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Trasparenza della PA, quanto è fragile: ecco le prove

Anche nel Regno Unito, dove la comunità Open Data è piuttosto viva e c’è ancora una enorme richiesta di dati pubblici da parte di attivisti, la spinta politica, alimentata da una forte domanda di trasparenza sembra essersi esaurita. In Italia qualcosa si sta muovendo, ma anche da noi c’è ancora molto da lavorare

Pubblicato il 21 Set 2017

Mara Mucci

già vicepresidente della commissione d’inchiesta sullo stato della digitalizzazione della PA nella XVII leg, informatica, resp. PA di Azione

OpenTusk: l'iniziativa Open Data che trasforma la regione Puglia

Secondo le classifiche Open Data redatte dalla Open Knowledge Foundation, il Regno Unito è al secondo posto mondiale, a pochi punti da Taiwan. Ma è davvero tutto oro quel che luccica? Mi occupo di Open Data nel Regno Unito dal 2010: prima come attivista, poi come consulente del governo, poi come esperto freelance. Posso dire con una certa franchezza che il movimento ha subito un discreto effetto boomerang, con un iniziale interesse delle alte sfere della cosa pubblica che si è poi assopito fino a quasi svanire.

Di per sé, la comunità Open Data nel Regno Unito è piuttosto viva, e c’è ancora una enorme richiesta di dati pubblici da parte di attivisti, organizzazioni locali e nazionali e, di recente, da quella sfera dei media che si riconosce nella definizione di “data journalist”. Ci sono numerosi meetup che si occupano di Open Data su tutto il terrotorio nazionale; l’Open Data Institute ha diverse iniziative locali che vanno da Edimburgo, a Leeds, alla Cornovaglia; la unconference Open Data Camp raccoglie centinaia di partecipanti ogni 8-10 mesi. In sostanza, l’interesse della base non è scemato.

Quello che invece è successo a livello governativo è un esempio di come la politica abbia usato e dimenticato i dati aperti come parte integrante sia del discorso politico che di un modo nuovo, partecipativo ed orientato ai risultati, di immaginare i servizi pubblici. Tra il 2008 e il 2012 l’investimento in Open Data da parte del Governo di sua maestà è stato ingente sia finanziariamente che in termini di immagine. Spinti da un movimento politicamente trasversale, da organizzazioni quali mySociety, e da una richiesta di trasparenza senza precedenti, sia il governo laburista che la successiva coalizione appoggiarono l’idea di pubblicare Open Data come parte integrante della “cosa” pubblica.

Un nome su tutti è quello di Francis Maude, ora membro della camera dei Lord e ministro per il Cabinet Office dal 2010 al 2015. Sua l’iniziativa di portare al centro del governo gli utenti open data, fondando un Open Data User Group e un Public Sector Transparency Board per informare le decisioni ministeriali. Sua l’iniziativa di puntare alla trasparenza come atto positivo di pubbliche relazioni, culminato nella co-fondazione della Open Government Partnership e nel summit di Londra del 2013. Sua l’iniziativa di finanziare progetti di rilascio e uso di Open Data da parte di enti pubblici con i quasi 10 milioni di sterline dei Release of Data Fund e Local Breakthrough Fund. Avendo fatto parte del panel di valutazione dell’assegnazione di quei fondi, ricordo l’energia e la positività di quegli anni. Unita al sostegno – finanziario e politico – del Governo per la fondazione dell’Open Data Institute, questa positività sembrava destinata a rendere i dati aperti una parte integrante del settore pubblico.

Invece con il cambio del governo nel 2015, una maggioranza risicata e problemi interni al partito di governo, culminati poi nel referendum per l’uscita dall’Unione Europea, un nuovo governo, e una nuova elezione in cui questo governo ha perso la maggioranza, hanno sostanzialmente fatto sì che le idee di trasparenza non fossero più in alto nell’agenda politica. L’assenza di uno sponsor degli Open Data sufficientemente senior all’interno del suo partito quale era stato Maude ha chiaramente mostrato i limiti di un movimento che è tutto sommato ancora di nicchia.

