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Copyright, Posteraro: “L’Europa delude sulla responsabilità delle piattaforme online”

Nella revisione della normativa la Commissione potrebbe fare di più. E’ auspicabile una riforma che adegui il quadro normativo alla mutata realtà delle tecnologie e del mercato, riconsiderando il ruolo svolto dalle piattaforme e in primo luogo da aggregatori di contenuti e social network

Pubblicato il 27 Ott 2017

Francesco Posteraro

commissario Agcom

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La revisione della normativa in materia di copyright costituisce uno dei punti qualificanti della strategia per il mercato unico digitale, annunciata dalla Commissione europea con la comunicazione del 6 maggio 2015. La Commissione si prefiggeva di raggiungere, a questo proposito, tre obiettivi:

  1. garantire ai consumatori l’accesso transfrontaliero ai contenuti in tutti gli Stati dell’Unione;
  2. assicurare l’equa remunerazione dei titolari dei diritti;
  3. precisare le norme sugli intermediari online, alla luce del ruolo sempre più centrale da essi acquisito.

Quanto all’accesso ai contenuti, rappresenta sicuramente un passo in avanti il regolamento sulla portabilità transfrontaliera di servizi di contenuti online sul mercato interno, approvato il 14 giugno scorso. Il regolamento, che sarà applicabile dal 20 marzo 2018, permetterà di accedere ai servizi anche ai consumatori che si trovano temporaneamente in uno Stato membro diverso da quello di residenza. L’interesse degli utenti è stato comunque bilanciato con quello dei titolari dei diritti a salvaguardare il carattere territoriale delle licenze, le deroghe essendo possibili solo per periodi limitati e previa verifica, per i servizi in abbonamento, della sussistenza di determinate condizioni.

In vista del dichiarato scopo della creazione di un mercato unico, non sembra tuttavia sufficiente assicurare ai consumatori l’accesso ai contenuti, in quanto occorrerebbe anche garantire agli operatori condizioni concorrenziali uniformi in tutto il territorio dell’UE. Sarebbe stato necessario, quindi, imporre una disciplina unitaria – o almeno fortemente armonizzata – in materia di diritto d’autore e dei relativi strumenti di tutela: ipotesi che, a quanto pare, non è stata presa seriamente in considerazione. Per di più, la persistente adesione, relativamente ad alcuni servizi, al principio del paese d’origine dà luogo a una frammentazione persino nei singoli mercati nazionali, nei quali si trovano a competere operatori soggetti a diversi regimi giuridici.

Il tema dell’equa remunerazione dei titolari dei diritti si pone con particolare evidenza alla luce degli ingenti profitti che l’utilizzazione in rete dei contenuti prodotti dall’industria culturale genera a vantaggio di operatori che non fanno parte della filiera. Questo value gap, ossia il divario fra i ricavi conseguiti dagli intermediari che distribuiscono in rete i contenuti e il valore riconosciuto ai titolari dei diritti, è stimato nell’ordine di almeno 200 milioni di euro all’anno. Al riguardo, la proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, presentata dalla Commissione europea nel settembre 2016, oltre ad estendere agli editori le tutele previste per gli altri titolari dei diritti dalla direttiva 2001/29/CE, prevede espressamente che essi possano richiedere un compenso per gli utilizzi delle opere su cui gli autori abbiano loro trasferito o concesso diritti.

Sempre con riferimento agli utilizzi delle opere in rete, l’art. 13 della proposta di direttiva contiene però una formulazione non del tutto soddisfacente. Essa infatti si limita a fare obbligo agli ISP di adottare misure volte a impedire la messa a disposizione sui loro servizi di contenuti identificati dai titolari dei diritti come protetti da diritto d’autore. Più efficace sarebbe stato prevedere a carico degli hosting provider, come ipotizzato nel considerando 38, anche un obbligo di concludere previamente accordi di licenza.

La definizione del ruolo delle piattaforme online rappresenta, in effetti, l’aspetto più deludente della strategia europea. La comunicazione della Commissione del maggio 2016 ha fatto tramontare, purtroppo, ogni residua illusione circa la prospettiva di rivalutarne il regime di responsabilità. Regime divenuto ormai del tutto obsoleto, alla stregua della funzione da esse concretamente esercitata nella gestione e nella distribuzione dei contenuti e, quindi, nel loro consumo da parte degli utenti.

Il testo della comunicazione contiene, non a caso, affermazioni palesemente contraddittorie.  La Commissione riconosce infatti, da un lato, che il ruolo svolto oggi dalle piattaforme comporta necessariamente maggiori responsabilità e che l’attuale disciplina è stata concepita in un’epoca in cui le piattaforme stesse non avevano certo le caratteristiche e la portata attuali. D’altro lato, essa si pronuncia, però, per il mantenimento della regolamentazione vigente, che risale alla direttiva e-commerce del 2000 e che contempla – com’è noto – un generale esonero da ogni responsabilità fino a quando il provider non sia venuto a conoscenza del carattere illecito dell’informazione ospitata o trasportata sulla sua rete. Messa così da parte ogni ipotesi di riforma di ampio respiro, la Commissione conclude, infine, prospettando l’adozione di un approccio al problema della responsabilità di tipo settoriale.

Questo approccio settoriale – confermato dalla Commissione anche nella comunicazione sull’attuazione della strategia per il DSM del 10 maggio 2017 – non sembra però fondarsi su ragioni plausibili, né dal punto di vista della tecnologia, né da quello del mercato. Inoltre, sotto il profilo giuridico, la frammentazione della disciplina che inevitabilmente ne conseguirà potrebbe determinare effetti negativi anche sulla certezza del diritto.

Né sembra realistico puntare sull’autoregolamentazione, come pure fanno sia la citata comunicazione del maggio 2017, sia gli orientamenti per le piattaforme online, presentati dalla Commissione europea il 28 settembre scorso allo scopo di rafforzare la prevenzione e la rimozione dei contenuti illeciti che incitano all’odio, alla violenza e al terrorismo. L’esperienza dell’autoregolamentazione non è purtroppo molto incoraggiante, come dimostra, da ultimo, il primo anno di applicazione del codice di condotta in materia di hate speech sottoscritto da Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube.

In occasione della presentazione degli orientamenti del 28 settembre la stessa Commissione ha precisato, peraltro, che nei prossimi mesi valuterà l’eventuale necessità di misure legislative alla luce delle azioni intraprese dalle piattaforme.

È auspicabile che queste misure, a mio avviso necessarie, siano adottate mettendo da parte l’approccio settoriale, per porre mano a una riforma sistematica che adegui finalmente il quadro normativo alla mutata realtà delle tecnologie e del mercato. Sarebbe grave, in effetti, non trarre le inevitabili conseguenze dall’avvenuto riconoscimento del ruolo attualmente svolto dalle piattaforme, e in primo luogo dagli aggregatori di contenuti e dai social network. Questi operatori esercitano un’influenza notevolissima sulle scelte dei consumatori, sulle quali incidono certamente più della stampa e, per alcuni versi, persino più del mezzo televisivo. Eppure continuano a non essere considerati titolari di responsabilità editoriale, in virtù di una nozione di quest’ultima ormai del tutto superata.

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