazione dati.
I beni che l’UE ha maggiormente esportato in Cina nel 2023 sono stati: automobili e veicoli, medicinali e altri macchinari.
Surplus commerciale dell’Ue con Pechino
Per quanto riguarda il commercio di servizi, l’UE ha da tempo un surplus commerciale con Pechino. Nel 2023, esso ammontava a 14,1 miliardi di euro. La Cina è il quarto partner commerciale di servizi dell’UE dopo Stati Uniti, Regno Unito e Svizzera.
Il valore cumulativo degli investimenti diretti esteri (IDE) dell’UE in Cina dal 2000 ammonta a 177 miliardi di euro nel primo trimestre del 2024.
I flussi di IDE dell’UE verso la Cina hanno raggiunto i 6,4 miliardi di euro nel 2023, con un calo del 29% rispetto al 2022. I primi tre settori sono stati il settore automobilistico, i materiali di base e i macchinari.
Il valore cumulativo degli stock di IDE cinesi nell’UE-27 dal 2000 ammonta a 143 miliardi di euro nel primo trimestre del 2024.
I flussi di IDE cinesi verso l’UE ammontano a 4,7 miliardi di euro nel 2023, in calo del 10% rispetto al 2022. I primi tre settori sono stati quello automobilistico, la sanità, i prodotti farmaceutici e la biotecnologia e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Mentre fino al 2021 le fusioni e le acquisizioni costituivano la maggior parte degli investimenti cinesi, nel 2022 e nel 2023 gli investimenti greenfield hanno costituito la maggior parte degli IDE cinesi nell’UE.
Secondo una recente analisi della Commissione Europea, anche nel 2024, “mentre il numero di acquisizioni cinesi di imprese dell’UE è diminuito (da quasi 200 operazioni identificate nel 2017 a circa 50 nel 2023), gli investimenti cinesi greenfield nell’UE sono in aumento (valore circa 4 volte superiore nel 2023 rispetto al 2019)”.
Questi investimenti sono sempre più rivolti alla catena di fornitura dei veicoli elettrici (circa l’85% degli investimenti greenfield in corso e annunciati) e a Paesi specifici (ad esempio, l’Ungheria ha catturato circa un terzo degli IDE cinesi nel 2023). Sebbene gli investimenti dell’UE in Cina siano a un livello relativamente stabile, sono diventati fortemente concentrati in un numero limitato di Stati membri (la Germania ne ha catturati circa il 60% dal 2016), in alcuni settori (l’industria automobilistica ne ha attratti più del 40%) e per grandi imprese (le prime cinque imprese rappresentano, infatti, circa la metà degli investimenti). La Germania, seguita dalla Francia, integra la quota più alta degli investimenti cinesi cumulativi nell’UE, rappresentando insieme più di un terzo degli IDE cinesi dal 2000, anche se, di recente, gli investimenti si sono spostati verso altri Stati membri,come l’Ungheria che ha conquistato le quote maggiori di investimenti cinesi nel 2023 e nel 2024 (fino al terzo trimestre).
Il raffreddamento delle relazioni ue-cina
Ve detto, però, che negli ultimi anni le relazioni UE/Cina si sono raffreddate a causa dell’irrigidimento dei governi europei nei confronti di varie controversie, tra cui le questioni relative ai diritti umani, la disparità di accesso al mercato e la percezione della crescita dell’influenza cinese in Europa. Per queste ragioni, l’Accordo globale UE-Cina sugli investimenti (CAI) non è stato sottoscritto, nonostante la conclusione dei relativi negoziati sia avvenuta il 30 dicembre 2020.
Il quadro secondo il McKinsey Global Institute
Gli Stati Uniti hanno continuato a spostare gli scambi commerciali dalla Cina verso altre economie, come Messico e Vietnam. In alcuni casi, ciò è dovuto al fatto che queste economie costituiscono una tappa intermedia nei flussi commerciali tra Cina e Stati Uniti. Le economie europee si sono allontanate dal commercio con la Russia e hanno aumentato gli scambi con altri partner, in particolare con gli Stati Uniti. Le economie in via di sviluppo, piuttosto che quelle avanzate, rappresentano oggi la maggior parte delle importazioni e delle esportazioni della Cina. Economie come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), il Brasile e l’India continuano a rafforzare i legami commerciali in tutto lo spettro geopolitico.
Alla luce dei discorsi diffusi su friendshoring, nearshoring, decoupling e derisking, il McKinsey Global Institute ha così fotografato il cambiamento dei modelli commerciali.
