Da che mondo è mondo “innovazione” e “regolazione” rappresentano cose che fanno fatica ad andare d’accordo. Innovare vuol dire provare strade nuove, esplorare spazi sconosciuti, trovare modi per mettere assieme cose che fino a oggi erano ritenute incompatibili, abbandonare le vecchie regole per trovarne di nuove. Regolare, invece, significa imporre limiti a comportamenti; significa porre confini alla discrezionalità dei singoli a vantaggio della collettività. Se entrambi questi elementi rappresentano fattori essenziali per lo sviluppo del sistema, il loro potenziale può tuttavia trovare espressione solo a condizione che tra le due tendenze si stabilisca un equilibrio in grado di garantire nel contempo stabilità e spinta propulsiva. Il sistema di regolazione del procurement pubblico del nostro Paese rappresenta senza dubbio un esempio di come questo equilibrio non sia affatto scontato.
Dopo anni in cui la tecnologia è stata vista come il fattore chiave su cui si giocano il successo dei mercati e la possibilità di affermazione di nuovi processi, oggi lo sviluppo del digitale offre possibilità di forte innovazione del settore pubblico: dai servizi a rete, a quelli territoriali, fino ai servizi pubblici in senso stretto. Il problema è che queste possibilità sono ancora lontane dall’essere sfruttate a pieno dall’amministrazione pubblica italiana. Ciò a cui invece spesso assistiamo è il progressivo peggioramento della capacità della PA di interloquire con il mercato al fine di acquisire le competenze e le tecnologie necessarie al cambiamento. E questo nonostante le direttive europee in cui si danno indicazioni chiare sulla necessità di migliorare i livelli di qualità e di innovazione dei beni e servizi acquisiti dal settore pubblico; nonostante la riforma del codice degli appalti; nonostante le prescrizioni date perché le amministrazioni abbandonino il criterio del massimo ribasso per aggiudicare gli appalti e tengano invece conto della qualità dei beni/servizi offerti.
Si pensi, ad esempio, ai numerosi, recenti, casi – stiamo parlando di volumi finanziari di centinaia di milioni di euro – in cui le amministrazioni centrali e regionali sono state indotte ad assegnare servizi di consulenza tecnico-specialistica con offerte al ribasso superiori al 50%, data l’impraticabilità di considerarle “anomale” e di escluderle come tali. Qui il conto è semplice. Si tratta di servizi, anzi di servizi specialistici, in cui la parte del leone la fa la manodopera. Le prestazioni, inoltre, non sono fornite a corpo, bensì vengono conteggiate sulla base degli input di lavoro. In questa situazione è dunque evidente che per questi servizi qualsiasi ribasso che vada al di là di una certa soglia è possibile solo a patto di che si riduca il costo unitario
della manodopera. Considerata dunque la dimensione dei ribassi di cui sopra, e considerata la ragionevolezza dei costi unitari della manodopera posti a base d’asta, delle due l’una: o chi ha presentato l’offerta era talmente interessato alle commesse da subire forti perdite pur di acquisirle, aumentando tuttavia i rischi che implicitamente l’amministrazione si è assunta (si noti che, proprio per evitare rischi legati all’operatività dell’impresa nei bandi erano previsti limiti minimi di fatturato); oppure siamo di fronte a scelte opportunistiche in cui si sono scontate le difficoltà di verifica della qualità delle prestazioni e di eventuali contenziosi.
Il tutto, ovviamente, con buona pace per i livelli di qualità e di innovazione dei servizi resi a cittadini e imprese. Ora però c’è una piccola novità, o per meglio dire, una quasi-novità che potrebbe limitare le possibilità di uso distorsivo insite negli attuali meccanismi di procurement pubblico. Con il correttivo al nuovo codice sugli appalti il governo interviene ponendo dei vincoli alla possibilità di ribasso in sede di offerta. Viene in particolare stabilito che nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera, oltre a quelli dei servizi di natura intellettuale. Inoltre viene fatto obbligo all’amministrazione che appalta di verificare il rispetto dei minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva.
Dicevamo che si tratta di una quasi-novità: tentativi di introdurre correttivi di questo tipo nel vecchio codice erano già stati fatti nel 2011 (D.L. 70/2017) e nel 2015 (D.L. 69/2015). Le modifiche prevedevano che alla determinazione dell’offerta migliore si pervenisse sulla base di un prezzo calcolato “al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore”. In entrambi i casi, si è trattato però di operazioni maldestre: contestate dalla magistratura amministrativa e dalla stessa ANAC perché mal formulate e potenzialmente in contraddizione con i principi del libero mercato, di fatto queste regole non hanno prodotto gli effetti sperati. Ora ci si riprova. E nel farlo si prova a fare attenzione a non incappare negli errori già commessi. Dire oggi se il correttivo sarà in grado di produrre gli effetti sperati non è possibile. Lo sapremo nei prossimi mesi, quando le nuove regole inizieranno a confrontarsi con i fatti. Stretta tra le asperità di una ostinata fascinazione regolatoria e le paludi dell’inerzia organizzativa, la strada verso l’innovazione della nostra pubblica amministrazione risulta ancora lunga e tortuosa. E allo stato, si naviga a vista.