Un ulteriore fenomeno è stato quello dello shift retorico verso un’idea di Open Data fondata più su fattori operativi: se i servizi pubblici mettono a disposizione dati utili, magari richiesti attraverso FOIA, alla cittadinanza vi è un guadagno in efficienza che si trasforma in maggiore trasparenza.

Il problema è che questi dati si sono rivelati spesso inaffidabili perché pubblicati solo quando politicamente conveniente, distaccati dalla reale necessità di conoscenza e dai servizi su cui si fondano.

Anni di investimento nell’idea di trasparenza in realtà non hanno trovato seguito nella reale creazione delle basi tecniche necessarie a realizzare la visione stessa. Sparita la trasparenza dall’agenda politica, gli Open Data sono stati fagocitati anch’essi. Il Governo ha lanciato un “Data Programme”, ma i risultati sono ancora ignoti ed è venuta comunque a mancare quell’atmosfera di collaborazione con la società civile che era la linfa vitale dell’Open Data tra il 2008 e il 2015.

In più, l’attuale vuoto normativo non aiuta. Una serie di codici di condotta per vari enti pubblici ha enunciato requisiti di pubblicazione di dati aperti che possono essere facilmente aggirati. Il Codice di Trasparenza degli Enti Locali non ha valore normativo. E con la recente spinta a indebolire il FOIA, con una commissione il cui scopo è di rivedere – si sospetta al ribasso – i vincoli di pubblicazione, c’è davvero scarso interesse nel creare vincoli normativi per la pubblicazione di dati aperti.

Eppure, laddove gli Open Data sono usati per risolvere problemi concreti, coinvolgendo le comunità locali e inserendosi nella struttura dei servizi pubblici, si vedono risultati incoraggianti. Ne è un fantastico esempio l’esperienza di Trafford, un ente locale nell’area di Manchester. Qui il consiglio comunale ha creato uno studio di consulenza basato su dati per coinvolgere la popolazione e le associazioni nelle decisioni operative necessarie alla soluzione di problemi locali. Tra i risultati più accattivanti di questa iniziativa si annovera sicuramente l’uso di Open Data per determinare dove installare defibrillatori automatici in aree pubbliche. Unendo dati aperti a dati privati dei medici di base, la stessa iniziativa ha portato a un incremento dei tassi di diagnosi del cancro dell’utero e di vaccinazione contro il papillomavirus. Sebbene il termine “Open Data” sia per specialisti, le popolazioni locali sono interessate ad un maggiore coinvolgimento nella pianificazione di servizi pubblici, e quando l’idea di usare dati viene spiegata nel modo appropriato in un contesto sensato, diventa uno strumento in più per uno sviluppo efficace.

La trasformazione dei servizi digitali nel Regno Unito ha offerto sicuramente un altro spunto alluso di dati e alla conseguente pubblicazione di dati aperti. Ci sono però notevoli problemi di standardizzazione dei formati, che il governo sta cercando di risolvere un passo alla volta. Per esempio, ultimamente c’è stata l’adozione dell’Open Contracting Standard a risollevare le speranze: se questo standard verrà adottato pervasivamente permetterà non solo una maggiore trasparenza a livello di appalti, ma anche la possibilità di analizzare i problemi e i successi di questi appalti, e l’opportunità di migliorare i risultati nelle gare successive. Allo stesso tempo, ci sono anche enormi differenze geopolitiche all’interno dello stesso Regno Unito: la devolution in Scozia, Galles, e Irlanda del Nord, fa si che dati e standardizzazione siano competenza dei governi locali. Ci si trova spesso in una situazione surreale: ad esempio, il governo centrale ha recentemente pubblicato una lista di nomi e codici identificativi di enti locali, e ha dovuto omettere gli enti scozzesi in quanto non di sua competenza.

Bisogna però rassegnarsi all’idea che non esiste la perfezione in ambito Open Data. Detto questo, credo fermamente che per avere dati utili e aggiornati frequentemente sia necessario ripartire dai problemi che vogliamo risolvere. Identificati i problemi, possiamo chiedere che ad essere pubblicati siano i dati che li risolvano; possiamo chiedere che tali rilasci di dati vengano normati e garantiti; possiamo lavorare insieme agli enti locali al miglioramento della qualità dei dati stessi. Applicando queste idee alle nascenti iniziative Open Data in Italia, e cercando di evitare gli errori visti nel Regno Unito, credo che si possa davvero raggiungere dei risultati positivi.