Il mutamento più significativo in atto nei modelli commerciali è il calo della distanza geopolitica media degli scambi, sostiene l’istituto di ricerca. Questa misura è diminuita di circa il 7% tra il 2017 e il 2024, un periodo che ha visto le continue tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Il riallineamento degli scambi commerciali
Le economie ai due estremi dello spettro geopolitico hanno ridotto gli scambi reciproci: Cina, Germania e Stati Uniti hanno registrato una forte riduzione della distanza geopolitica del commercio. Tuttavia, non tutte le economie stanno riallineando i loro scambi commerciali lungo linee geopolitiche, come l’ASEAN, il Brasile e l’India.
Secondo il McKinsey Global Institute, gli Stati Uniti continuano a riorientare il commercio allontanandosi dalla Cina. Tra il 2017 e il 2024 hanno ridotto di sei punti percentuali la quota di commercio di manufatti con la Cina. Allo stesso tempo, gli USA hanno aumentato la loro quota di importazioni dal Messico e dall’ASEAN rispettivamente di circa due e quattro punti percentuali. Di conseguenza, nel 2023 il Messico è diventato il principale fornitore di beni degli Stati Uniti, posizione che la Cina deteneva dal 2007.
Nel 2024, sia il Messico che l’ASEAN hanno continuato a registrare guadagni commerciali grazie al riorientamento del commercio statunitense, con entrambe le economie che hanno guadagnato quote di commercio statunitense più velocemente nel 2024 di quanto non abbiano fatto in media tra il 2017 e il 2023. Nel frattempo, la Cina ha perso costantemente quote di importazioni statunitensi in quasi tutti i settori tra il 2017 e il 2024, con i cali più consistenti nell’elettronica, nei macchinari, nel tessile e nell’abbigliamento. In questi settori, la quota delle importazioni statunitensi dalla Cina è diminuita tra i 14 e i 16 punti percentuali nel periodo. Secondo gli analisti, ciò riflette un cambiamento nei modelli di approvvigionamento degli Stati Uniti piuttosto che un cambiamento nel mix o nei valori delle esportazioni cinesi. In effetti, aggiunge il McKinsey Global Institute, la Cina ha aumentato le sue esportazioni globali in questi settori di oltre 500 miliardi di dollari dal 2017. Inoltre, questo riorientamento delle importazioni dalla Cina sembra relativamente specifico degli Stati Uniti: né la Germania né il Regno Unito hanno registrato un calo di più di due punti percentuali nella quota di importazioni dalla Cina in questi settori tra il 2017 e il 2024.
Come si stanno riorganizzando le aziende tecnologiche
Con le tensioni tra Stati Uniti e Cina in aumento, molte aziende tecnologiche stanno spostando la produzione fuori dalla Cina e cercano fornitori altrove, il che evidenzia un mondo tecnologico globale sempre più diviso tra le due potenze, scrive il The Wall Street Journal.
‘Tutti stanno cercando un’alternativa alla Cina”, ha detto Wong Siew Hai, il capo della Semiconductor Industry Association in Malesia, una destinazione per molte aziende tecnologiche che lasciano la Cina. “Le aziende stanno riprogettando il loro business. Non esiste più una strategia ‘just-in-time’. Alcune persone chiamano questa nuova strategia ‘just in case”’.
La tendenza di allontanarsi da Pechino è particolarmente pronunciata nei prodotti legati ai semiconduttori. Questo perché negli ultimi due anni, Washington ha vietato alla Cina l’accesso ai chip e alle attrezzature più all’avanguardia, mentre Pechino ha spinto molto per sviluppare una propria autosufficienza.
Inoltre, da quando gli Stati Uniti nel 2022 hanno limitato l’esportazione di chip di intelligenza artificiale verso la Cina, i server AI vengono assemblati sempre più spesso in luoghi come il Messico e la Malesia.
Secondo il The Wall Street Journal, anche i produttori di chip e i loro fornitori stanno riducendo la loro dipendenza da Pechino. “Applied Materials e Lam Research stanno eliminando le aziende cinesi dalle loro catene di fornitura dirette, spinte dalle pressioni del governo statunitense”.
“Advanced Energy Industries, che produce sistemi di alimentazione e altri componenti utilizzati nella produzione di semiconduttori, ha dichiarato il mese scorso che l’azienda chiuderà il suo terzo e ultimo stabilimento in Cina entro luglio. L’azienda, con sede a Denver, negli ultimi due anni ha spostato la produzione dalla Cina alle Filippine e al Messico, ha dichiarato l’amministratore delegato Stephen Kelley”.
