Startup hardware, capaci di convogliare tecnologia, know how e idee innovative in un prodotto tangibile, che esista nel mondo reale, che si possa toccare con mano. In Italia ce ne sono molto poche. In Italia dovrebbero essercene molte di più: il nostro Paese, nonostante anni di crisi, ha ancora dalla sua delle capacità industriali, meccaniche e meccatroniche uniche al mondo. Qualcosa su cui puntare oggi più che mai per rilanciare l’economia in ginocchio, per valorizzare il talento, per creare nuovo valore.
C’è chi, nel profondo Nordest, si sta attrezzando per scommettere su questo patrimonio: si chiama Industrio Ventures, è un acceleratore dedicato alle sole startup hardware ed è una realtà appena nata grazie all’impegno di tre imprenditori trentini che vogliono «mettere insieme tecnologia, know how e persone di talento che sanno fare». Come spiega Jari Ognibeni, co-founder e managing partner Industrio, «il progetto è costruire un programma di accelerazione basato sul co-investimento in equity e sulla messa a disposizione di tutte le infrastrutture necessarie al lancio di una startup hardware».
L’ecosistema esiste, assicura Ognibeni, quello che serve è sostenerne la crescita in maniera strutturata. Avere fiducia nel talento. Il problema è che fino ad oggi questo non è accaduto: «Due sono i problemi di fondo – spiega – in primo luogo è difficile avere accesso al funding, che nello sviluppo di hardware non deve essere costituito solo da capitale ma deve portare in dote anche infrastruttura. Proprio quest’ultima – continua Ognibeni – fatta di laboratori, tecnologie e strumenti, finora è stata appannaggio soprattutto della ricerca scientifica universitaria, oppure delle divisioni R&D delle industrie, che restano per ovvi motivi inaccessibili».
Per aggirare il problema, è necessario creare infrastrutture per la prototipazione tecnologica come per la ricerca e sviluppo, mentre contemporaneamente si deve lavorare per avvicinare le industrie tradizionali al settore, convincendole che è buona cosa fare innovazione. L’idea alla base del progetto da poco avviato da Industrio è, insomma, quella di creare una nuova filiera che deve essere il più corta possibile, funzionare secondo il modello della Lean Startup mutuato da esperienze straniere, soprattutto statunitensi, come quelle di Lemnos Labs e soprattutto HAXLR8R.
Lo storytelling sensazionale messo in piedi dai media ci ha abituato a valutare il successo delle startup (di solito sempre software) in base all’enorme ricchezza che riescono a produrre in breve tempo e a fronte di investimenti tutto sommato ridotti: quando si tratta di hardware, serve invece applicare criteri di valutazione diversi: «A differenza degli altri Venture, noi non possiamo basarci sulla semplice moltiplicazione degli investimenti – spiega ancora Ognibeni – dobbiamo puntare sulla costruzione di business sostenibili che siano made in Italy, che creino mercato, che creino valore anche a livello sociale, ai quali intendiamo offrire strumenti, mentorship, relazioni con il tessuto industriale del Nordest. Vogliamo avviare un sistema che, con il tempo, crediamo potrà crescere e scalare».
La prospettiva è affascinante, ma per il momento a fare da sfondo all’entusiasmo di Jari Ognibeni c’è il contesto semideserto delle startup hardware italiane. A parte pochissimi casi come Jusp, un vero e proprio POS da attaccare allo smartphone per trasformarlo in un sistema di pagamento sicuro che si appoggia sul circuito ATM, oppure come PlusPlugg, che produce hardware da collegare agli smartphone per aumentarne le funzionalità come il termometro multiuso, sono pochi i casi di successo capaci di conquistarsi le cronache dei giornali per aver ottenuto finanziamenti consistenti.
