CULTURA DIGITALE

Istruzione ICT, ecco perché Franceschini sbaglia

L’equivoco- che può nascere dallo scambio di battute tra il ministro Franceschini e il presidente di Google- è che lo sviluppo del Paese possa prescindere dal digitale e dalla capacità di essere attivi e autonomi nell’ICT. Chiarirlo, anche nei fatti, diventa strategico

Pubblicato il 30 Giu 2014

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Il dibattito tra il ministro Franceschini e Schmidt, presidente di Google, ha toccato più punti, ma certamente il più controverso, e probabilmente il più ambiguo dal punto di vista comunicativo, è stato quello relativo all’adeguatezza dell’attuale sistema educativo italiano e alla necessità o meno di far sì che i giovani italiani possiedano adeguate competenze informatiche.

La risposta del Ministro “in ogni Paese ci sono vocazioni, magari un ragazzo italiano sa meno di informatica ma più di storia medievale e nel mondo questo può essere apprezzato”, anche se certamente legata alla necessità di sintesi e al contesto del dibattito, rischia di rappresentare un pericoloso equivoco che, in un Paese dal rilevantissimo gap digitale come il nostro, non può che essere da chiarire rapidamente. E l’equivoco di fondo da evitare è sul significato e della rilevanza, oggi, dell’ICT e della competenza informatica.

Il ruolo delle competenze digitali

In una società che sempre più tende a spostare le interazioni e i processi sul digitale, in cui sempre più la nostra vita quotidiana si costruisce in un’integrazione non strutturata di momenti fisici e momenti virtuali, in cui sempre più la fruizione di servizi passa attraverso l’uso di dispositivi elettronici e i prodotti che utilizziamo hanno componenti digitali, la competenza informatica specialistica diventa una componente essenziale per qualsiasi lavoro e per qualsiasi attività di “creazione e realizzazione”, mentre la competenza digitale di base, trasversale, di e-leadership diventano le competenze necessarie per qualsiasi fruizione di servizi, di partecipazione alla vita sociale, per svolgere nel modo più efficace e proattivo un qualsiasi lavoro (nel 2020 il 90% dei lavori avrà una componente digitale significativa) e per governare e indirizzare progetti e organizzazioni.

E quindi, mentre alcune competenze continuano a riferirsi a settori specifici di attività (ad esempio la storia medievale), altre sono di precondizione per poter svolgere qualsiasi attività (le competenze di lettura e scrittura, le competenze di calcolo, le competenze digitali di base e trasversali), le competenze informatiche specialistiche sono precondizione per poter realizzare servizi in tutti gli altri settori di attività. Lasciar passare la convinzione che si possa fare a meno della cultura informatica significa ipotizzare che il nostro Paese possa fare a meno di realizzare autonomamente servizi e prodotti. Perché tutti i servizi e tutti i prodotti avranno una componente digitale. E significa anche ipotizzare che le nuove generazioni possano sviluppare il futuro del Paese solo ponendosi sul fronte dei realizzatori di contenuti.

Sistema educativo e Piano Industriale Nazionale

Tra l’altro, è proprio il nuovo e ambizioso percorso di innovazione che sta intraprendendo il Ministro a rendere pericoloso l’equivoco, percorso basato sulla valorizzazione del nostro patrimonio culturale e ambientale attraverso il digitale, necessario per ampliarne la fruizione (in profondità e capillarità), per aumentare la capacità di attrazione anche verso le popolazioni degli altri Paesi. Come fare tutto questo se non si hanno competenze digitali diffuse tra tutti i lavoratori del settore e come farlo con aziende italiane se non si spingono le carriere ICT nelle nostre scuole? In altri termini, come può l’Italia mantenere autonomia e indipendenza nel valorizzare il suo patrimonio se non si dota degli strumenti (immateriali) necessari?

A queste riflessioni si affiancano poi quelle relative ai settori economici che l’Italia vuole sviluppare e che si ritengono strategici per il futuro. È l’argomento principe di un Piano Industriale nazionale che manca, necessario per identificare le priorità di sviluppo e su quelle puntare orientando risorse ed energie, e naturalmente anche il sistema di formazione delle professioni. Ma anche qui, è difficile pensare che l’area dell’innovazione tecnologica e del digitale non sia da considerare strategica, per la storia del Paese e per le capacità che le sue eccellenze continuano ad esprimere, ma anche, e forse soprattutto, perché questo è l’unico modo per poter concretamente realizzare una “via italiana” all’innovazione, spesso oggetto di auspici, studi e convegni, ma mai posta come chiave concreta delle politiche di sviluppo.

Per evitare questo tipo di equivoco, probabilmente allora bisogna passare attraverso un profondo cambiamento culturale, in cui si acquisisce la componente digitale e informatica come componente necessaria e non eludibile della formazione culturale dei nostri ragazzi, portando l’educazione digitale e la programmazione come elementi base trasversali che compongono l’alfabetizzazione e l’architrave delle competenze. Dalla scuola primaria in poi.

Per questa ragione è indispensabile che il tema delle competenze assuma rapidamente un ruolo centrale nelle politiche sociali e di sviluppo del Paese, e che il recupero della componente digitale sia accelerato dando priorità a programmi di sistema come il Programma nazionale per la cultura, la formazione e le competenze digitali, con un impegno e un committment visibile, chiaro, continuo. Perché non ci sia più la possibilità, nel futuro, che si equivochi sul fatto che il governo possa considerare opzionale lo sviluppo della cultura informatica.

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