Il Rapporto Istat sulla conoscenza, di recente pubblicazione, assume una particolare importanza perché pone l’attenzione sul fatto che è l’intero ciclo di conoscenza a dover essere sostenuto, pianificato, attuato e quindi misurato. Di conseguenza, per modificare una situazione che vede l’Italia in larga parte sotto le performance medie europee, è necessaria una strategia che si occupi dell’intero ciclo, interessandosi allo stesso tempo e in modo organico di sistema educativo, ricerca, imprese, dal punto di vista della persona e delle sue competenze.
È necessario, pertanto, un approccio che non si limiti ad un’osservazione di settore e parziale, ma che punti ad una restituzione effettiva del “valore” della conoscenza. Valore economico, sociale, personale, e quindi valore diffuso e allo stesso tempo essenziale per la vita di una comunità e per l’economia e il benessere di un territorio. Il focus sul ciclo di conoscenza è prima di tutto un focus sull’integrazione degli interventi, sulla visione olistica della società, sul superamento della settorializzazione delle strategie di crescita. Non a caso nelle prime righe dell’introduzione si afferma che “Le espressioni “società dell’informazione”, “economia della conoscenza”, “digitalizzazione”, “impresa 4.0”, “internet delle cose” e così via, pur non essendo sinonimi l’una dell’altra, presentano molte “somiglianze di famiglia” e tendono a ricorrere insieme nei discorsi sugli sviluppi più recenti della società e dell’economia”.
Il Rapporto Istat sulla conoscenza
Il Rapporto attraversa in modo integrato il ciclo di conoscenza, distinguendo le dimensioni
della creazione di conoscenza, che tocca ambiti diversi, solo in parte legati alla tecnologia e all’attività produttiva, utilizzando indicatori relativi alle attività di ricerca e sviluppo, ai brevetti, ai marchi di fabbrica, al disegno industriale, ai prodotti della proprietà intellettuale e alle altre forme di investimento immateriale , alla produzione di pubblicazioni scientifiche, ai flussi internazionali di conoscenza, alla produzione creativa e all’occupazione in ambito culturale;
della trasmissione di conoscenza, dove si trattano gli aspetti relativi al grado di istruzione, all’output formativo del sistema universitario, alle discipline di laurea e dottorato, alla formazione degli adulti e a quella realizzata nelle imprese, e infine all’esame della qualità dell’istruzione e delle competenze di base degli adulti;
dell’uso della conoscenza nella vita delle persone e nell’economia, con indicatori relativi (per le persone) alle competenze specifiche legate alle abilità digitali e all’uso di computer e alle attività online, alle quali si aggiungono quelle più generali che si esplicano nello svolgimento non professionale di attività culturali; per le imprese, gli indicatori sono relativi gli aspetti legati alla presenza attiva sul web, ai sistemi informativi integrati per l’attività aziendale, alla diffusione dell’uso di computer da parte degli addetti e della formazione informatica del personale, al capitale umano del personale e alle professioni Ict. Tutti aspetti che sono alla base delle innovazioni nei processi produttivi e nella realizzazione di prodotti originali nelle imprese, dell’export di servizi, della bilancia dei pagamenti tecnologica e dell’incremento della qualità dei prodotti esportati.
Qui non possiamo approfondire l’analisi di tutti i dati presenti nel Rapporto (come consigliato dalla “guida alla navigazione” il Rapporto è molto ricco e quindi può permettere diversi percorsi di analisi, che cercheremo di intraprendere in riflessioni successive), ma credo che una prima lettura del Rapporto possa permetterci delle considerazioni sugli elementi maggiormente determinanti sul dato globale economico (e preoccupante).
Il paradosso economico italiano
Come si evidenzia nel rapporto, l’Italia “è un’economia industriale ad alto reddito ma anomala, perché caratterizzata, a confronto con le altre maggiori economie europee, da livelli di istruzione e competenze modesti, ancorché crescenti” a cui si aggiunge “una bassa intensità di ricerca e sviluppo e un’attività brevettuale modesta”, con il risultato che in larga parte il benessere del Paese è basato “su produzioni con un contenuto di conoscenze specialistiche relativamente limitato, facilmente replicabili a costi minori altrove”. In questo circolo vizioso gli elementi maggiormente determinanti sono quindi due, sui quali è utile soffermarsi:
- il livello di istruzione;
- la spesa in ricerca e sviluppo (R&S).
Il livello di istruzione
Il livello di istruzione costituisce, senza dubbio, uno degli elementi che maggiormente influenza il ciclo di conoscenza e soprattutto i processi di uso. Questo si rileva
- nell’uso della conoscenza da parte delle imprese (dove il livello di istruzione determina tra il 25% e il 30% della capacità di innovazione, e “la realizzazione di innovazioni combinate nelle piccole imprese risulta associata positivamente all’istruzione di imprenditore e dipendenti”);
- nella capacità del processo di trasmissione, dove il tasso di laureati rimane in gran parte zavorrato dalla percentuale di genitori con bassa istruzione, che vincolano a basse percentuali i figli;
- nell’uso dei servizi digitali, in particolare quelli di e-government, dove la media nazionale del 18% è frutto di un 30% della popolazione con istruzione più alta e l’8% di quella con più bassa istruzione.