«E’ un problema culturale e di approccio al funding – rivela Claudio Carnevali, Ceo e fondatore di Openpicus – Fino a 15 anni fa l’Italia era la Cina del mondo. Ora però non ci sono più soldi, tutti investono poco e l’impatto mediatico che il successo di alcuni startupper software ha avuto sull’opinione pubblica – tipo Mark Zuckerberg – dirotta sistematicamente i giovani verso quella realtà». Carnevali parla per esperienza diretta: Openpicus è una una startup hardware italiana dove da due anni lavorano 8 persone. Tra i suoi prodotti c’è il Flyport, una modulo hardware per certi versi simile all’ormai noto Arduino ma – spiega il ceo di Openpicus – più potente e dotato di connessione wifi nativa. Intorno ad esso è stata costruita una piattaforma software che ne consente la gestione a distanza.
Le applicazioni sono innumerevoli: «Uno dei nostri progetti riguarda il settore agroalimentare, dove la richiesta di tecnologia cresce a ritmo incredibile, e consiste nella gestione a distanza di una serra, ma è solo una delle possibilità». Grazie a un’interfaccia web è insomma possibile gestire con pochi click le luci, l’irrigazione, monitorare diversi fattori ambientali, addirittura creare regole (con vento superiore a velocità data, chiudere le finestre) nonché osservare la situazione, pilotando apposite webcam. Il tutto grazie a un piccolo pezzo di hardware tutto italiano, realizzato da un’azienda che raccoglie intorno a se una community di 4 mila sviluppatori aggregati intorno a un blog nato due anni fa, e che ora fa business principalmente all’estero in Paesi come Francia, Polonia, Sudafrica, Stati Uniti, Australia e Cina. E che, soprattutto, si è dovuta autofinanziare.
C’è insomma qualcosa che trattiene i finanziatori italiani dall’investire nel settore delle startup hardware, indipendentemente dal loro valore: «Credo che il problema vada visto da due diverse angolazioni – Spiega Marco Magnocavallo, co-fondatore dell’accelleratore Boox e già partner del Venture Capital italiano Principia – la prima è che per lanciare un’iniziativa hardware ci vogliono capitali molto più importanti di quelli disponibili in Italia. La seconda è che qui da noi in particolare ci sono troppo poche “exit”, troppe poche aziende che decollano facendo ritornare gli investimenti. E quelle che si son viste, raramente erano legate all’hardware».
Il terzo punto dolente che scoraggia il funding è di ordine pratico e riguarda il problema della distribuzione: «Non stiamo parlando di una startup digitale – chiarisce Magnocavallo – non basta creare il software, non basta avere il sito, non basta mettere in campo campagne di visibilità sui social. Il prodotto deve essere messo in mano all’utente, e questo comporta notevoli problemi logistici e forte impegno finanziario».
All’estero, la situazione non è molto migliore. Sempre Magnocavallo fa notare come ovunque siano pochi gli investitori disposti a credere nelle startup hardware. Eppure si annoverano esperienze e prodotti notevoli, come il Pebble Watch che si collega direttamente allo smartphone, o ancora il braccialetto Amiigo, anch’esso da collegare al telefono per monitorare l’attività fisica di chi lo indossa. Due prodotti che, non a caso, sono stati creati partendo da fondi raccolti attraverso piattaforme di Crodwfunding come Kickstarter e Indiegogo e non grazie a investitori.
Il che, anche alla luce del fatto che in Italia la Consob ha da poco definito norme e condizioni per regolamentare proprio il crowdfunding, potrebbe anche essere una buona notizia. E per più ragioni: «Ricorrere a questa forma di finanziamento, basato sul gradimento e sull’interesse degli utenti, ha innanzitutto il vantaggio di essere un importante test sul mercato che avviene ancor prima di iniziare a produrre, anzi da cui dipende la nascita stessa del prodotto – Spiega Fabio Lalli, CEO di Iquii – e poi si crea un meccanismo virtuoso, per cui l’utente si lega al prodotto che finanzia, che desidera e che, sempre più spesso alla fine ottiene». La ragione opposta rispetto a quella che muove un finanziatore tradizionale. E su cui molti talenti italiani dovrebbero forse iniziare a contare di più.