il commento

Industria 4.0, perché il piano italiano è limitato. Onida: “Manca un disegno di medio-lungo periodo”

I primi segnali che vengono da Digital hub e competence center non sono incoraggianti. Ma soprattutto in Italia manca quella strategia di politica industriale ad ampio respiro che c’è in altri Paesi. L’analisi del noto economista per Agendadigitale.eu

Pubblicato il 16 Mar 2018

Fabrizio Onida

professore emerito, Università

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La progressiva e pervasiva digitalizzazione dell’industria e dei servizi è la nuova frontiera con cui si confronta il disegno della politica industriale, in Italia non meno che nei maggiori paesi europei. Se elettronica-computer-informatica sono al centro della cosiddetta terza rivoluzione industriale del secondo dopoguerra (dopo il vapore e l’elettricità già protagonisti del XIX secolo), la rivoluzione 4.0 di oggi e secondo alcuni la rivoluzione 5.0 di domani si caratterizzano per l’avvento della interconnessione tra cose e persone.

Una interconnessione favorita dall’Internet delle cose e dai rapidi avanzamenti tecnologici trasversali fra tutti i settori, che chiamano in causa l’intera gamma delle Key enabling technologies, dai nuovi materiali a sensoristica, opto-elettronica, robotistica, nano e microelettronica, bio-ingegneria, genetica. Secondo gli studi del M.I.T (Massachussets Institute of Technology) siamo già entrati nella fase Industria 5.0 in cui i processi di machine learning consentono di disegnare scenari di auto-apprendimento dei robots – sempre guidati dal cruciale fattore umano – con impensabili guadagni di produttività.

In questo quadro, come valutare l’impostazione della nostra Industria 4.0, ormai ribattezzata Impresa 4.0?

Piano industry 4.0 luci e ombre

Onore al merito del ministro Calenda che ha impresso una svolta radicale a favore di una politica di incentivi automatici, prevalentemente fiscali come i crediti d’imposta sull’incremento di spese private in R&S e formazione tecnica e gli sconti di imposta tramite super e iper-ammortamento sugli acquisti di macchinari e software, accompagnati dal rilancio di credito agevolato sugli investimenti fissi (nuova Sabatini). Una impostazione che giustamente ha voluto abbandonare il più possibile la logica dei bandi ministeriali, strumenti che la tradizione italiana conferma troppo spesso come inefficienti e inefficaci a causa dei ritardi decisionali e dell’incertezza legata alla opacità-farraginosità delle procedure e al conseguente rischio di contenzioso amministrativo (corsi e ricorsi tra TAR e Consiglio di Stato).

Ciò detto, non poche incertezze gravano sul pratico funzionamento del disegno organizzativo basato sulla complementarietà fra Digital Innovation Hubs (DIH) e Competence Centres (CC). I primi mirano a offrire – nelle decine di aree in cui operano le rappresentanze territoriali di Confindustria –  uno sportello leggero di informazione e prima guida per mettere in contatto le imprese locali con la rete di Competence Centres a livello nazionale che si ritengono più adatti a cogliere le specifiche esigenze di consulenza e progettazione della singola impresa intenzionata a innovare la propria gamma di prodotti e i propri processi produttivi.   I citati Competence Centres nazionali rimandano inevitabilmente a procedure di bando ministeriale per la loro selezione, a partire da più di 100 atenei e istituti di ricerca che aspirano a coprire tale ruolo per precostituirsi qualche fonte addizionale di finanziamento.

L’utilità pratica dei DIH dipenderà dalla capacità dello scarso personale specializzato in grado di favorire il corretto matching fra le specifiche esigenze aziendali e l’offerta delle specifiche competenze reperibili nella rete dei CC vicini e lontani. Naturalmente nessuno pensa che i DIH possano e debbano ispirarsi al modello operativo delle quasi 70 società tedesche Fraunhofer Gesellschaft, potenti centri di trasferimento tecnologico che con quasi 25.000 ricercatori e addetti stipulano veri e propri contratti di ricerca finanziati per un terzo dalle imprese e per due terzi da fondi pubblici, inclusi i fondi universitari nazionali ed europei. Ma senza un minimo di capitale umano specializzato troppi sportelli dei DIH rischiano di ricadere nella logica burocratica, autoreferenziale e irrilevante che troppo spesso soddisfa più i bisogni di rappresentanza delle istituzioni promotrici che gli autentici e spesso sofisticati fabbisogni informativi delle imprese.

