Alla Kickers di Monte Urano (provincia di Fermo), produttrice dei famosi polacchini con il bollino rosso per il piede sinistro e verde per il destro, oggetto di culto tra i ragazzi di due o forse tre generazioni, hanno messo sul sito internet uno shoes configurator. Chi entra ha la possibilità di personalizzare le proprie scarpe con 70 colori e un totale di 215.940 combinazioni diverse. Si sceglie, si crea, e dopo qualche giorno arriva il postino a casa. Un successo pazzesco. Tanto da fare riflettere i vertici aziendali: «Abbiamo capito che un’impresa come la nostra, con un marchio così forte, oltretutto rivolto ai giovani ipertecnologicizzati, sull’e.commerce deve esserci per forza».
Ancora più sorpreso Roberto Colombo, amministratore delegato del Lanificio Colombo di Borgosesia (Vercelli). Un giorno si è ritrovato sulla scrivania i risultati di una ricerca di mercato interna. «Benché i nostri siano capi in cashmere e in lane pregiate» racconta, «roba di un certo costo, che la clientela vuole vedere, toccare e provare, abbiamo verificato che almeno il 20 per cento di chi visita il nostro sito è potenzialmente interessato all’acquisto via web». Conclusione, ovvia. «Perché non sfruttare questa opportunità?».
Al Mobilificio Molteni di Giussano (Monza-Brianza), invece, si mostrano addirittura indispettiti: «Subiamo il disturbo di alcune società di vendita online che sui loro siti offrono i nostri prodotti». Ergo, è giunta l’ora di puntare a venderli direttamente in rete, sul sito della casa. Sfruttando i 3 milioni di contatti unici all’anno, con picchi di 10 mila accessi giornalieri durante il Salone del mobile di Milano.
Sono solo tre esempi. E si potrebbe continuare a lungo, da Nord a Sud. Mostrano il rapporto di amore-odio, di attrazione e nello stesso tempo di paura, delle piccole e medie imprese italiane nei confronti dell’eCommerce. Perché in questo passo fondamentale le aziende ora si sentono abbandonate a sé stesse. Senza guida; per non parlare di incentivi e sostegno pubblici. Perlomeno- è il lamento del settore- le tante pmi avrebbero bisogno di un supporto verso piattaforme di vendita comuni, per fare sistema e massa critica, e così competere anche nell’export.
Ma anche nei settori tipici del made in Italy, in quelle aziende capaci di resistere alla Grande Crisi grazie all’innovazione e all’export, si arriva al commercio elettronico quasi per caso. Senza un progetto forte e di conseguenza con investimenti modesti. Si procede in ordine sparso, spesso a tentoni, scoprendo con stupore, a posteriori, che la cosa funziona, eccome. Di più: che la rete è un formidabile strumento di marketing e a sua volta uno stimolo all’innovazione di prodotti e processi.
Per questo motivo, l’assenza nell’Agenda digitale di misure in grado di sviluppare l’e-commerce, nonostante promesse e attese, appare come una lacuna grave. Le aziende continueranno a essere abbandonate a se stesse. Non ci sono sostegni a progetti effettivi né di singole imprese né consortili. E, soprattutto, manca una cornice di riferimento, un indirizzo strategico del sistema-Paese. La questione non è tanto aiutare un settore che oggi, secondo l’Osservatorio e.commerce B2c Netcomm – School of management del Politecnico di Milano, vale 9,5 miliardi e che, nonostante una crescita del 18,5 per cento prevista per il 2012, vede l’Italia fanalino di coda nell’Unione europea. Il vero nodo è mettere in campo tutte le iniziative utili a stimolare e, perché no, a guidare un salto culturale nel mondo imprenditoriale. Insomma, dall’Agenda digitale era naturale aspettarsi un approccio sistemico al problema.
Che cosa si poteva fare, in concreto? «Nei tavoli tecnici del ministero dello Sviluppo economico» spiega Roberto Liscia, presidente di Netcomm, il consorzio del commercio elettronico italiano, «avevamo messo a punto un meccanismo rivolto specificamente alla piccola impresa: si prevedevano agevolazioni fiscali per l’attivazione di progetti finalizzati alla crescita dell’export online. Va considerato che la nostra bilancia commerciale, su questo canale distributivo, è negativa per 1,3 miliardi. Tradotto, importiamo online molto di più di quanto esportiamo, in netta contraddizione con la vocazione del nostro manifatturiero, a fortissima vocazione all’export». Secondo i primi calcoli, si sarebbero resi necessari 30 milioni, il minimo indispensabile per cominciare a invertire la rotta. Purtroppo, queste misure sono state «stralciate». E le risorse assorbite da altri capitoli dell’Agenda: start-up, banda larga, carta d’identità elettronica. A maggior ragione è saltato ogni riferimento alla necessità di favorire la nascita e lo sviluppo di piattaforme di vendita comuni. Un tasto chiave, dal momento che le complessità logistiche (gestione degli ordini, forme di pagamento, consegna a domicilio dei prodotti) costituiscono forse il maggiore ostacolo al decollo del commercio elettronico.
La verità è che sul versante delle aspettative del mondo produttivo, l’Agenda digitale mostra i suoi limiti. Come ha messo in evidenza Andrea Rangone, responsabile degli osservatori Ict del Politecnico di Milano, il provvedimento uscito dal Consiglio dei ministri di giovedì 4 ottobre risulta fortemente sbilanciato sulla dimensione dell’innovazione digitale che investe la pubblica amministrazione. Risultato, in molte piccole e medie imprese si continuerà a guardare alle potenzialità delle tecnologie digitali, e in particolare della Rete, con prudenza se non con scetticismo: «Fantastico, ma quanto ci costa?».