La critica

Industria, gli esempi da seguire per completare il piano 4.0

Il piano italiano Industria 4.0 è incompleto, il paese deve percorrere una lunga strada e mancano strumenti essenziali, alle imprese vanno dati punti di riferimento e strumenti per valutare posizionamento e riprogettare processi e prodotti con intelligenza computazionale

Pubblicato il 02 Ago 2017

Mauro Lombardi

Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze

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In queste settimane l’Italia è alle prese con il problema della mancanza di acqua, mentre c’è una evidente abbondanza di parole concernenti Industria 4.0 (I40). E’ difficile partecipare ad un convegno o a un workshop tecnico-scientifico, oppure assistere ad un programma televisivo senza che la formula I40 sia evocata come un mantra tibetano. Un’analisi sistematica della letteratura specializzata in materia e un buon numero di esperienze di analisi diretta delle imprese negli ultimi tre anni induce a proporre alcune riflessioni sullo stato del processo di avanzamento del nostro sistema economico-produttivo verso Industria 4.0.

Partiamo con una metafora per spiegare la tesi che c’è una lunga strada da percorrere e mancano alcuni strumenti essenziali. Immaginiamo che ci venga proposto un GPS, descritto come una rappresentazione dinamica del mondo, dei continenti e delle città, il tutto arricchito con adeguate risorse per viaggiare. Il problema è, però, che il meraviglioso GPS non fornisce le distanze, i percorsi precisi, ma solo alcune indicazioni sulle direttrici da percorrere. Il tutto è molto affascinante, suggestivo, ma chi deve mettersi in viaggio dovrebbe avere qualche informazioni aggiuntiva, magari non con qualche slide su paesaggi immaginifici, specie se gli eventi lo spingono a muoversi per raggiungere mete lontane e incognite. A tale fine occorrono indicatori di posizione abbastanza precisi e stime affidabili delle distanze, a meno che uno non abbia già oppure non faccia parte di un’organizzazione dotata di un proprio sistema di dispositivi atti ad orientare.

Usciamo dalla metafora e torniamo a Industria 4.0. In Italia abbiamo il Piano Calenda, con le ampie e vantaggiose facilitazioni per gli investimenti, presentate e analizzate in molti contributi su Agenda digitale. E’ superfluo sottolinearne l’impostazione strategica orizzontale e non settoriale/verticale, che qualche autorevole commentatore non esita a definire rivoluzionaria. Le direttrici generali sono tracciate, le risorse indicate, gli strumenti in via di predisposizione (Centri di Competenza). Tutto bene, dunque? Il problema è che abbiamo strumenti ottimi, ma qual è la realtà per valutare la loro efficacia?

