Secondo l’Innovation Union Scoreboard 2015 (IUS), l’indice della Commissione Europea che valuta lo stato di innovazione dei Paesi Europei e lo confronta con alcuni dei Paesi extra-europei più industrializzati, anche quest’anno l’Italia rimane ben all’interno del gruppo degli “Innovatori Moderati”, i Paesi con performance inferiore alla media europea, insieme a Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Spagna. Davanti sono gli Innovation follower (Austria, Belgio, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Slovenia e Regno Unito) e ancora più avanti gli Innovation leader (Danimarca, Finlandia, Germania e Svezia), mentre il raggruppamento con le performance più basse, quello dei “Modest Innovator” include Bulgaria, Lettonia e Romania.
Poche sorprese, una situazione in gran parte stagnante, se si eccettuano la fuoriuscite dell’Estonia e di Cipro dal gruppo degli Innovator follower.
La pubblicazione dell’edizione 2015 dell’IUS è però una buona occasione per due tipi di valutazione:
- sull’affidabilità attuale del framework;
- sullo stato dell’innovazione in Europa e in Italia.
La misurazione dell’Innovazione secondo l’Innovation Union Scoreboard
Senza entrare in approfondimenti tecnici, qualche valutazione sull’IUS credo sia utile, prima di analizzare i risultati 2015. Il framework dell’IUS è articolato in tre tipologie (e otto dimensioni/elementi gerarchicamente legate alle tipologie):
- Enablers – gli elementi fondamentali che rendono possibile l’innovazione (risorse umane, finanziamenti e aiuti, sistemi di ricerca aperti, di eccellenza e attrattivi);
- Firm activities – attività delle imprese che rispecchiano in che modo le imprese europee sono innovative (investimenti, collaborazioni e attività imprenditoriali, patrimonio intellettuale);
- Outputs – risultati che mostrano come ciò si traduce in benefici per l’intera economia (essenzialmente gli effetti economici derivanti e gli impatti dell’innovazione sulle imprese).
Le dimensioni sono a loro volta articolate in 25 indicatori. Di questi, ben 6 sono legati al Community Innovation Survey, una rilevazione statistica a cura di Eurostat basata su questionari, e solo 10 sono legati a dati aggiornati al 2013 (gli altri si basano su dati antecedenti, uno addirittura al 2009).
Se confrontiamo le performance medie dei Paesi dei gruppi Innovation leader e Innovation follower, come è evidenziato dal rapporto, non rileviamo differenze apprezzabili sulle dimensioni di Outputs e in quasi tutte quelle di Enablers (ad eccezione di quella finanziaria), per cui le maggiori differenze si situano sulle dimensioni specifiche industriali. Che sono legate per un terzo a rilevazioni statistiche e per un altro terzo a dati antecedenti il 2013.
Se però gli Outputs hanno lo scopo di “catturare gli effetti delle attività innovative industriali” allora questi dati, evidenziando una sostanziale inefficacia delle dimensioni specifiche industriali e della dimensione finanziaria, suggeriscono che il framework dell’IUS oggi non riesce a raggiungere pienamente l’obiettivo di valutare le performance in ricerca e innovazione. Un obiettivo importante, anche di indirizzo verso i Paesi che vogliono migliorare nella classifica della “capacità di innovazione” (lo scopo dell’IUS è anche di aiutare i Paesi nell’identificare “le aree dove devono concentrare i propri sforzi per sviluppare la loro performance in innovazione”), e che invece si trovano ad analizzare correlazioni non evidenti tra le dimensioni abilitanti e specifiche industriali e quelle di risultato, così come vedono misurate in modo parziale e opinabile alcune dimensioni fondamentali, come quella relativa ai sistemi di ricerca, dove in gran parte la valutazione è basata sulle pubblicazioni scientifiche.
