Come ha affermato Michael Berz, il Policy Officer Key Enabling Technology and Digital Economy della Commissione europea, uno dei maggiori problemi per la crescita industriale europea è senz’altro l’arretratezza delle PMI sul fronte dell’innovazione.
Problema dalle lontane radici, si evidenzia certamente con la bassa percentuale di Pmi presenti sul web per il business (sempre Berz: “solo il 14% delle Pmi europee utilizza internet come canale di vendita, mentre il 41% delle imprese dell’Ue non ha ancora adottato tecnologie digitali avanzate in termini di mobile, social media, cloud computing e big data”), e in generale con la difficoltà delle Pmi di inserirsi in modo deciso all’interno delle politiche di innovazione europee.
L’Italia, come mostra il DESI (Digital Economic and Society Index), evidenzia affanni ancora maggiori, e più gravosi, se possibile, per l’elevata percentuale di Pmi e microimprese (che rappresentano circa il 98% del totale delle imprese), il cui tasso di innovazione è più basso della media europea. Cosa fare?
Le politiche in atto
Le politiche europee hanno sostanzialmente spinto per l’innovazione delle Pmi tramite programmi specifici (come ad esempio Watify) e anche attraverso un’attenzione specifica che si ritrova sia in Horizon 2020 sia nella programmazione strutturale. I risultati, fino ad oggi, non sono confortanti, e alcuni elementi di ostacolo, come la frammentazione del sistema fiscale e la difficoltà a costruire il mercato unico digitale, sicuramente influenzano negativamente il contesto.
E l’Italia? La situazione italiana è oggi contraddistinta da alcuni elementi principali
- un’attenzione molto elevata nei riguardi delle startup innovative, il cui accompagnamento è sempre più curato da incubatori, acceleratori, sempre più organici e spesso in grado di fornire direttamente o indirettamente anche relazioni e supporti per l’acquisizione di Venture Capital;
- una buona capacità di innovazione delle imprese medio-grandi , sia nei processi di business che nella progettazione di prodotti e servizi;
- la mancanza di ecosistemi innovativi di dimensione adeguata per sostenere la crescita di vasti territori o di intere metropoli;
- un tessuto imprenditoriale ancora in gran parte “analogico” o comunque non in possesso dell’adeguata cultura digitale, e di competenze di e-leadership.
In questo quadro, le azioni strategiche in atto sono ancora molto limitate. Se, infatti, l’innovazione delle Pmi non è stata identificata come un focus specifico, se non in maniera indiretta, nelle strategie nazionali sul digitale, e comunque soltanto su alcune aree (es. competenze digitali, agricoltura), dall’altra parte in Parlamento è in corso di discussione il decreto legge che istituisce un registro per le Pmi innovative, in modo da assimilarle ai regimi di supporto e agevolazioni di cui godono le startup.
Una strategia diversa e organica
Su questo fronte credo possano essere fatte alcune riflessioni di diverso genere:
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Sull’approccio. Seguendo anche le riflessioni della Mazzuccato, l’apporto principale che uno Stato può dare allo sviluppo delle Pmi è quello di creare un contesto favorevole alla crescita, e quindi allo stesso tempo
- costruendo degli ecosistemi innovativi, basati sull’open innovation e in grado di mettere insieme l’intera filiera dell’innovazione, dall’Università al sistema pubblico, alle imprese e agli investitori;
- abbassando le barriere all’ingresso nel mercato, rivedendo le norme che, stabilendo delle soglie di capitale molto elevato (vedi il caso SPID) o delle procedure di assegnazione non curanti delle piccole realtà economiche, anche eccellenti, o degli oneri e delle complessità burocratiche elevate, di fatto tagliano fuori le piccole realtà anche quando aggregate tra loro;
- avviando dei grandi progetti nazionali di innovazione, in cui possono trovare possibilità di partecipazione anche le piccole realtà altamente qualificate, e prevedendo investimenti sulle piattaforme di servizi e dati aperti, così da consentire la costruzione successiva di servizi aggiuntivi;
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Sul senso dell’innovazione. Rispetto a più versanti
- coniugando l’innovazione con il concetto di crescita, dove la Ricerca e Sviluppo è un fattore importante ma non connotante in assoluto;
- considerando il concetto di “startup” come momento di innovazione dirompente, nel cambiamento a livello di processo, di prodotto/servizio, di approccio al mercato, ma che è applicabile anche ad imprese esistenti e non solo a nuove iniziative;
- riconoscendo alle nuove iniziative di impresa un valore in sé, in quanto rappresentano un formidabile percorso di sviluppo e crescita di competenze innovative pregiate (quindi anche nei casi di fallimento, come ha sostenuto ad un recente workshop Andrea Santagata, Ceo di Banzai), delle quali è necessario favorire il contagio verso le imprese esistenti, soprattutto se mature, diffondendo una cultura e una competenza nuove nel tessuto industriale.