Torna a questo proposito in mente la metafora del GPS. L’esperienza concreta e il confronto internazionale spingono a sostenere la tesi di un GPS incompleto. Industry 4.0 (Usa) e Industrie 4.0 (Germania), esempi paradigmatici, si basano su determinati soggetti propulsori. Nel caso degli Usa è evidente l’importanza decisiva di alcuni global player in grado di influenzare le traiettorie tecno-scientifiche ed economiche a livello internazionale. Si pensi alla GE, che è in pochi anni divenuta una delle top 10 imprese di software a livello mondiale, ed è leader nell’intersezione di molti settori di attività: energia, trasporti, ferrovie, smart cities. La sua piattaforma tecnologica (“Predix”) può essere vista come uno spazio ontologico dai molteplici impieghi in uno di questi campi. La IBM, per fare un altro esempio, è uno dei drivers più importanti, insieme a Amazon, Microsoft e altri (Cognitive computing Consortium), del cognitive computing, definito come un campo di ricerca interdisciplinare con l’intento di rendere computabili da artificiali, insieme agli agenti umani, situazioni complesse, caratterizzate da incertezza e ambiguità. Lo sviluppo di capacità computazionali, molto più ricche di quelle tradizionali, è decisivo per raccogliere ed elaborare informazioni in un mondo in cui si rischia costantemente overload informativo, dato che le variabili rilevanti per le decisioni cambiano incessantemente. Sempre negli USA, già dal 2008 sono state avviate iniziative strategiche di ricerca quali: National Newtork for Manufacturing Innovation (NNMI), Material Genome Initiative per la creazione di nuovi materiali partendo dal livello atomico, Integrated Computational Materials Enegineering (ICME). Il National Research Council, il National Science and Technology Council, Il Department of Defence (DoD), il Department of Energy (DoE) stanno svolgendo un ruolo cruciale nel finanziare le linee di ricerca, insieme al National Institute of Health (NIH), la Nasa e altri ancora. Il DoD ha peraltro sviluppato un ampio programma di ricerca sul terreno del management di Systems of Systems (SoS), cioè di gestione strategica ed operativa di progetti complessi, composti a loro volta, di sotto-sistemi complessi, quasi come una struttura frattale. L’impostazione strategica federale è stata replicata a scala statale con iniziative analoghe e più mirate (Georgia, Tennessee, per fare due esempi oltre alla sempre citata California). Enucleiamo a questo punto gli elementi essenziali del sistema USA:

  1.  Un set di attori pubblici e privati, fortemente dinamici, realizzano partnership progettuali di grande respiro.
  2.  Funzioni di coordinamento strategico, svolte da organismi pubblici (NIH, DoD, DoE, NASA) hanno alimentato traiettorie di ricerca fondamentale, in grado di far avanzare la frontiera tecnico-scientifica e produttiva, favorendo anche la creazione di quelli che negli USA chiamano industrial commons mediante iniziative di promozione.
  3. Azioni di diffusione delle conoscenze attraverso dimostratori tecnologici, progetti di trasferimento tecnologico, progettazione avanzata su piccola scala.
  4. Ruolo dinamico esercitato da entità associative come l’American Society for Mechanical Engineering, che promuove e diffonde cultura tecnica e manageriale sulla base di progetti ingegneristici e formativi anche a livello internazionale (accordo con l’omologa VDI tedesca).

La strategia Usa ha presentato anche aspetti di debolezza, dovuti soprattutto al fatto che, mentre la frontiera avanzava, l’azione diffusiva dei leader era meno incisiva del necessario. Di qui l’idea di creare una rete di Centri di ricerca assumendo come riferimento il tedesco Fraunhofer Institute (ad oggi sono 8).  Se guardiamo alla Germania, la sua capacità di anticipazione e leadership verso Industria 4.0 si basa su almeno quattro elementi fondamentali:

  1. Esistenza di imprese leader in settori di punta della dinamica innovativa a livello mondiale.
  2. Una struttura industriale peculiare, con uno strato molto consistente di Piccole e medie imprese (Mittlestand) dinamiche, molte delle quali a base familiare, ma corroborati da robusti innesti manageriali esterni.
  3. Esistenza, oltre alle Università, di reti di Centri di ricerca nel campo della ricerca fondamentale e applicata, in grado di sviluppare progetti radicati nel sistema economico-produttivo e socio-economico (Max Planck Society, Fraunhofer Institute, Helmholtz Association).
  4. Presenza dinamica di cluster regionali e settoriali, al cui interno si realizzano intensi scambi informativi tra una molteplicità di attori.
  5. Elevata propensione ad agire in modo sistemico, grazie al coordinamento sia pubblico che privato delle direttrici progettuali. Non è sorprendente che su queste basi l’attitudine a muoversi in modo compatto lungo la frontiera tecnico-produttiva sia un tratto peculiare del modello tedesco.