Quanto ai bandi da poco varati per la selezione dei CC, i segnali iniziali circa la definizione di procedure snelle e trasparenti non sembrano del tutto incoraggianti. Bisogna anche dire che in molti casi di imprese medio-grandi, ma talora anche piccole, l’imprenditore e la sua squadra hanno già una notevole conoscenza (e magari una positiva esperienza passata di collaborazione) dei singoli centri universitari con competenze specifiche nella nicchia tecnologica in cui opera l’impresa.

La necessità di un disegno di ampio respiro

Ma al di là di queste riserve vorrei sottolineare che, guardando all’esperienza in corso da anni nei diversi paesi nostri vicini europei, una politica industriale veramente innovativa (non solo di sostegno congiunturale e del – pur importante – intervento pubblico per la gestione delle numerose crisi aziendali) dovrebbe porsi senza riserve come diffusion oriented e insieme mission oriented, per usare il linguaggio della teoria dell’innovazione.  Senza alcuna velleità dirigistica, e tanto meno senza nostalgie di fallimentari strategie da “picking the winner”, gli incentivi fiscali e finanziari automatici (assai efficaci nel breve periodo) andrebbero accompagnati ad un disegno a medio-lungo termine di ampio respiro, in cui lo Stato si pone come catalizzatore di investimenti privati e pubblici in ricerca applicata rivolta al perseguimento di grandi obiettivi civili-economici-sociali come potenti drivers dello sviluppo.

Basta guardare a come vanno muovendosi i nostri maggiori vicini europei, per non parlare di USA, Cina, Sud Corea, Taiwan e altri paesi extra-europei decisi a costruirsi un futuro benessere basato sulla competitività tecnologica e sulla valorizzazione inclusiva del proprio capitale umano.

In Germania una politica industriale insieme “diffusion oriented” e “mission oriented” mette proprio la ricerca pe-competitiva al centro dei 10 “Future projects” promossi dal Ministero dell’Istruzione e della Ricerca, dall’Agenzia governativa GTAI e dalla Industry-Science Research Alliance. Tra questi il progetto Industrie 4.0 che coltiva in particolare le opportunità della nuova industria manifatturiera (Smart digital manufacturing for the future). Lo schema amministrativo è quello già citato della Fraunhofer Gesellschaft: un terzo a testa dei costi ripartiti fra governo federale o regionale, Università e settore privato.

In Francia, a partire dal Rapporto Gallois (2012), il CNI (Conseil National de l’Industrie) promuove 9 programmi (Solutions Industrielles”) entro cui si realizza una cooperazione pubblico-privata di circa 2000 imprese con l’aiuto di quasi 300 esperti. I grandi programmi nazionali si articolano in programmi di filiere e settori specializzati sviluppati dai 20 Istituti Carnot e da più di 70 “poli di competitività” territoriali.

Nel Regno Unito, fra i primi Catapult Centres – il cui numero dovrebbe crescere fino a 25-30 entro il 2030 –  sono stati avviati alcuni programmi strettamente legati a competenze tecnico-scientifiche particolarmente coltivate da Università britanniche di eccellenza, tra cui Manifattura additiva, Satelliti e aerospazio, Energie alternative offshore, Terapie cellulari.

Da tempo anche negli USA, dopo l’esperienza positiva di Sematech nella microelettronica, fioriscono esperienze di consorzi di ricerca pre-competitiva con partecipazione di denaro pubblico.

Guardando questi programmi di politica industriale dei diversi paesi, che riprendono numerosi  documenti ufficiali della Commissione Europea, appare un notevole convergenza sugli stessi grandi obiettivi (drivers)  tecno-economici e sulle stesse ricorrenti priorità di sviluppo della società: efficienza energetica, salvaguardia ambientale, nuova  manifattura additiva e interconnessa (con largo uso di Internet delle cose, realtà aumentata, Intelligenza artificiale, robotistica e machine learning), reti intelligenti di trasporti e comunicazione nelle città e fra i territori (mobilità sostenibile, smart cities, smart grids), nuovi materiali per usi domestici e industriali, bio e nanomedicina curativa e preventiva, difesa, sicurezza e così via. [1] Questi stessi obiettivi, con varianti che tengano conto delle nostre specifiche vocazioni industriali, potrebbero bene essere fatti propri dalla politica industriale italiana che cercasse di indirizzare gli impegni di ricerca e innovazione del nostro apparato produttivo. Non si dovrebbe perciò assolutamente parlare di “forzatura dirigistica”.

[1] Per una esposizione più dettagliata mi permetto di rinviare a Onida F (2017)., L’industria intelligente. Per una politica di specializzazione efficace, Università Bocconi Editore, Milano, cap. 4.

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