CONSERVAZIONE

Dal bit al sistema, cosa ci insegna l’esperienza internazionale

Un sistema di conservazione evoluto non si limita alla trasformazione di un documento analogico in bit, ma ripensa un ciclo di vita in modo interamente digitale: per questo si parla di conservazione in ambiente digitale

Pubblicato il 16 Mag 2017

Gianni Penzo Doria

Direttore Generale, Università degli Studi dell’Insubria

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Rispetto a vent’anni fa lo scenario italiano sulla conservazione in ambiente digitale – fortunatamente – è molto cambiato. E sono cambiate velocemente, nonostante qualche resistenza culturale, anche le parole di riferimento. Fin da subito, per prudenza più che per convinzione, abbiamo eliminato la dicitura “conservazione illimitata” per una più consona “conservazione a lungo termine”. Quest’ultima accezione non significa un rinvio a una determinazione temporale astratta, ma relativa, cioè fino alla prossima tecnologia in grado di cambiare una sequenza di bit.

Nel periodo del ministro Lucio Stanca (dicastero per l’Innovazione e le Tecnologie dal 2001 al 2006, ndr) , parlavamo indifferentemente di “smaterializzazione” e di “dematerializzazione”. Ciò in spregio alla legge della conservazione della massa con tanto di postulato di Antoine-Laurent de Lavoisier: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Entrambe le parole si basavano su concetti d’effetto, ma altamente pericolosi. Infatti, il mondo digitale non ha bisogno della trasformazione di un documento analogico in bit, ma di ripensare un ciclo di vita in modo interamente digitale, senza bisogno di stampare alcunché.

Chi dematerializza, non digitalizza.

Non è, dunque, un caso che il formato più fortunato per la conservazione sia il pdf, in quanto in grado di riprodurre i bit in un foglio di carta visualizzato sul computer. Visto che il mondo ha imboccato la direzione giusta verso il digitale nativo, anche Adobe ha sviluppato un formato eccezionale, in grado di incapsulare più formati come un meta-contenitore pluriformato: il pdf/A-3 ora standard ISO 32000-1:2008 su base ISO 19005-3:2012.

All’epoca fece molto scalpore un intervento contro la conservazione attraverso il pdf (semplice), a discapito del pdf/A: nell’Italia del 2005 si continuavano a spendere energie e risorse per la pia illusione che la conservazione avrebbe potuto essere affidata a un formato modificabile, allora ritenuto dai più al contrario come immodificabile. Su questa scia concettuale è stato anche abbandonato – anche se tuttora è utilizzato dai più sprovveduti – il termine di “conservazione sostitutiva”, ancora legato alla scansione di un pezzo di carta e alla sua trasformazione in bit.

Oggi parliamo di “conservazione in ambiente digitale”. Già, perché uno degli insegnamenti più importanti del progetto di ricerca internazionale Interpares, è stata la dimostrazione dell’impossibilità scientifica di conservare un documento digitale nella sua forma originaria, nemmeno attraverso un’ibernazione informatica. Possiamo soltanto conservare la copia affidabile del contenuto, mai la forma. E replicarla all’infinito, come in una trasumanazione, in cui rimane l’essenza interiore priva del proprio lato estrinseco, che diviene mutevole in ragione della tecnologia (soprattutto in dipendenza dei formati).

Tuttavia, non ci dobbiamo concentrare sulla conservazione di un documento singolo. È vietato dalla normativa vigente (si trasferiscono fascicoli e serie: art. 67 del DPR 445/2000). E, soprattutto, il documento digitale non ha bisogno di essere conservato in maniera isolata, ma necessita del proprio contesto, cioè della conservazione dell’unità archivistica e dell’intero sistema documentale. Questa è la principale ragione per la quale non si parla soltanto di “conservazione digitale”, ma sempre più di “conservazione in ambiente digitale”. Infatti, un documento tratto dal proprio contesto perde ogni riferimento che lo può rendere significativo e intellegibile, dal momento che il documento non può essere visto come una monade, ma deve essere interrelazionato con l’insieme che lo contiene e di cui fa parte.

Tutto questo deve essere descritto in un documento fondamentale, il Manuale di conservazione: ne parleremo diffusamente durante la prossima edizione di Forum PA.

L’obsolescenza: l’altra faccia del progresso

Uno dei nemici più acerrimi del digitale è l’altra faccia del progresso, cioè l’obsolescenza. Essendo la conservazione, anche a mente del DPCM 3 dicembre 2013, un processo continuo, non si può fermare. Essa segue costantemente la tecnologia, il modello concettuale, i metadati e i formati.

Nel mondo tradizionale, terminato l’inventario e garantite le condizioni di sicurezza ambientali (umidità, riparo da danni meccanici, etc.), la conservazione di un archivio è sostanzialmente un’operazione tendente alla stabilità. Esattamente il contrario di quanto accade in ambiente digitale.

Apriamo una parentesi critica. Il nostro Paese ha da tempo predisposto tutta la normativa necessaria. Anzi, con numerose integrazioni e modificazioni. Abbiamo un Codice dell’amministrazione digitale, per la verità senza la dignità di questo nome (ma lo stesso potremmo dire anche del Codice appalti), una struttura organica di regole tecniche e una serie nutrita di provvedimenti ministeriali e di autorità che completano il quadro. Abbiamo, dunque, di tutto e di più. Per dirla in informatichese, il legislatore ha rilasciano numerose release, ma l’applicativo è ancora instabile.

Non contenti di una bulimia normativa (come ci ricorda Maurizio Piacitelli), stiamo ancora riscrivendo il CAD. Nell’era della trasparenza, nulla ancora si sa dei contenuti rivisti dal gruppo di lavoro del commissario per l’attuazione dell’Agenza digitale Diego Piacentini.

Probabilmente uscirà una norma eccellente. Ma non se ne sente il bisogno. Il digitale in Italia paradossalmente ha bisogno di obsolescenza. Quella che fa diventare una norma vecchia come un buon whisky, lasciato decantare nell’applicazione concreta.

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