Torniamo allora all’Italia e alla metafora del GPS incompleto. La rivoluzione digitale significa che occorre progettare su nuove basi conoscitive processi e prodotti, cambiando modelli organizzativi, culture manageriali e imprenditoriali, patrimoni di professionalità. Un sistema economico-produttivo come quello italiano, al cui interno l’industria manifatturiera ha costituito un tradizionale punto di forza, è ora pesantemente investito dalla discontinuità digitale. Esso, protagonista di primo piano di decenni di sviluppo economico, vede cambiare completamente e in modo brusco le basi del passato successo. Al contempo, inoltre, non esiste nel nostro Paese uno strato significativo di global player in grado di influenzare autonomamente gli avanzamenti della frontiera. Ciò non è in contraddizione con l’esistenza di Centri di ricerca e imprese che si muovono con successo in prossimità della frontiera.

A ciò va poi aggiunto il fatto che, com’è ampiamente noto, la struttura del nostro apparato produttivo è fortemente caratterizzata da un’elevatissima percentuale di piccole e piccolissime imprese con professionalità di alto livello, ma correlate essenzialmente ad un paradigma tecno-produttivo da cambiare, appunto in conseguenza della tendenza alla digitalizzazione di processi e prodotti. Se questo è lo scenario per il nostro Paese, occorre trarne alcune implicazioni logiche e strategico-operative:

  1. E’ suggestivo, ma poco efficace, il proporre alle imprese visioni affascinanti di un mondo fisico-digitale (GPS incompleto), se le stesse imprese non hanno punti di riferimenti precisi, dato che occorrono modelli tecnico-manageriali, altre culture tecnico-produttive, scelte in un contesto di incertezza e ambiguità dei segnali. Occorre dunque che le imprese abbiano strumenti per valutare il proprio posizionamento tecnico-competitivo, che oggi va molto di là del “guardare cosa fanno i competitori”.
  2. Non è sufficiente mostrare loro gli effetti mirabolanti della robotizzazione, dell’intelligenza artificiale e di altri strumenti dalla modellazione computazionale delle nanostrutture al 3D-4D printing. Il problema di fondo è che si devono riprogettare processi e prodotti che incorporino intelligenza computazionale. Ciò non avviene con dimostrazioni tecnologiche, bensì con lo sviluppo di diffuse partnership strategiche e progettuali, partendo dall’analisi sistematica e approfondita del problemi secondo la direttrice enunciata nella letteratura manageriale più avvertita: problem seeing, finding, searching for solution to, solving.
  3. Due motivi inducono a ritenere che un approccio del tipo domanda e offerta di innovazione sia inadeguato per il nostro sistema. Innanzitutto, se l’offerta può essere considerata all’altezza della situazione per l’eccellenza di alcuni Centri di ricerca, la domanda non può esprimersi adeguatamente se c’è un divario persistente tra il potenziale di cambiamento e la cultura vincente de passato. In secondo luogo ipotesi di realizzare un matching dinamico tra domanda e offerta rischia di far perdere tempo e disperdere le risorse. Sarebbe più razionale la creazione di una “intelaiatura tecnico-progettuale”, radicata nei territori e basata su team di competenze multiple, in grado di creare strutture interattive con le imprese, partendo dall’analisi rigorosa dell’esistente. Università e Centri di ricerca hanno compiti molto importanti da svolgere in proposito, oltre che discettare di terza missione e trasferimento tecnologico.
  4. Nel nostro Paese è meno pronunciata che in altri l’esistenza di “portatori” (sani) di conoscenze di frontiera, che il resto del sistema deve assorbire per trasferimento-assimilazione. E’ molto più marcata, invece, la consistenza di organizzazioni ed entità economiche che devono innanzitutto analizzare, non da sole, il proprio posizionamento competitivo e quindi elaborare strategie congiunte di avanzamento alla luce dell’accelerazione tecnologica in atto.

Non partiamo pertanto da zero, magari il nostro punto di partenza è 0.4: si deve di conseguenza esplorare un lungo percorso per arrivare a 4.0, possibilmente con un GPS più ricco di indicazioni e strumenti mirati.

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