Il boom del sud-est asiatico
Il sud-est asiatico, una regione con costi di manodopera e di energia simili a quelli della Cina, sta vivendo una fase di boom, in quanto le aziende tecnologiche occidentali vi trasferiscono la produzione e l’assemblaggio dei loro chip più avanzati, dei server AI e dei dispositivi di consumo, riporta il WSJ. “Gli investimenti diretti esteri nel Sud-Est asiatico sono stati di 230 miliardi di dollari nel 2023, in aumento rispetto ai 155 miliardi di dollari del 2018, secondo i dati dell’organizzazione intergovernativa della regione, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico”.
Anche le esportazioni di computer portatili thailandesi sono aumentate di quasi otto volte negli ultimi quattro anni.
Anche il Vietnam sta cercando di attirare gli investimenti dell’industria dei semiconduttori, con il governo che ha proposto agevolazioni fiscali con l’obiettivo di formare 50.000 ingegneri per sostenere l’industria nazionale dei chip. Anche Nvidia, il gigante dei chip di intelligenza artificiale, aprirà un centro di R&S nel Paese.
Secondo quanto riportato dal WSJ, “anche la Marvell Technology di Santa Clara, che progetta chip di fascia alta utilizzati nei settori automobilistico e del cloud computing, sta cercando di attingere al pool di talenti ingegneristici del Vietnam, ha dichiarato Quang-Dam Le, direttore generale dell’unità vietnamita del produttore di semiconduttori. Marvell ha aumentato la sua forza lavoro in Vietnam da 300 a quasi 470 ingegneri nell’ultimo anno e prevede di aumentare l’organico del 20% all’anno nei prossimi anni, ha dichiarato Le”.
In questo contesto, anche molte aziende cinesi si stanno spostando all’estero, creando filiali e fabbriche lontano da casa su richiesta dei loro clienti occidentali.
L’incidenza della guerra tariffaria sulle supply chain
Anche le multinazionali stanno riflettendo su come adattare le loro catene di approvvigionamento ad un panorama sempre più complesso.
Mentre le tariffe statunitensi su Canada e Messico sono state rinviate di un mese, non lo è stata la tariffa universale del 10% su tutte le importazioni cinesi. Ciò ha portato all’imposizione da parte di Pechino di tariffe di ritorsione dal 10 al 15% sulle importazioni statunitensi di energia e macchinari agricoli.
Inoltre, il 10 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti imporranno una tariffa del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, che entrerà in vigore il 12 marzo 2025.
Il 13 febbraio 2025, Trump ha anche emesso un memorandum per intraprendere una rapida revisione dei danni che gli USA avrebbero subito a causa di accordi commerciali non reciproci. Ciò potrebbe portare all’imposizione a breve termine di “tariffe reciproche” specifiche per ogni paese partner commerciale. In particolare, il governo degli Stati Uniti valuterà, per ciascun partner commerciale: (1) le tariffe sulle esportazioni statunitensi, (2) le tasse ingiuste imposte alle imprese statunitensi, (3) altre politiche che impongono costi alle imprese e ai consumatori statunitensi, (4) le politiche dei tassi di cambio e (5) qualsiasi altra pratica sleale.
Questa direzione pone sotto potenziale esame un’ampia gamma di politiche, tra cui le imposte sui servizi digitali (DST), le imposte sul valore aggiunto (IVA), i meccanismi di aggiustamento delle frontiere per il carbonio (CBAM), i sussidi, le barriere tecniche al commercio e la regolamentazione discriminatoria, nonché gli interventi monetari, solo per citarne alcuni. Dopo la presentazione delle proposte tariffarie, l’Office of Management and Budget degli Stati Uniti avrà 180 giorni per valutare gli aspetti fiscali delle tariffe proposte.
In questo contesto, è probabile che le nuove tariffe imposte dagli Stati Uniti provochino misure di ritorsione da parte dei partner commerciali, che potrebbero variare da un Paese all’altro. Si creerebbe così un’intricata rete di misure alle frontiere che complica la spedizione delle merci e comporta implicazioni significative in termini di costi per le decisioni della catena di approvvigionamento.
Si tratta di un ambiente geopolitico in rapida evoluzione, destinato ad avere un impatto su molte aziende che gestiscono catene di fornitura multinazionali. Tali imprese, infatti, potrebbero trovarsi di fronte a conseguenze critiche per il loro business se non sono preparate all’imposizione di tariffe doganali e al mutato contesto geopolitico.
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