Il modello

Smart city, qual è il prezzo giusto per i servizi digitali

Le smart cities potrebbero veder remunerati i loro investimenti in tecnologia attraverso gli incassi provenienti dai servizi digitali. Vi è, però, la necessità di creare un modello di pricing che sappia distinguere tra fruitori che hanno diritto ad accedere gratuitamente e altri che dovranno sostenere un costo

Pubblicato il 31 Ott 2017

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

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Se una mattina sapete che c’è lo sciopero del trasporto pubblico e decidete di prendere l’auto quanto vale l’informazione sullo stato del traffico?

Sicuramente ha un valore maggiore rispetto a quando avete tutto il tempo, una buona compagnia con voi e la vostra playlist preferita da ascoltare in auto.

Quanto vale conoscere lo stato dei voli o dei treni se avete la necessità di prendere una coincidenza o accompagnare una persona rispetto a quando non dovete partire? Se siete in ritardo rispetto a quando avete tutto il tempo?

Quanto è per voi importante sapere le notizie meteo se avete ascoltato in TV che nei prossimi giorni arriverà un uragano rispetto a quando vi trovate di fronte a giorni e giorni di anticiclone?

Le app che abbiamo sul nostro cellulare, come i servizi digitali richiamati via API nelle transazioni B2B, scambiano informazioni o la loro elaborazione. Ogni servizio digitale possiamo schematizzarlo come un oggetto che a fronte di un input fornisce un dato di output, quanto vale quel dato?

I servizi digitali stanno diventando uno degli importanti veicoli di diffusione e commercializzazione dei dati che rappresentano “il petrolio” del terzo millennio come ha evidenziato l’Economist in una sua copertina. Le API (Application Programming Interfaces) sono la forma tecnica per ottenere informazioni o dati e per modificare informazioni e dati, nei fatti la commercializzazione dell’accesso alle Application Programming Interfaces è la modalità di vendere nel terzo millennio.

Oggi i servizi digitali sono venduti o in modo flat per cui pagato un canone si ha diritto ad accedervi indipendentemente dal loro valore, o in base alle risorse consumate (es. CPU, spazio disco). Chi vende non è in grado di determinare un prezzo sulla base del valore che esse hanno per l’acquirente anche se la legge della domanda e dell’offerta vuole che solo in questo modo si possa raggiungere un equilibrio di convenienza reciproca.

Questo non interessa solo colossi come Google o Facebook ma interessa sempre più anche banche, assicurazioni, enti pubblici, smart cities e in generale chiunque offra servizi online e dai quali possa trarne un beneficio. La mancanza di un modello condiviso consente ad alcuni soggetti di godere di benefici e ad altri di pagarne il costo.

Nel caso delle smart cities ad esempio, il corriere espresso che utilizza i dati del traffico in modo gratuito come ogni altro cittadino nei fatti fa pesare sul cittadino semplice il maggior costo della loro gestione, dell’infrastruttura di raccolta ed elaborazione. Le piattaforme che hanno servizi di navigazione “vendono” i dati di infomobilità che forniscono alcune città integrandoli nei loro servizi e dai cui ricevono dati e introiti pubblicitari.

Partendo da queste considerazioni ogni soggetto che produce dati, se disponesse di un modello di pricing adatto, potrebbe trarne un giusto compenso. Pensiamo alle smart cities che potrebbero veder remunerati i loro investimenti in tecnologia attraverso gli incassi provenienti dai servizi digitali che mettono a disposizione di determinati soggetti.

Partendo da queste considerazioni con Luna Leoni e Alessandro Cinque, due ricercatori presso la cattedra della prof.ssa Paola Paniccia di Economia e Gestione delle Imprese della Facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata, abbiamo scritto un paper presentato a Bilbao alla 27° conferenza annuale dell’European Association for Research on Services che è stato focalizzato su “The crucial role of services in business and cities competitiveness”.

