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Trump ha reso la disinformazione normalità politica. Che fare?



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Fin dai primi giorni del suo mandato, Trump e i suoi consiglieri hanno propagato numerose falsità, alcune delle quali sono state ripetute anche in contesti ufficiali. La disinformazione è divenuta parte integrante della strategia politica di Trump e dei suoi alleati. Gli studi ci indicano che la strada per combattere

Pubblicato il 26 mar 2025

Walter Quattrociocchi

ricercatore, Università ca foscari di Venezia



disinformazione usa trump

La disinformazione è diventata un elemento centrale nella politica americana sotto la presidenza di Donald Trump. Fin dai primi giorni del suo mandato, Trump e i suoi consiglieri hanno propagato numerose falsità, alcune delle quali sono state ripetute anche in contesti ufficiali.

Ad esempio, Karoline Leavitt, alla sua prima conferenza stampa come segretaria stampa della Casa Bianca, ha accusato l’amministrazione di aver bloccato un contratto da 50 milioni di dollari per acquistare preservativi per Gaza, una dichiarazione che è stata rapidamente smentita.

Zelensky: “Trump vive di disinformazione russa”

Nonostante la smentita, la notizia è divenuta virale, alimentando il discorso politico che Trump ha utilizzato per giustificare la sua spinta a ridurre il governo federale.

Il nuovo ecosistema media USA

Gli americani si sono sempre più allontanati dalle organizzazioni giornalistiche tradizionali per approdare a una cacofonia digitale di podcast, livestream e feed dei social media, dove la partigianeria, il furore e il risentimento prevalgono generalmente su una deliberazione equilibrata dei fatti. La sinistra politica ha i suoi preferiti, ma questo nuovo ecosistema mediatico è oggi dominato dalla destra. “Stiamo conducendo una campagna di guerra informativa del 21° secolo contro la sinistra”, ha detto il mese scorso Jesse Watters, personaggio di Fox News.

“È come una guerriglia”, ha aggiunto. “Qualcuno dice qualcosa sui social media, Musk lo ritwitta, Rogan lo manda in podcast, Fox lo trasmette. Quando arriva a tutti, milioni di persone l’hanno già visto”.

Durante i suoi primi quattro anni di presidenza, Trump ha fatto migliaia di dichiarazioni false o fuorvianti, ma nella sua seconda amministrazione, queste bugie sono amplificate da un gruppo di funzionari che contribuiscono a creare un ambiente in cui la verità viene messa in discussione e le finzioni vengono utilizzate per perseguire obiettivi politici. Gli esempi includono affermazioni errate su vaccini, piani sanitari e l’uso di soldi pubblici. Le false affermazioni sono spesso amplificate attraverso i social media, dove figure come Elon Musk e influenti media di destra diffondono informazioni distorte che hanno un grande impatto sul pubblico.

Post verità istituzionale: disinformazione Usa con Trump

La diffusione di disinformazione non è più confinata ai margini della rete, ma è divenuta parte integrante della strategia politica di Trump e dei suoi alleati.

Questo ha causato un’erodibilità della fiducia nelle istituzioni e ha portato alla nascita di un nuovo tipo di politica post-verità, dove i fatti vengono contestati e le finzioni vengono usate per giustificare decisioni politiche.

La situazione ha anche reso difficile contrastare la disinformazione, poiché è difficile far fronte a una narrativa così potente quando proviene direttamente dal presidente e dai suoi sostenitori. L’utilizzo della disinformazione come leva strategica si osserva in diversi contesti istituzionali e politici, in particolare nei sistemi democratici esposti a frammentazione informativa, polarizzazione crescente e infrastrutture digitali che privilegiano l’engagement.

Il caso statunitense, raccontato in un recente articolo del New York Times, mostra in modo emblematico un possibile scenario: la disinformazione non più come deriva accidentale, ma come elemento funzionale alla comunicazione di governo.

Le fake news di Trump

Nel primo briefing dell’amministrazione in carica, la portavoce Karoline Leavitt ha dichiarato l’impegno a dire la verità “ogni singolo giorno”. Subito dopo, ha annunciato il blocco di un presunto contratto da 50 milioni di dollari per preservativi destinati a Gaza, definendolo uno spreco di denaro pubblico.

Tuttavia, secondo le verifiche successive, quel fondo risultava destinato a un programma sanitario in una provincia del Mozambico, e non collegato alla questione palestinese. Nonostante la smentita, la notizia ha avuto un’ampia diffusione, contribuendo a rafforzare una narrazione politica precisa. Il dato rilevante, qui, non è la singola imprecisione, ma la dinamica: un’informazione errata, facilmente confutabile, riesce comunque a funzionare nel ciclo comunicativo, generando attenzione, reazione e polarizzazione.

