nuovo paradigma digitale

Capovolgere la didattica: da consumatori di conoscenza a creatori responsabili

Se non si cambia paradigma di apprendimento e didattica, non si produce nulla di nuovo. E lo stesso se non si cambia prospettiva, con l’esempio di maestri come Montessori o il maestro Manzi. Ecco, insomma, perché l’inserimento delle tecnologie nella didattica non è così apocalittico come riassunto in una puntata di Report

Pubblicato il 14 Mag 2018

Daniela Di Donato

Docente di italiano (Liceo scientifico), PhD in Psicologia sociale, dello sviluppo e della Ricerca educativa presso Sapienza Università di Roma, esperta di metodologie didattiche, inclusione e uso delle tecnologie digitali a scuola.

digital learning education

L’inserimento delle tecnologie nella didattica non è sintomo di cambiamento o innovazione. Gli smartphone non servono a niente in classe, anzi sono dannosi alle lezioni, lo dicono gli studenti e lo ribadiscono i loro docenti, e anche esperti emeriti. La Francia li ha vietati, Bill Gates e Steve Jobs ai loro figli non li facevano usare. Le Lim sono state un investimento assurdo e sbagliato: diciamocelo, soldi buttati. La formazione dei docenti al digitale? Una boutade da elezioni imminenti. L’Animatore digitale invece un vero flop galattico.

Traghettare la scuola nel XXI secolo, controvento

Nei dieci minuti e trentacinque secondi di servizio andati in onda lunedì 26 marzo nel programma televisivo “Report” questa è l’immagine della scuola digitale che si è voluto dare e la visione apocalittica sul documento del Miur, a proposito dell’uso dei dispositivi personali in classe. Alla faccia di tutti quelli che da anni si spendono per traghettare la scuola italiana nel XXI secolo. E lo fanno, spesso, controvento. Attenzione però a non scambiare il maestrale per un innocuo ponentino: vengono entrambi da ovest, ma hanno un’altra portata. Che poi a Roma sembra che neanche soffi più il Ponentino, a causa dei palazzoni abusivi costruiti da imprenditori corrotti e per irresponsabili e colpevoli piani edilizi, almeno così ho sentito in una vecchia puntata di Report.

Diversa letteratura scientifica (e tante esperienze pratiche) ci mostra che, senza un cambiamento profondo del paradigma dell’apprendimento e della didattica, non si produce nulla di nuovo. Anzi, s’ingolfa un sistema come quello educativo del nostro paese con un motore a due cavalli, in un’automobile a rischio di accensione spia sul cruscotto o già in blocco per evidente scarsa manutenzione locale e senza un meccanico di riferimento (e di fiducia soprattutto).

Dove si trova l’uscita di emergenza? E quali sono i segnali da seguire per riuscire a salvarsi dalla tecnocrazia che, se fine a se stessa, è una vuota ripetizione di meccanismi mutuati tristemente dall’analogico e ripetuti identici nel digitale? Come riparare la mancanza di un’autentica riflessione sul fare sistema, sui modelli didattici, sulle teorie dell’apprendimento e i loro corto circuiti con le neuroscienze? Il PNSD riuscirà a salvare il mondo dalla mancata collisione tra il fuoco piroclastico alimentato dai docenti visionari e innovatori e l’asteroide, che porta a bordo la parte callosa dei docenti e dei dirigenti scolastici, ancora drammaticamente ostinati nel frenare l’innovazione e la sperimentazione, invece di incentivare, motivare, sostenere e premiare (sì, pre-mia-re) quei docenti che vogliono assolutamente portare i loro studenti nel futuro, che abiteranno a breve e del quale devono sentirsi sensibili e responsabili protagonisti?

Uso creativo delle tecnologie a scuola, esempi illustri

Il mio rimedio alla fine del mondo sono le capriole. Il capovolgimento a scuola, la classe capovolta. Cambiare prospettiva non fa così male, ce lo diceva pure il professor Keating, quando faceva salire sui banchi gli studenti e diceva loro di “guardare le cose da angolazioni diverse”. Non era per sentirsi alti. Qualcuno sostiene che la Flipped Classroom non sia un sistema pedagogico, ma forse non ha guardato bene. Maria Montessori era partita dalle classi speciali per predisporre il suo “aiutami a fare da solo”. Nella mia esperienza di docente le prime a consigliare fortemente l’uso dei dispositivi digitali a scuola sono state le diagnosi dei miei alunni con disturbi dell’apprendimento: tecnologie come strumenti compensativi, da usare con i compagni e in mezzo ai banchi, non in solitudine a casa. Don Milani chiedeva di portare la scuola fuori dalle mura della scuola stessa e abbracciare una comunità di studenti più ampia, di quelli che potessero entrare in una delle sue classi. Il maestro Manzi parlava dalla tv a migliaia di analfabeti, facendo il maestro capovolto ante litteram e promuovendo un pensiero di libertà e l’immagine di una scuola di tutti e per tutti, soprattutto per chi a scuola non era mai riuscito ad entrarci o per chi da quelle aule magari era stato cacciato fuori, respinto perché inadeguato. Non erano forse docenti capovolti quelli? Non è stato questo un uso creativo e responsabile delle tecnologie dell’epoca: i materiali di sviluppo di Maria Montessori, con i quali procedere autonomamente per tentativi ed errori, il “prendersi cura” di Don Milani nella scuola che cura i sani e respinga i malati, la televisione e la radio per le lezioni a distanza di Alberto Manzi?

Docenti capovolti e tecnologie digitali

Se capovolgersi significa invertire le situazioni tradizionali della scuola che conosciamo, quindi quel che si faceva da soli a casa ora si affronta in classe con alunni e insegnante e le lezioni invece si fanno a casa con video e altri learning objects, allora quelli erano già docenti capovolti. Le tecnologie digitali hanno allora un peso specifico alto, legato alla condizione di massima inclusività possibile, che possono concretamente realizzare. Come? Un video guardato in classe lo si vede contemporaneamente, tutti allo stesso ritmo e allo stesso modo, mentre se deleghiamo la sua visione a casa a qualcuno può bastare guardarlo una volta, ad altri ne servono cento, ma nessuno lo verrà a sapere perché quel che conta è che tornati in classe il racconto didattico di quel video sia stato acquisito da ciascuno, a modo suo.

Guardare la scuola da un’altra prospettiva

Il compito autentico è il perfetto esito dell’incontro delle aree di sviluppo prossimale di ciascun membro del gruppo, che ci ha lavorato e ha fatto esondare le risorse meravigliose di tre, quattro individui che sono diventati uno e sono confluiti verso l’obiettivo richiesto. La valutazione ha messo il naso dentro il processo di apprendimento e l’occhio sul futuro degli alunni, indicando loro la strada, non selezionando il migliore, ma abbracciando i percorsi di tutti, nel rispetto pieno delle capacità di ciascuno di monitorare, documentare, vagliare ipotesi e possibilità e soprattutto assumersene la responsabilità. Straordinariamente inclusivo, come le rubriche di valutazione, le checklist e tutte le decine di tecniche di valutazione formativa che nella classe capovolta si possono sperimentare per sorreggere e rendere attivo lo scaffolding, cioè mettere su impalcature di legno, regolabili e rimovibili, quasi invisibili, attorno all’apprendimento dei nostri studenti, facili da togliere quando non ce ne fosse più bisogno, ma che mettono ognuno in grado di imparare.

“Non vi ho convinti? Coraggio venite a guardare voi stessi. È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo, ci dovete provare”. Non lo dico io, lo diceva il professor Keating. Aspetto il prossimo servizio di Report, quello dall’altra prospettiva.

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