Nel paper dal titolo “A conceptual price model for smart cities” abbiamo preso in esame in particolare il modello di pricing di servizi digitali nelle smart cities.

In questo caso vi è la necessità di creare un modello di pricing che sappia distinguere tra fruitori che hanno diritto ad accedere gratuitamente ai dati e altri soggetti ai quali debba essere applicata un costo. Ciò comporta anche il ripensamento in parte del modello Open Data, potendo offrire così i dati gratuitamente solo a chi ne abbia diritto o al quale la collettività decide di riconoscerlo (es. il cittadino, il turista, ecc) mentre a chi ne fa uso commerciale applicare un costo (es. Google o altre piattaforme), in questo modo si evita di “regalare” a chi non ne ha diritto e non a fini sociali un valore economico pubblico.

Il modello che ne è emerso, e che sarà affinato nel corso di ulteriori approfondimenti, è un approccio dinamico che tiene conto di tre fattori principali: Chi, Time e Timing, Frequenza.

La variabile “Chi” indica quale utente o categoria di utente sta utilizzando il servizio. In particolare è possibile categorizzare diversi profili di utenti a seconda della loro necessità di servizio, tener conto di livelli di servizio differenti, considerare l’uso pubblico e gratuito di alcuni servizi della PA.

La variabile “Time e Timing” sono in realtà due grandezze diverse. La prima considera la velocità e l’accuratezza con la quale il dato viene fornito. Il Timing invece è relativo al “momento giusto” nel quale l’informazione viene resa disponibile. Il valore delle indicazioni stradali nel momento in cui mi sono perso è molto più elevato di quando sto progettando il viaggio comodamente da casa. Così per i dati relativi a comunicazioni di emergenza o il tracking dei pacchi o la compravendita di azioni in momenti particolari.

La “Frequenza” è l’indicatore di quante volte viene richiesto quel dato. Maggiore sarà il numero di richieste per una certa informazione o elaborazione della stessa, maggiore sarà il suo valore. Nei fatti è l’indicatore della quantità di domanda.

Combinando insieme le diverse variabili ne emerge un modello che per ogni servizio digitale determina un prezzo sulla base di chi chiede il dato, dell’accuratezza e della velocità, del momento “giusto” e della frequenza di richiesta. Ogni singolo servizio digitale viene catalogato secondo questo modello consentendo di avere un modello dinamico del valore di ogni singolo dato.

Ovviamente oltre a queste variabili è necessario tener conto dei costi di produzione del dato e di eventuali sconti o maggiorazioni frutto di considerazioni di marketing (ad esempio vendere un dato ad un prezzo minore per un certo tempo, fare offerte promozionali, ecc.).

Questo primo lavoro ha visto l’interesse di alcune pubblicazioni scientifiche statunitensi ed è in corso di traduzione, si stanno facendo alcuni approfondimenti e già un primo modello di pricing è stato realizzato in grado di rispondere efficacemente alle domande iniziali di questo articolo. L’applicazione immediata è rivolta a chi vende inserzioni pubblicitarie che può in questo modo valorizzare non solo la quantità di click ma anche il valore che gli utenti danno a determinate informazioni e agli inserzionisti che possono selezionare al meglio a chi e quando dare informazioni, massimizzando il rapporto tra costi e benefici. Può tuttavia essere di grande interesse a chi produce dati e servizi e vuole ricavarne un introito.

Il futuro ci prospetta una diffusione sempre maggiore di servizi digitali ed è necessario avere dei modelli socio-economici che ne rendano più immediato il loro utilizzo, che possano valorizzare correttamente il lavoro che esiste dietro un dato o un servizio digitale. È necessario che integrare competenze economiche e conoscenza tecnologica affinché le potenzialità delle nuove tecnologie siano messe a frutto nel modo migliore. Oggi abbiamo tecnologie sempre più sofisticate e “disruptive” che i modelli attuali non sempre riescono a comprendere fino in fondo.

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