Startup, il censimento dividerà il miracolo dalla fuffa

È giunta l’ora di provare a raccogliere le informazioni più o meno entusiastiche che provengono dal mondo delle startup per capire se siamo sulla strada giusta oppure se bisogna cercare di accelerare, o ancora trovare una nostra via italiana che non sia necessariamente l’emulazione di ecosistemi più maturi e rodati

Pubblicato il 18 Apr 2016

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Sono passati quattro anni dal D.L. 179/2012 che, introducendo la disciplina in materia di “startup innovative”, sta permettendo di liberare l’estro creativo a moltissimi imprenditori (giovani e meno giovani) che decidono di dedicare i loro sforzi alla creazione di nuove iniziative imprenditoriali. È nato un nuovo ecosistema che conta oggi circa 5400 startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese. Da allora le norme sono state implementate e affinate in passaggi successivi, tra cui il Decreto Legge “recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”, noto come Investment Compact dello scorso 24 gennaio, con cui si è voluto creare anche la categoria “PMI Innovative”. Unitamente a ciò, sono state concesse una serie di agevolazioni ad hoc per questa nuova categoria d’impresa.

È giunta l’ora di provare a raccogliere le informazioni più o meno entusiastiche che provengono dal mondo delle startup per capire se siamo sulla strada giusta oppure se bisogna cercare di accelerare, o ancora trovare una nostra via italiana che non sia necessariamente l’emulazione di ecosistemi più maturi e rodati.

Da questo punto di vista è una buona notizia il primo censimento pubblico e dettagliato delle startup innovative in Italia (#StartupSurvey), avviato dall’Istat su impulso del MISE. Mi auguro che le startup siano in grado di cogliere questa occasione e diano il loro contributo. Dalle risposte che verranno date, saremo in grado di valutare meglio la situazione attuale del mercato ed essere più incisivi nell’indirizzare le future norme.

Anche IBAN, come ogni anno, ha avviato la propria indagine relativamente alle operazioni di investimento e disinvestimento in startup effettuate nell’anno appena trascorso (2015).

Ogni anno, infatti, analizziamo approfonditamente le caratteristiche del mercato dell’Angel Investing per tracciare l’entità, il ruolo e le peculiarità dei Business Angel in Italia. Anche quest’anno cercheremo di ampliare il campione statistico coinvolgendo, oltre ai nostri soci, anche terze parti come: persone fisiche, Club di Investitori, Enti ed Istituzioni, Incubatori ed Acceleratori d’impresa, imprenditori che hanno inserito il loro progetto nell’area riservata del sito di IBAN e le startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese.

Tutti gli interessati, quindi, sono invitati a compilare il questionario online al seguente link: https://it.surveymonkey.com/r/Survey_IBAN_2015

La raccolta dei dati e l’analisi aggregata viene svolta, come di consueto, sotto la supervisione di Vincenzo Capizzi, Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università del Piemonte Orientale e Senior Professor presso la SDA Bocconi, nonché membro del Comitato Direttivo IBAN con delega alla Ricerca Scientifica. Le analisi che ne derivano sono caratterizzate dall’adozione dei più rigorosi criteri scientifici di indagine riconosciuti dalla comunità accademica internazionale e sono state pubblicate presso prestigiose riviste scientifiche nazionali e internazionali (tra cui “Venture Capital: an International Journal of Entrepreneurial Finance”).

Ad oggi, dalla sezione speciale del Registro delle Imprese, emergono dati non troppo confortanti. Sei startup su dieci hanno un bilancio in rosso, danno lavoro a non più di 20-25mila persone e il valore della produzione media non supera i 131 mila euro. Molte startup sopravvivono grazie a finanziamenti derivanti da bandi pubblici o banche, tutte forme alternative al venture capital. Al 31 dicembre 2015 sono 711 le startup innovative (una su otto) destinatarie di finanziamenti bancari facilitati dall’intervento del Fondo di Garanzia per le PMI, per un totale di €289.185.329 dalla nascita del fondo nel 2013, cioè più della somma di investimenti di BA e VC nell’ultimo biennio. Sicuramente è un sistema utile per far ripartire il prestito bancario, però parliamo sempre di capitale di debito, non di investimento.

Una ricerca condotta dalla società di business information Leanus per MF-Milano Finanza e presentata alcune settimane fa, mostrava infatti un quadro non propriamente idilliaco: la startup innovativa italiana “media” ha ricavi di circa 94 mila euro all’anno, un ebitda negativo del 30%, investimenti per 53 mila euro e debiti finanziari per 23 mila euro.

Sono però convinto che non si possano misurare le neo imprese con gli stessi parametri delle società più strutturate. Ripeto, la normativa italiana è ancora molto giovane.

“Quando è data loro l’occasione di concretizzare una visione, di investire le loro migliori energie, di partire dalla scienza e dalle tecnologie più recenti per intercettare e soddisfare i bisogni emergenti, aprono un’impresa e generano sviluppo”, recitava Restart Italia, il Rapporto dell’illuminata Task Force sulle startup istituita dal Ministero dello Sviluppo Economico nel 2012, ma per raggiungere questo risultato lo stato deve da un lato aumentare i co-investimenti con fondi privati, dall’altro agevolare il più possibile i privati a destinare risorse proprio alle startup e per privati intendo fondi pensione, le casse di previdenza, assicurazioni e, perché no, private banker. È chiaro però che questi soggetti devono essere coinvolti anche tramite agevolazioni fiscali quando investono in attività di medio-lungo termine. Alcune settimane fa un sondaggio di BoFA Merril Lynch evidenziava che la liquidità nei portafogli dei gestori di fondi d’investimento globali, e quindi anche italiani, è a livelli record dal 2001. In un momento di instabilità e confusione sulle Borse di tutto il mondo, perché non pensare di incanalarli, anche solo in piccola parte, verso le startup.

A gennaio 2016 si contavano 750 miliardi di masse gestite da Private Banker (fonte Elan International). Se riuscissimo ad attrarre lo 0,1% di quei capitali, anche solo in un’ottica di diversificazione del portafoglio, avremmo 750 milioni di euro in più per le startup, cifra che ci avvicinerebbero molto a paesi più avanti di noi in tal senso.

I segnali incoraggianti ci sono: alcune casse previdenziali professionali sono sempre più impegnate in investimenti nelle startup. È di pochi giorni fa infatti la notizia dell’investimento di 10 milioni da parte della Cassa Forense in una startup bolognese.

Allora, per incentivare questo trend, perché non pensare di introdurre nel nostro ordinamento la detassazione delle plusvalenze realizzate mediante disinvestimento qualora le somme incassate siano reinvestite in una startup innovativa entro un ridotto arco temporale?

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