- associando il concetto di innovazione con quello di “innovazione permanente” perché innovazione significa prima di tutto costruire le condizioni culturali di cambiamento, sulla base della circolazione e condivisione delle informazioni, della capacità di crescita delle conoscenze e di apprendimento collettivo, della condivisione e ripetibilità dei risultati, della capacità di implementazione, di ottenere risultati concreti;
- riconoscendo il valore fondamentale delle relazioni tra soggetti diversi, tra competenze diverse, tra punti di vista diversi.
Per queste ragioni è particolarmente da sottolineare, tra gli altri, l’emendamento di parlamentari dell’Intergruppo Innovazione Tecnologica al decreto già citato, con cui hanno tentato di introdurre il concetto di “Pmi innovative” strettamente connesso a quello di cultura d’impresa, unico modo per avere un’innovazione che può essere duratura e non estemporanea.
Una proposta operativa
Nelle diverse tavole rotonde e negli workshop, dove partecipa chi l’innovazione “la sta facendo” davvero, emerge in modo abbastanza omogeneo la convinzione che il percorso operativo per l’innovazione delle imprese si incardini su due temi chiave:
1) la costruzione di ecosistemi innovativi, in modo non estemporaneo e progettuale, ma organico e innestato nelle politiche industriali e nella strategia di crescita del Paese. Partendo dai livelli territoriali delle Regioni (che dovrebbero avere questo tema nella loro programmazione strategica), per costruire connessioni e reti nazionali e internazionali, e con un’azione di spinta che veda istituti superiori, università, centri di ricerca, imprese, pubblica amministrazione connettere subito le iniziative già in corso e progettare e praticare il modello dell’open innovation, dove l’interdisciplinarietà è uno degli elementi chiave da perseguire anche negli assetti scolastici e universitari. Con un impegno che sia valutato strategicamente come prioritario, “missione” del settore pubblico;
2) lo sviluppo della cultura digitale per tutta la popolazione, per conseguire l’adeguata consapevolezza digitale e, in particolare per manager e imprenditori, le necessarie competenze di e-leadership, come anche ribadito dalla “Dichiarazione di Riga” a cura della Commissione Europea, e a cui ha aderito l’Italia, dove il quinto principio (Promozione della e-leadership europea) recita “L’innovazione nella gestione e nell’uso delle tecnologie digitali ottimizzerà il valore del business in Europa. Questi devono essere allineati con gli obiettivi di business, consentendo ai leader delle organizzazioni una maggiore consapevolezza digitale”. Consapevolezza come obiettivo strategico, dando maggiore forza alle iniziative avviate in tema di competenze digitali, come la Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali.
Un processo importante che deve essere strategicamente accompagnato, perché la crescita dell’Italia non passa dai singoli casi di successo delle startup, delle Pmi innovative e delle imprese che riescono ad affrontare meglio la complessità del mercato attuale, ma da una pervasività profonda dell’innovazione su tutte le imprese. Perché tutte le imprese devono essere innovative, acquisendo la capacità visionaria di immaginare nuovi mercati, sapendo che ci muoviamo in contesti in continua trasformazione, come diverse esperienze di successo (vedi ad esempio quella di ICAM) stanno a dimostrare. E che non ci sono alternative.