La proposta

Ecco come rendere la PA un motore di startup innovative

Un’idea per coniugare l’efficienza e razionalizzazione della PA con la promozione di innovazione e sviluppo. Ovvero, trasformare la PA in piattaforma di intermediazione e facilitazione di interazioni tra i vari attori dell’ecosistema. Un esempio: il car sharing di Milano

Pubblicato il 11 Apr 2014

Carmelo Cennamo

università Bocconi di Milano

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Tutti riconoscono oggi l’ovvio; ovvero la necessità di puntare sulla crescita e sviluppo economico, e non solo sul rigore dei costi della pubblica amministrazione. I più discutono di tagli ai costi e inefficienze nella e della PA. Altri, di singole riforme o iniziative specifiche che possano incentivare investimenti e magari innovazione in questo o quel settore.

Nessuno ha formulato però una visione complessiva e una proposta convincente di come raggiungere questi obiettivi, e di quali leve usare. Il dibattito su questi temi per lo più ha carattere frammentato, e rischia di perdere di vista gli obiettivi generali nel focalizzarsi invece su dettagli a volte marginali. La diatriba su “province si province no” ne è un esempio. Si discute infatti dei potenziali risparmi, ma nessuno riferisce di stime in merito ai guadagni, o meglio, alle “potenziali perdite” di crescita economica che l’eliminazione potrebbe comportare per i disagi che inevitabilmente scaturirebbero dalla mancata riorganizzazione efficiente dei servizi oggi in capo alle Provincie. Non si conosce il nuovo assetto organizzativo nel quale queste funzioni dovrebbero trovare collocazione e in che modo il “nuovo” dovrebbe essere più efficiente del vecchio.

Sul tema dello sviluppo, tutto sembra ora passare per l’incentivazione di investimenti in startup che dovrebbero generare innovazione ed essere il nuovo mantra di crescita per il Paese, al punto che è diventato linguaggio comune riferirsi a questa realtà emergente come l’ecosistema startup. L’Italia come la silicon valley potrà fare leva su questo ecosistema per innovare e crescere.

Ma come? Siamo attrezzati per questo? È la PA organizzata in modo da facilitarne “l’innovazione diffusa” e promuovere crescita e sviluppo economico?

Credo che sia abbastanza pacifica l’inadeguatezza della macchina pubblica nel rispondere ai bisogni dei cittadini (basti pensare ai tempi medi di attesa per un’autorizzazione o licenza, o a come funziona il fisco). Non solo oggi la PA non promuove l’innovazione e la crescita; in molti casi è il principale ostacolo. Cosa fare allora per superare questi limiti? Quali sono le “riforme strutturali” che il Governo dovrebbe intraprendere?

Non conosco la risposta circa le specifiche riforme che potrebbero generare benefici in termini di innovazione diffusa e crescita economica. Ho però una mia teoria mutuata dallo studio del mondo del business, in particolare delle piattaforme ed ecosistemi di innovazione, che potrebbe identificare il principio e modello organizzativo della PA cui queste riforme dovrebbero ispirarsi. Se si vuole promuovere l’innovazione diffusa in ecosistemi e facilitare la crescita economica, più che incentivare innovazione a livello delle singole imprese-startup, bisogna puntare sul creare un ambiente favorevole, dove l’innovazione e l’insediamento di attività produttive possano trovare “terreno fertile”.

Senza la pretesa di offrire la soluzione ultima o unica ai problemi del Paese, provo ad avanzare una possibile proposta che potrebbe allo stesso tempo coniugare l’efficienza e razionalizzazione della PA con la promozione di innovazione e sviluppo; ovvero, trasformare la PA, con i suoi vari uffici ed enti, in piattaforme di intermediazione e facilitazione di interazioni tra i vari attori dell’ecosistema. In breve, la PA come interfaccia per l’interazione e scambio di servizi. Ecco in breve perché una “PA piattaforma digitale” può essere un modello efficiente e motore di innovazione e sviluppo.

1) Misura della performance. Abbiamo una vaga idea oggi di quanto ci costa la PA (anche se non sempre e non in maniera trasparente); ma non sappiamo quanto “produce” la PA o quanto sia produttiva. Il focus attuale è sugli input, poco o nullo sull’output. Questo problema è legato alla mancanza di metriche che misurino la performance, qualsiasi essa sia, e la quantificazione del “valore creato” per gli utenti (cittadini, imprese, gruppi sociali…). D’altra parte, l’assenza di metriche comporta (o ne è conseguenza?) la mancanza di obiettivi dei vari enti e dirigenti nella PA. Digitalizzare la PA vorrebbe dire avere la possibilità di misurare pressoché tutto ed in tempo reale, cosa che ci renderebbe in grado di apprezzare non solo il costo degli input ma anche il valore.

