Sanità

Fascicolo sanitario elettronico, quale ruolo per le in-house

In-house o non in-house, questo è il dilemma. Alla ricerca del bandolo della matassa, chiariamo tre punti base per mettere ordine nel dibattito

Pubblicato il 06 Nov 2014

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Ritengo sia necessario, e giusto nei confronti di tutte le parti in causa, tornare sull’argomento del mio ultimo pezzo sul Fascicolo Sanitario Elettronico. Ci torno soprattutto perchè ho ricevuto un commento piuttosto acido da parte di un tal “Gollum” nel quale vengo accusato di una sorta di “criminalità seriale” consistente nel dare insistentemente addosso alle società ICT in-house regionali.
In condizioni normali, non replico a personaggi che si nascondono dietro nicknames: ritengo che superata la pubertà e la fase delle lettere o dei post inviati alle rockstar firmandosi “Mauro89” o cose simili, ciascuno debba mettere nome, cognome e faccia davanti alle cose che dice e alle sentenze che emette.
Faccio qui un’eccezione perchè ho trovato eccessivamente malizioso e ingiusto questo commento. Soprattutto perchè non ho mai detto che ci deve essere un “Fascicolo Sanitario Elettronico unico, magari affidato a una multinazionale”, come dimostra un mezzo quintale di articoli da me firmati e qualche decina di White Paper Netics, molti dei quali presentati in occasioni ufficiali, anche con la partecipazione di Assinter e/o di singole società in-house.
Veniamo al dunque.

Primo: non ho in mente, e non credo che ce l’abbia nessuno, un Fascicolo Sanitario Elettronico “unico”. E non credo sia una bella pensata immaginare che un progetto di FSE possa essere gestito da un soggetto privato (“fornitore”). Sarebbe una follia.
C’è una norma che sancisce la titolarità dei FSE in capo alle Regioni. E va benissimo così.
Ho solo provato a dire che avrebbe molto senso se le Regioni e Province Autonome si mettessero d’accordo con l’obiettivo di evitare duplicazioni nello sviluppo di componenti che per loro natura intrinseca possono e devono essere sviluppate una volta sola. L’autenticazione degli utenti, ad esempio.

Secondo: non esistono “le in-house” in quanto categoria monadica dello spirito. Esistono una quindicina di in-house, alcune delle quali in difficoltà e alcune no; alcune delle quali molto aperte nei confronti del mercato e alcune no; alcune delle quali arroccate in difesa e alcune altre no. Eccetera.
E non è un caso se le “alcune altre” sovente si mascherano dietro alla categoria monadica per evitare di essere riconosciute (“sgamate” sarebbe il verbo più adeguato).
Che almeno 2-3 in-house regionali siano in vendita o – comunque – in cerca di una profonda rivisitazione, non lo dico io ma lo dicono i rispettivi azionisti (le Regioni).
Che le in-house debbano rigorosamente rappresentare – sul mercato – il lato della domanda non lo dico io ma lo dice la legislazione comunitaria quando parla di controllo analogo e di governance degli enti strumentali.
Che molte in-house regionali si muovano ormai da anni (diciamo da quando è uscita la “Legge Bersani”) con una nuova e più costante attenzione al mercato e ai fornitori privati non lo dico io (anche se – mi si perdoni l’autoreferenzialità – nel mio passato professionale mi sono speso non poco per portare al centro del dibattito questo tema fondamentale, contribuendo all’evoluzione della in-house presso la quale lavoravo) ma lo dicono le in-house medesime nei Rapporti pubblicati dalla loro associazione di categoria (Assinter). Rilevo che “molte” non significa “tutte”, ed è proprio a queste “altre” che mi rivolgevo nei miei articoli.

Terzo: basta andare a rileggere documenti o a risentire miei speech pubblici per vedere che sono probabilmente il primo a dire che non ha senso immaginare di chiudere le in-house o venderle a privati.
La governance dell’innovazione tecnologica della PA deve rimanere di mano pubblica, rigorosamente.
Faccio fatica a pensare che una in-house del 2014 abbia ancora un senso quando si mette ad autoprodurre software, magari comprando “time & material” al massimo ribasso da fornitori che poi inevitabilmente falliscono (serve che faccia nomi? sono prontissimo a farli, anche se credo non serva perchè tutti quanti sapranno a chi mi riferisco).
Fortunatamente, le in-house virtuose non mancano. Il problema è che non tutte loro sono capaci di imitarle.

Sono tra coloro i quali (e lo sono dal 2006, quando in un convegno pubblico insieme a una decina di top manager di in-house regionali criticai apertamente l’allora “Decreto Bersani” successivamente convertito in legge) ritengono che le in-house siano una realtà centrale e un driver notevole per l’innovazione e la modernizzazione della PA. Alcune di loro hanno bisogno di capire che non siamo più negli anni ’70 e che i “fornitori” non sono incarnazioni terrene del demonio o “polli da spennare”.
Alcune, ribadisco. Che non significa “tutte”.

Forse è il caso di riaprire un dibattito, confrontando le diverse (supposto che siano davvero differenti) posizioni.
Un dibattito pubblico, dove però è difficile presentarsi incappucciati e nascosti dietro a nomi di fantasia più o meno divertenti.

Io ci sono.

Gollum, non so.

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