L’idea è che se i servizi pubblici sono informati e gestiti usando dati, c’è un guadagno in efficienza che può trasformarsi in maggiore trasparenza in quanto parte integrante del servizio stesso. Questo fenomeno è a mio parere positivo: i dati rilasciati esclusivamente in risposta a una domanda di trasparenza si sono spesso rivelati inaffidabili, pubblicati solo quando politicamente conveniente, distaccati dalla realtà dei servizi che – in teoria – li usano. Il problema, però, è che anni di investimento nell’idea di trasparenza ha fatto si’ che non ci fossero risorse sufficienti nel settore pubblico per creare le basi tecniche necessarie a realizzare questa visione. Sparita la trasparenza dall’agenda politica, gli Open Data sono stati fagocitati anch’essi. Il Governo ha lanciato un “Data Programme”, ma i risultati sono ancora ignoti ed è venuta comunque a mancare quell’atmosfera di collaborazione con la società civile che era la linfa vitale dell’Open Data tra il 2008 e il 2015.

Cerchiamo di capire come è la situazione nel nostro paese per valutare quali margini di miglioramento possano esserci. Sono tante le domande che possiamo porci. Quanti sono i portali open data fruibili in Italia? Abbiamo un corrispettivo del movimento Open Data UK? Quanta attenzione è stata posta negli ultimi anni alla materia?

La cultura open data in Italia non potrà essere paragonata a realtà ben più navigate in materia, ma ciò non toglie che stia vivendo una fase di crescita. Ad oggi, nel portale dati.gov.it, che racchiude i dati aperti della PA, sono presenti più di 18.000 dataset suddivisi in 13 aree tematiche. (C’è da dire che solo il portale dati.Trentino.it, esempio modello per tutto il territorio nazionale, ne possiede 6.000)

Pensavamo di essere totalmente indietro su questo tema ma abbiamo visto che i problemi di cui soffriamo noi, sono comuni agli amici d’oltremanica, e non solo.

Con le ultime modifiche apportate al CAD lo scorso anno, l’Italia ha rivisto il corpus normativo in materia di dati pubblici e condivisione degli stessi. L’ente di riferimento è l’AgID, Agenzia per l’Italia Digitale, alla quale è stato affidato il compito di indirizzare le pubbliche amministrazioni verso un processo di produzione e rilascio dei dati pubblici standardizzato e interoperabile su scala nazionale.

I dati delle pubbliche amministrazioni (…) sono resi disponibili e accessibili con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall’ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati” (art 50 del CAD).

Tutto perfetto sulla carta, ma il problema è che non è prevista alcuna sanzione nel caso in cui non venga rispettata la normativa.

Sta all’amministrazione essere responsabile in tal senso e adempiere in maniera volontaria a tale prescrizione.

Dunque qui il nostro punto debole. Se non imponi e non sanzioni, non vedi realizzato. Possiamo emanare linee guida, raccomandazioni a volontà, ma quello di cui abbiamo bisogno è un controllo costante sull’applicazione in concreto della normativa. Forse la nostra PA non è pronta a mettere a disposizione di tutti i propri dati? E’ necessaria una profonda spinta culturale proveniente dalla società, volta a vedere effettivamente attuate queste norme, che vada di pari passo con una cultura del riuso dei dati. Diversamente, il tutto rimarrebbe carta morta. Più di quanto possa già esserlo, in certi aspetti.

Qualcosa si sta muovendo. Pochi giorni fa ha finalmente visto la luce il progetto Open Data 200 Italia. Un portale dove sono censite tutte le aziende che che utilizzano open data nelle loro attività per generare prodotti e servizi e creare valore sociale ed economico. La parola chiave è trasparenza. In questo modo possiamo avere maggiore consapevolezza dell’impatto degli open data in Italia. Chiaramente è solo un inizio. C’è  ancora molto da lavorare.

La politica occupa un ruolo chiave all’interno della società. Ciò che non è di volontà pubblica, se non c’è la volontà politica non viene perseguito e, in ultimo, non viene attuato.

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