Trump incolpato l’Ucraina, ad esempio, per la guerra che la Russia ha scatenato con l’invasione delle sue forze nel febbraio 2022 e ha definito Zelensky un dittatore per aver sospeso le elezioni mentre il Paese è sotto legge marziale.

“È terribilmente difficile avere una conversazione razionale sulla politica ucraina se non si riconosce il fatto che la Russia ha invaso l’Ucraina”, ha dichiarato James P. Rubin, che ha diretto il Global Engagement Center del Dipartimento di Stato, che ha monitorato la disinformazione e la propaganda straniera fino a quando non ha perso i finanziamenti a dicembre.

Non si tratta di un caso isolato. Alcune analisi pubbliche indicano che in fasi politiche precedenti si sono registrati volumi elevati di dichiarazioni false o fuorvianti da parte di figure istituzionali. Al di là del dato, ciò che colpisce oggi è il cambio di statuto: la disinformazione non è più una scoria del sistema, ma uno strumento deliberato. Le affermazioni imprecise non vengono smentite, ma rilanciate. La loro funzione non è chiarire, ma attivare.

Perché la disinformazione ha successo

È qui che il paradigma si sposta. In un ecosistema regolato dall’attenzione, la verità non è un vincolo: è una variabile accessoria. I contenuti vengono premiati non per la loro accuratezza, ma per la loro capacità di generare engagement, polarizzazione, senso di urgenza. In un sistema di competizione per l’attenzione, la disinformazione non è un errore. È l’equivalente informativo della pubblicità ben fatta.
Il problema non è che il sistema produce disinformazione. Il problema è che ne ha bisogno.

Le notizie false non si diffondono a caso. Spesso sono costruite in modo da generare identificazione, attivare opposizioni, mobilitare appartenenze. Più sono improbabili, più funzionano: perché richiedono smentita, attirano indignazione, occupano spazio cognitivo. È un’architettura perfetta: reattività emotiva e amplificazione algoritmica si alimentano a vicenda. La polarizzazione non è una deriva. È un meccanismo.

I limiti del fack checking

In questo contesto, il fact-checking ha mostrato limiti evidenti. Sebbene essenziale in termini di trasparenza, si rivela spesso inefficace nella pratica: numerose evidenze sperimentali mostrano che la smentita può rafforzare l’identità di gruppo e aumentare l’adesione alla versione iniziale. Non si produce un allineamento, ma una saldatura. Noi contro loro. Vittime contro persecutori. Fatti contro “verità alternative”. L’informazione si trasforma in campo di battaglia simbolico.

A rendere questa dinamica strutturale è l’ambiente digitale che la ospita. I contenuti non circolano in modo neutro. Gli algoritmi non cercano la verità, ma la prestazione. Premiano ciò che divide, emoziona, attiva. In questo sistema, la realtà oggettiva diventa un effetto collaterale. La “verità” è una delle tante narrazioni disponibili. E spesso è la meno utile per ottenere attenzione.

Per lungo tempo si è sottovalutata la portata del problema. I tentativi di risposta – educazione digitale, fact-checking, etichette di verifica – sono nati da una lettura superficiale: si è trattata la disinformazione come un bug, non come un feature. Molti analisti, studiosi, istituzioni culturali hanno affrontato la questione con strumenti concettuali inadeguati. Preferendo la speculazione morale alla comprensione sistemica.

Le conseguenze anche in Europa

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un ciclo di instabilità cognitiva sempre più rapido. Un pendolo tra estremismi speculari, dove ogni leadership si presenta come antidoto alla precedente. Non è affatto improbabile immaginare un futuro prossimo segnato da un’alternanza tossica tra polarizzazioni simmetriche: da Alexandria Ocasio-Cortez a J.D. Vance, e ritorno. Una democrazia formale che conserva le sue istituzioni, ma non più la capacità di costruire un senso condiviso della realtà.

E questo schema non è esclusivo degli Stati Uniti. Si osservano segnali simili in Europa, in Sud America, in molti paesi africani e asiatici. Ovunque l’informazione diventa meccanismo di potere e l’infrastruttura digitale funziona da moltiplicatore delle reazioni. Ovunque si afferma un ecosistema cognitivo in cui la competizione per l’attenzione sostituisce il confronto tra idee.

Come fare?

La risposta non può essere affidata solo a strumenti di contenimento. Serve una nuova epistemologia civica, che riconosca la natura sistemica del problema. Serve una governance dell’informazione che non si limiti a reagire, ma che sia progettata per prevenire. Che renda trasparenti le logiche di amplificazione, garantisca accesso ai dati, abiliti il monitoraggio indipendente e continuo delle dinamiche informative.

E serve, più di ogni altra cosa, un’alleanza tra scienza, istituzioni e società.
Non per decidere cosa è vero. Ma per garantire che ci sia ancora spazio per discuterne.
Altrimenti, resterà solo il rumore.

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