2) Obiettivi ed incentivi. Spesso si sente parlare della necessità di introdurre obiettivi per i dirigenti della PA, legati ad incentivi monetari per il loro raggiungimento (e penalizzazioni in caso contrario). Una PA digitale faciliterebbe questo compito dando la possibilità di formulare strategie per il raggiungimento degli obiettivi sulla base dei dati che sarebbero a disposizione della PA, e controllare in maniera rapida e continua il progresso su questi obiettivi. Questo accrescerebbe la connessione tra l’attività svolta dal singolo funzionario e l’effetto di questa, accrescendo la responsabilizzazione di ogni membro della PA come “civil servant” piuttosto che detentore di un potere decisionale e politico.

3) Efficienza e trasparenza. Riducendo l’ambiguità delle procedure da un lato, e le tempistiche di risposta della PA ai privati, e responsabilizzando i vari membri, una PA digitale ridurrebbe anche le opportunità di corruzione ai diversi livelli, rendendo il sistema più trasparente. Questo si tradurrebbe in una maggiore legalità formale e percepita.

4) Legalità come capitale sociale per lo sviluppo. Una maggiore legalità può generare di per se maggiore opportunità di crescita e sviluppo. Diversi studi dimostrano che laddove maggiore è la percezione della legalità, migliore sono le condizioni di investimento ed insediamento di attività produttive, perché le imprese trovano il giusto capitale sociale per lo sviluppo. Basta guardare i vari indici a riguardo per rendersi conto che i Paesi con più alto indice di legalità sono anche quelli con tassi di sviluppo economico e sociale più sostenuti.

Questi benefici però difficilmente si ottengono solo grazie alla digitalizzazione. Ad essa va accompagnata anche la trasformazione del modello organizzativo in una PA piattaforma digitale. Una PA digitale potrebbe funzionare come altre piattaforme digitali (quali Amazon o l’AppStore di Apple) e intermediare l’interazione e scambio di servizi tra i vari gruppi di utenti (cittadini, imprese, università, associazioni di categoria…). Questo potrebbe generare più mercato e più servizi. Invece che assumersi l’onere di dover produrre in proprio i servizi atti a soddisfare le varie esigenze dei cittadini, potrebbe favorire la nascita di un mercato intorno a questi servizi, ampliando l’offerta da un lato, e la libertà di scelta da parte dei cittadini dall’altro. Inoltre potrebbe accrescere la qualità dei servizi e opportunità di sviluppo. La nascita di un mercato sano dei servizi non solo accrescerebbe il numero di servizi a disposizione dei cittadini, ma ne aumenterebbe potenzialmente anche la qualità per via della concorrenza. Come Amazon, la PA non sarebbe tenuta a stipulare contratti di esclusiva con quel o questo fornitore di servizi. Investirebbe invece nelle infrastrutture di mercato che facilitino le transazioni, lasciando entrare nel mercato chiunque voglia offrire il servizio, anche quando questo è in regime concorrenziale con quello offerto magari dalla stessa PA. L’innovazione, l’efficienza e le migliori idee trovano terreno fertile nella concorrenza.

Un mercato concorrenziale accresce la libertà e welfare dei consumatori attraverso un’offerta più ampia, migliore e a prezzi inferiori. Il potere contrattuale dei produttori diminuisce e quello dei consumatori aumenta. È da questa tensione che origina la necessità di una risposta sempre più innovativa e soddisfacente, e quindi le possibilità di crescita economica (ed anche sociale).

Un esempio di come questo modello possa funzionare lo offre il caso del servizio di car-sharing del comune di Milano. Uno dei problemi della città è la mobilità e l’inquinamento legato all’uso di vetture proprie per lo spostamento in città. La soluzione ideata tempo fa dal comune è stata quella di mettere a disposizione dei cittadini auto in “condivisione” per gli spostamenti. Purtroppo il servizio non ha mai funzionato per vari motivi. Ma quando il comune ha lasciato entrare operatori privati (car2go prima, e enjoy dopo) il servizio si è via via diffuso con rapidità. Inoltre, mentre car2go già esisteva in altre realtà, enjoy è una società nata ad hoc. Quindi, mentre il costo per la PA si riduce, i servizi e la qualità aumentano, e con essi le opportunità di sviluppo per gli operatori che offrono i servizi.

Questo modello potrebbe essere replicato su diversi fronti, promuovendo l’iniziativa di startup e imprese già affermate di sperimentare nuovi e migliori modi di offrire quei servizi che fino ad oggi abbiamo pensato essere esclusivo “territorio” del pubblico, ma che la PA non riesce più a garantire, o lo fa in maniera scadente, e con costi elevati.

La vera riforma sarebbe quindi decidere cosa è pubblico e cosa è privato, sapendo che ciò che è inteso come bene pubblico può essere offerto in forma migliore da privati con benefici per tutti. Questo richiederebbe però una profonda trasformazione della PA in piattaforma digitale, che funga da infrastruttura e interfaccia tra i vari attori dell’ecosistema, facilitandone e regolandone le interazioni. Un nuovo modello di “mercato”, dove la PA rappresenterebbe di fatto quella mano invisibile che ne facilita e regola le transazioni.

Capisco che a molti questa proposta possa risultare un puro esercizio teorico, con scarso valore pratico. Può essere…ma in fondo, Einstein ci ricorda che “nulla è più pratico di una buona teoria”.

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