riforma costituzionale

Ecco che cosa cambia con la centralizzazione delle competenze IT della PA

Con l’inaspettato voto favorevole e unanime alla Camera, passa l’emendamento proposto da Stefano Quintarelli che attribuisce allo Stato competenza esclusiva in materia di sistemi informativi della PA.
Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione, anche in termini di mercato. Cambia tutto: a partire dalle società in-house regionali.

Pubblicato il 11 Feb 2015

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Con l’approvazione unanime della Camera, passa l’emendamento di modifica dell’art. 117 della Costituzione presentato da Stefano Quintarelli (SC) e lo Stato si attribuisce competenze esclusive in materia di sistemi informativi della PA anche a livello regionale e comunale.
Il commento praticamente unanime della rete e dei principali analisti specializzati è di grande entusiasmo: una vera e propria rivoluzione, che mette fine ad anni e anni di conflitto Stato/Regioni.
Va detto che il passaggio di ieri alla Camera non è che una – per quanto fondamentale – tappa di un percorso ancora lungo e aperto a sorprese, se e quando la lobby delle Regioni decidesse di dar vita ad una “controoffensiva”. Anche se l’unanimità manifestatasi e il tono col quale il Ministro Maria Elena Boschi ha ringraziato l’intergruppo parlamentare sull’innovazione tecnologica lasciano immaginare un fortissimo commitment a Palazzo Chigi e dintorni.

Cambia tutto, in estrema sintesi: a partire dalla sovrabbondanza di piattaforme tecnologiche sviluppate negli anni dalle Regioni e dai Comuni, con tutte le derivate del caso in termini di ostacoli all’interoperabilità e/o alla generazione di sovracosti per la gestione dell’interoperabilità medesima.
E tutto va a incastrarsi alla perfezione all’interno del puzzle disegnato a suo tempo da Francesco Caio e dai suoi collaboratori ed ora messo a punto dall’AgID e dai ministeri competenti: anagrafe nazionale della popolazione, sistema di identità digitale, hub dei pagamenti elettronici della PA, razionalizzazione dei data center pubblici.

Cambia tutto anche sul versante dell’offerta, e non necessariamente in peggio.
Tutt’altro.
Sapendola affrontare, questa “rivoluzione” può rappresentare un momento di fortissima discontinuità dove i vendor IT che sapranno giocarsela al meglio potranno rimettere in discussione posizionamenti stratificati in un paio di decenni.

Quello che cambia radicalmente, anche qui in meglio, è lo scenario che si prospetta di fronte all’immediato futuro delle società ICT in-house regionali e comunali.
Viene a mancare di significato l’esistenza di una quindicina di soggetti ciascuno dei quali sviluppa piattaforme e soluzioni sostanzialmente identiche fra loro sotto il profilo funzionale. Vedi, per fare alcuni esempi, le piattaforme per la gestione del bollo auto, il fascicolo sanitario elettronico, il sistema informativo del lavoro e della formazione professionale, e via di questo passo.
E torna in tutta la sua straordinaria attualità il modello di “smart specialization cooperativa”: ciascuna in-house si specializzi e porti avanti un ambito applicativo specifico, per poi dare vita a un circuito (obbligatorio) di riuso interregionale.
Il tutto sotto una forte regia centrale, ça va sans dire. Dell’AgID o, magari, di un neocostituito Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri che lasci all’Agenzia compiti strettamente operativi avocando a sé invece la parte di disegno strategico della nuova Italia Digitale.

Quello che sarebbe utile conoscere per tempo da Palazzo Chigi e dintorni è l’eventuale e vociferato orientamento verso scenari di nuove IRI per l’informatica pubblica, di un ritorno a possibili software house di Stato.
E’ doverosa, da parte dei decisori, una comunicazione tempestiva in questo senso. Confermando o smentendo queste voci che circolano ormai insistentemente da tempo.
La speranza ovviamente è che arrivi una smentita: nel 2015, ipotizzare il ritorno al passato non è il massimo.
Abbiamo già dato con Albano e Romina a San Remo, diciamo.

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