Non è un caso che a questo stato dei livelli di istruzione si associ una carenza rilevante di competenza digitale, che si manifesta anche nell’utilizzo di internet. Come afferma il rapporto, “gli utenti internet del nostro paese si concentrano in un numero relativamente ridotto di attività, perlopiù di carattere passivo e poco avanzato”. Gli utenti italiani sono nella fascia bassa della graduatoria, con performance inferiori alla media europea, per l’invio di email, l’uso più diffuso in assoluto, e ultimi o nelle ultime posizioni per gli usi a carattere informativo (leggere giornali, documentarsi sulla salute, raccogliere informazioni su prodotti), i servizi bancari (40%), la creazione di contenuti o le vendite online. Sopra la media sono invece la visione di video condivisi da altri utenti e la partecipazione civica o politica.
Per motivi storici, nel confronto europeo il nostro Paese sconta livelli relativamente bassi sia della quota di laureati sull’insieme della popolazione, sia nelle competenze dei giovani e degli adulti. Sta diminuendo, fino quasi ad annullarsi, la differenza con l’Unione europea per la quota di studenti italiani del secondo anno delle superiori, con competenze in lettura e matematica insufficienti. Resta invece abbastanza elevata la quota di studenti con scarse competenze scientifiche.
L’istruzione è un fattore decisivo anche nello sviluppo economico. Per l’insieme delle piccole imprese, a parità di tutti gli altri elementi (settore, localizzazione, dimensione e così via), a ogni anno di scolarizzazione aggiuntiva degli imprenditori è associato un incremento di circa 1,3 mesi nella scolarizzazione media di ciascun dipendente; e alla più elevata istruzione dei dipendenti è corrisposta una maggiore capacità di innovazione e di resistenza anche agli eventi esterni contrari.
Al crescere dell’istruzione nelle imprese crescono anche la capacità di adottare applicativi di gestione dei flussi informativi, e la qualità delle esportazioni italiane, soprattutto nei settori tradizionali del made in Italy. L’istruzione ha una influenza significativa anche sulla situazione dei lavoratori: nel 2016, i tassi di occupazione delle persone tra 25 e 64 anni con titolo di studio elevato (laurea e titoli assimilati) erano superiori di quasi 30 punti percentuali rispetto alle persone con bassa istruzione (con al più un titolo secondario inferiore), l’80% contro il 51%.
La spesa in R&S
La spesa ridotta in R&S è uno dei maggiori determinanti per la carenza di brevetti, di pubblicazioni scientifiche, per il saldo negativo sui flussi di risorse ad alto contenuto di conoscenza, e quindi per la capacità di creazione di nuova conoscenza.
Prendendo a riferimento la popolazione residente, “l’intensità brevettuale” nel 2013 vede grandi differenze in ambito di Unione Europea, passando dalle oltre 300 richieste per milione di abitanti in Svezia e Finlandia a meno di 10 in Grecia, Bulgaria, Cipro, Croazia e Romania. L’Italia, con 72 domande per milione di abitanti si colloca al 64% del livello medio europeo, in diminuzione dal 72% nel 2007.
La spesa nella R&S, concentrata soprattutto sulla manifattura, è dovuta in gran parte a risorse di multinazionali: le imprese multinazionali contribuiscono per tre quarti al totale alla spesa in R&S delle imprese residenti. In particolare, poco più del 50% è effettuato dalle multinazionali italiane e il 25% dalle controllate nazionali di imprese estere.
Per quanto riguarda i brevetti e le pubblicazioni scientifiche, la bassa performance è correlata con il numero di ricercatori presenti (circa un terzo di quelli presenti in Germania), più che di qualità e quantità della produzione dei singoli.
Dopo la Germania, l’Italia è il Paese più attivo nel disegno industriale, con quasi 10 mila registrazioni e con una quota sul totale dell’Unione Europea salita dal 12,5% nel 2007 fino a sfiorare il 16% nel 2016. Un saldo negativo l’Italia registra anche per il flusso internazionale di “risorse della conoscenza”, e un livello di qualità (misurata dalle citazioni) più alto da parte di chi emigra di circa il 50% rispetto a chi rimane. Nella ricerca industriale l’Italia ha un saldo negativo pari a quasi il 17% delle domande nazionali.
Le ragioni di una strategia nazionale
Tutto ciò porta a disegnare la necessità di una strategia organica sul ciclo di conoscenza, sapendo che questa è la dimensione corretta per affrontare il tema della crescita economica, sociale e culturale, oltre che la base essenziale per quella consapevolezza (digitale, funzionale) necessaria per esercitare adeguatamente i diritti democratici di cittadinanza.
E in questo quadro mi sembra si delinei con chiarezza come questa strategia richieda un ruolo centrale da parte dello Stato, nel suo ruolo di “Innovatore”(come declinato da Mariana Mazzuccato), e quindi in grado di operare delle scelte sul modello di sviluppo, oltre che a dare priorità a quegli elementi che costituiscono gli ingredienti base per un’attuazione efficace.
Strategia ambiziosa, di complessa attuazione, ma forse l’unica in grado di (ri)progettare un futuro per l’Italia in grado di attrarre “risorse della conoscenza”. Un futuro dove il saldo migratorio dei lavoratori della conoscenza diventa positivo perché la conoscenza e il sistema educativo assumono finalmente un ruolo centrale nella politica economica nazionale.