Commissione europea

Scudo europeo per la democrazia? Ma la disinformazione si combatte con la scienza



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Parte lo Scudo europeo per la democrazia, della Commissione ue. Ma attenti: se davvero l’Europa vuole farsi garante di una democrazia digitale trasparente e pluralista, deve compiere un salto di paradigma. Non basta definire principi: serve costruire le condizioni materiali della conoscenza. Ecco come

Pubblicato il 1 apr 2025

Walter Quattrociocchi

ricercatore, Università ca foscari di Venezia



scudo europeo per la democrazia

La Commissione europea ha recentemente aperto una consultazione pubblica sul cosiddetto Scudo europeo per la democrazia.

Scudo europeo per la democrazia: obiettivi e limiti

L’intento è ambizioso: rafforzare i processi democratici, proteggere l’integrità del dibattito pubblico e contrastare le minacce — vecchie e nuove — che attraversano lo spazio civico digitale.

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I pilastri dichiarati — contrasto alla disinformazione, tutela dell’integrità elettorale, promozione del pensiero critico, partecipazione civica — sono in sé condivisibili.

Ma se non accompagnati da una reale capacità di lettura del contesto, rischiano di diventare un contenitore vuoto, una risposta simbolica a un problema strutturale.

O peggio, una narrazione rassicurante che finisce per irrigidire le stesse distorsioni che vorrebbe correggere. Il dibattito su questi temi è spesso imprigionato in formule semplificate, se non ideologiche.

Si parla di disinformazione come se esistesse un confine netto e universalmente riconosciuto tra vero e falso, tra buono e cattivo.

Le vere domande da farsi

Si evocano interferenze esterne e manipolazioni algoritmiche come nuove forme di stregoneria digitale, senza mai affrontare la domanda cruciale: perché alcuni contenuti si diffondono più di altri? Perché certe narrazioni trovano terreno fertile, mentre altre — magari più accurate — faticano a emergere?

Le risposte a queste domande non stanno in una morale dell’informazione, ma in una comprensione profonda dei meccanismi cognitivi, sociali e tecnici che governano la visibilità e l’interazione nello spazio digitale.

La democrazia non è minacciata soltanto da attori malevoli o campagne coordinate: è attraversata da una trasformazione strutturale del modo in cui si forma e si manifesta l’opinione pubblica.

Le piattaforme digitali hanno modificato l’ambiente cognitivo in cui si producono le rappresentazioni del mondo. Non sono canali neutri: operano come architetture dell’attenzione, filtrando, selezionando, amplificando o silenziando contenuti secondo logiche opache e proprietarie.

Questo produce un cambiamento profondo e silenzioso. Non siamo di fronte a un’invasione esterna della democrazia, ma a una sua riconfigurazione interna: cambia la grammatica del discorso, mutano le forme della partecipazione, si riscrivono le condizioni stesse della visibilità pubblica.

Che dice la scienza su piattaforme e disinformazione

Se guardiamo ai risultati della ricerca empirica più solida, emergono segnali chiari. Il linguaggio si sta progressivamente semplificando: i testi digitali diventano più brevi, meno articolati, più performativi. Un lessico più povero comporta un pensiero più rapido, meno riflessivo, spesso polarizzato. Questo fenomeno non è episodico, ma sistemico.

Allo stesso tempo, l’esposizione selettiva rinforza le affinità cognitive: gli utenti tendono a cercare conferme piuttosto che contraddizioni, a gravitare attorno a contenuti che rispecchiano le proprie convinzioni. Il risultato è una crescente strutturazione del dibattito in comunità coese, ma sempre meno permeabili, in cui la percezione stessa della realtà si frammenta.

La polarizzazione non riguarda più solo l’opinione: riguarda l’esperienza condivisa del mondo. Le narrazioni si sovrappongono, si ignorano, si contraddicono, e spesso si rafforzano a vicenda proprio nel momento dello scontro.

In questo contesto, le strategie di debunking tradizionale mostrano una crescente inefficacia: il tentativo di correggere un’informazione falsa può paradossalmente rafforzarne la presa, attraverso quello che viene ormai riconosciuto come effetto backfire. Il problema non è tanto la disinformazione in sé, ma il modo in cui essa si inserisce in un ecosistema cognitivo già strutturato in termini oppositivi.

Accanto a queste dinamiche si osservano altri segnali preoccupanti. Esistono ampie zone d’ombra nell’ecosistema informativo: ambiti in cui la domanda di informazione pubblica è elevata — come nel caso del cambiamento climatico, delle guerre o della salute mentale — ma in cui l’offerta informativa qualificata è scarsa, discontinua o scarsamente visibile. È in questi vuoti che proliferano le narrazioni tossiche, i complottismi, le semplificazioni pericolose.

Non perché gli utenti siano irrazionali o manipolabili, ma perché manca un’infrastruttura che consenta di produrre, distribuire e rendere rilevante informazione di qualità. L’asimmetria non è solo informativa, è strutturale: riguarda l’accesso, la visibilità, la capacità di penetrazione.

Scudo europeo per la democrazia? Ecco i veri problemi e come risolverli

Tutti questi segnali convergono in un punto: il problema non è solo cosa viene detto, ma come, dove, da chi e con quale traiettoria di attenzione. Un problema che non si risolve con più regolazione o con nuovi organismi di vigilanza, ma con un cambiamento epistemico. Non si può normare ciò che non si è in grado di osservare. Non si può correggere ciò che non si è in grado di descrivere.

Non si può difendere ciò che non si è in grado di leggere.

Oggi le piattaforme digitali detengono — e custodiscono gelosamente — i dati che descrivono il comportamento collettivo, la circolazione dell’informazione, la dinamica della visibilità. Quei dati non servono solo a fare targeting pubblicitario: alimentano i modelli generativi, condizionano la progettazione degli ambienti digitali, determinano quali contenuti hanno accesso all’arena pubblica e quali no.

Le istituzioni democratiche, però, sono escluse da questa infrastruttura. Sono costrette a ragionare nel buio, a formulare policy sulla base di ipotesi, non di evidenze. È una condizione insostenibile, e profondamente pericolosa.

Se davvero l’Europa vuole – con uno scudo – farsi garante di una democrazia digitale trasparente e pluralista, deve compiere un salto di paradigma.

Le condizioni materiali della conoscenza

Non basta definire principi: serve costruire le condizioni materiali della conoscenza.

  • Serve una sovranità epistemica, intesa come capacità di osservare, comprendere e modellare il presente.
  • Serve un advisory scientifico stabile, indipendente, interdisciplinare, che metta in dialogo ricerca empirica, teoria critica, analisi computazionale. Serve una rete di osservatori con accesso reale ai dati, capaci di leggere l’evoluzione dell’infosfera in tempo reale.
  • Serve una nuova alleanza tra scienza e policy, fondata non sulle paure o sulle pressioni mediatiche, ma sulla comprensione profonda dei fenomeni.

In un Occidente sempre più disorientato, diviso tra nostalgia per un passato idealizzato e panico per un presente incomprensibile, l’Europa ha oggi una responsabilità storica: dimostrare che è possibile rispondere alla crisi della democrazia non con la retorica, ma con la lucidità. E la lucidità, oggi, passa dai dati.

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