L’occasione è di quelle da non perdere: da una parte è in discussione la riforma del lavoro, con il Jobs Act, dall’altra la riforma per la riorganizzazione della Pubblica Amministrazione. Il combinato di entrambe è la possibilità di trasformare profondamente il modello di organizzazione e contemporaneamente quello di lavoro, soprattutto per il settore pubblico, ma non solo. Certamente con il settore pubblico a fare da avanguardia, a provare un cambiamento di paradigma. E questo a partire da due principi essenziali:
* di “openness”, che declinato nell’ambito organizzativo significa collaborazione tra amministrazioni, imprese, ma anche collaborazione tra organizzazione e suoi stakeholder, tra amministrazioni e cittadini;
* di “conoscenza”, che significa porre le persone, le loro competenze, le loro relazioni, al centro della creazione del valore e come infrastruttura che connette lavori, esperienze, creatività.
La raffigurazione più concreta di questo nuovo modello è la forma del coworking, che si sta sviluppando rapidamente e sempre più si sta confermando, per dirla con le parole del commissario UE Neelie Kroes, che ha promosso l’iniziativa europea sul coworking, “uno spazio per imparare, per scambiare idee, e sviluppare le abilità necessarie per un creativo, capace gruppo di competente talento per startup”. Ma parlare di startup è limitativo. Confina la forma del coworking in una fase della vita imprenditoriale ed economica. Invece la sua forza è proprio nella pervasività organizzativa e cognitiva, nell’essere nativamente de-organizzativa e destrutturata, secondo le vecchie logiche tayloristiche, e quindi di “incarnare” il modello dell’economia aperta e collaborativa.
Questa evoluzione, fondamentale per il futuro europeo, è da seguire con attenzione e però anche con prudenza: come fenomeno di “moda”, l’etichetta del co-working è sempre più utilizzata anche al di fuori di questo solco, come veste nuova del vecchio servizio di affitto di uffici e scrivanie, dove non è neanche previsto l’uso orario, tipico di un mobile worker (vedi ad esempio la miscellanea di offerte che si deriva dalle ricerche su www.coworkingfor.com).
La diffusione del coworking
Il coworking è infatti la forma più evoluta di lavoro in cui l’attività e la conoscenza hanno priorità sui silos organizzativi, che diventano a quel punto irrealistici, impraticabili, indifendibili. Il coworking identifica la contaminazione, l’interazione, la condivisione di uno stesso luogo da parte di lavoratori di organizzazioni diverse, o senza organizzazione, come un terreno fertile per la creatività e l’innovazione. E il coworking si sta diffondendo, nel mondo, in Europa, e anche in Italia. Ancora associato all’idea del lavoro autonomo, del professionista freelance, o della piccola startup, ma sempre più vicino ad uno schema di modello diverso di lavoro, piuttosto che solo di spazio diverso in cui lavorare, naturalmente necessario, dove l’interazione “creativa” è il risultato di un progetto organico, e non solo favorita dal lavorare in uno stesso spazio, condividere una scrivania o incontrarsi ad una macchinetta del caffè.
In Italia, dove ogni settimana si aprono nuovi spazi di coworking (solo per citare alcuni che si sono aperti nelle settimane di agosto: Savona, L’Aquila, Barletta), le esperienze più evolute si confrontano in un evento annuale proprio per identificare l’approccio comune che può far diventare il coworking la forma intorno alla quale avviene la trasformazione del digitale. Promosso dalla rete italiana CoWo, che conta oltre 102 spazi di coworking in diverse regioni, nell’edizione 2014 ha visto anche la presenza di imprese che aprono i propri spazi in coworking (come Enter) e amministrazioni (Milano, Veglio) che hanno raccontato come il coworking può cambiare il modo di lavorare e di vivere le città. In questo senso è anche molto interessante il progetto Comboproject, oggi sul territorio di Firenze, che si muove proprio sul “coworking diffuso”, cioè sul modo in cui gli spazi di coworking non solo possono essere concepiti come luoghi di combinazione di elementi e specializzazioni diverse (servizi, settori, professionalità), ma anche come possano dar vita ad una rete territoriale che si integra nel tessuto della città e le dà forma, ricreando “la complessità di una filiera che trasformi idee in prodotti”. Quindi luoghi che favoriscono attività diverse, ma che insieme possono combinarsi efficacemente per la realizzazione di un progetto imprenditoriale.
La creazione di spazi di coworking è contagiosa, e si diffonde anche attraverso altre reti, come la rete di innovazione sociale TheImpact Hub, che conta più di cinquanta nodi nei 6 continenti (in Italia sono sei: Milano, Rovereto, Firenze, Roma, Bari, Siracusa).
Il coworking come nuovo paradigma sociale del lavoro
Anche qui è interessante come, già nella presentazione dell’iniziativa, vengano posti in evidenza non solo i servizi disponibili (“forniamo un ecosistema di risorse, ispirazioni, opportunità di collaborazione”), quanto la filosofia sociale che è sottesa “Crediamo che un mondo migliore si sviluppi attraverso la soddisfazione combinata di individui creativi, determinati e appassionati focalizzati su uno scopo comune”, e che si esprime in Manifesti e dichiarazioni di visioni del mondo e della società. Le reti di coworking come “connettori di innovazione sociale”, dove il singolo hub diventa generatore di cambiamento.
E come generatore di cambiamento, non si limita al favorire la condivisione e la contaminazione, ma organizza incontri, dibattiti, sessioni formative su cui stimolare la comunità che si crea intorno e di cui fanno parte liberi professionisti, imprese, studenti.
Non solo, ma poiché il riferimento “ideologico” è simile, si combinano sempre più spazi di coworking e fablab (è il caso ad esempio di Toolbox di Torino). Oppure, si specializzano per settore, costituendo a tutti gli effetti un piccolo distretto di professionalità (indipendenti e imprese) che possono comporre una filiera. È il caso di Millepiani, a Roma, sulla filiera della comunicazione e del design, che tra l’altro nasce all’interno di un programma di realizzazione di 200 spazi di coworking a livello regionale. Ma anche di Talent Garden, che si propone di “raccogliere tutto ciò che germoglia all’interno di un territorio per svilupparlo tra persone che hanno interessi simili, stimolandone la collaborazione e creando un vero “PASSION WORKING SPACE””,e quindi di favorire la creazione di nuove iniziative.
Il coworking non può quindi essere separato dalla visione di innovazione sociale e di comunità, che è alla base della sua progettazione, e senza la quale parleremmo solo di comodi e moderni spazi di lavoro. Infatti, l’evoluzione anche a livello internazionale si allarga sul fronte dell’organizzazione delle città, che si disseminano di nodi di opportunità di lavoro (vedi ad esempio la rete internazionale Urban Station o le piccole reti, come la SandBoxSuites negli Stati Uniti) e reinventano il modo stesso in cui si distribuiscono i flussi di mobilità, diventando proposta di condivisione di una nuova cultura del lavoro. Per lavoratori indipendenti e per contesti interaziendali.
E anche per una PA che si trasforma, aperta e collaborativa. È così che prevedere luoghi condivisi di lavoro, nei centri urbani e nelle periferie, diventa un punto importante di una policy organizzativa che coinvolge tutte le amministrazioni pubbliche. Con due principali precondizioni: lo sviluppo di una cultura organizzativa basata sulla gestione per risultati, la reingegnerizzazione e dematerializzazione dei processi del settore pubblico.
Ma se questa è la realtà, in continua evoluzione, ha senso nel ddl di riforma della PA concepire il coworking soltanto come forma da sperimentare per l’attuazione della conciliazione dei tempi vita lavoro?