Sarebbe auspicabile che la Commissione Europea utilizzasse anche questo framework (come si propone di fare con il DESI) non per realizzare l’ennesima classifica, ma per fornire indicazioni utili ai Paesi Membri (come previsto), supportando così anche lo sviluppo di una cultura della misurazione che manca in tanti Paesi (in buona parte anche nel nostro). Rivisitando profondamente un indice che oggi ci fornisce poche informazioni e rischia di far passare un messaggio non corretto.
Lo stato dell’innovazione in Europa
Secondo il rapporto 2015, complessivamente lo stato dell’innovazione in Europa ha avuto un anno di stallo, con pochi miglioramenti su alcune aree e peggioramenti soprattutto sul fronte dell’innovazione delle Pmi. Non è un caso che i Paesi con migliore trend di miglioramento siano Malta, Bulgaria e Lettonia (queste due ancora al penultimo e terzultimo gradino della classifica).
In particolare, sono generalmente migliorate le performance sugli indicatori relativi ai nuovi dottorati, alle co-pubblicazioni scientifiche internazionali, ai marchi comunitari e all’occupazione nelle imprese di settori innovativi, mentre le note negative vengono dagli indicatori correlati all’innovazione delle Pmi (presenza di innovazione di prodotto o di processo, di marketing o a livello organizzativo, vendite di prodotti innovativi, investimenti in capitale di rischio), dove più della maggioranza dei Paesi hanno peggioramenti sensibili. E se è vero, come sottolinea il rapporto, che si tratta in gran parte di indicatori dipendenti da una rilevazione statistica di Eurostat (Community Innovation Survey) aggiornata su dati 2012 (l’aggiornamento è biennale, l’IUS 2014 faceva riferimento al sondaggio del 2010), è anche vero che una percezione così diffusa è un segnale forte di sostanziale stagnazione su una delle aree più critiche della crescita industriale europea.
Certamente è il frutto della crisi economica globale, se anche a livello internazionale solo la Cina (che pure ha una performance in innovazione molto inferiore a quella europea) ha tassi di crescita degli indici significativamente più alti della media europea, con gli altri Paesi del Brics in chiara difficoltà (e tra tutti, in misura maggiore, la Russia). Ma questo non conforta.
Lo stato dell’innovazione in Italia
L’Italia rimane tra gli innovatori moderati. La sua “performance in innovazione”, in costante aumento fino al 2013, ha subito un lieve calo nel 2014 (e quindi in questa edizione 2015 dell’IUS), scendendo dall’82% al 79% della media europea.
L’Italia è al di sotto della media UE nella maggior parte delle misure, in particolare nelle dimensioni Finance & Support (soprattutto per gli investimenti da venture capital, per di più in decrescita) e Firm Investment (soprattutto per il basso livello di spesa in R&S nel settore privato). Nella dimensione Innovators l’Italia, invece, si comporta meglio della media UE, grazie agli indicatori sulle Pmi innovative (legati alla rilevazione Eurostat). Una buona crescita è registrata anche nella dimensione Open, excellent and attractive research systems (9.5%), grazie alle co-pubblicazioni scientifiche internazionali e all’incremento di dottorati extraeuropei. Una delle maggiori aree deboli rimane quella del Capitale Umano dove, per l’indicatore sull’istruzione secondaria della popolazione da 30 a 34 anni, siamo davanti solo alla Turchia.
La sensazione è che i punti deboli siano quelli fondamentali per lo sviluppo di un ecosistema innovativo: strategia sui finanziamenti (da Venture Capital, ma anche dal pubblico), competenze, correlazione tra R&S e impresa, consolidamento degli asset intellettuali. Fronti sui quali è sempre più necessaria un’azione strategica nazionale di largo respiro.
D’altra parte, nonostante la bassa performance in occupazione innovativa e vendite da prodotti e servizi innovativi, l’autopercezione delle Pmi, guardando gli indicatori legati al CIS di Eurostat, è invece generalmente positiva, al punto da portarci oltre la media UE.
E anche per questo è utile qualche riflessione sull’affidabilità di quest’indice e sulla cultura dell’innovazione delle imprese.