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Ricerca scientifica, specializzarsi o diversificare: quali politiche per l’Italia

I dati dicono che le nazioni leader di maggior successo tecnologico non si specializzano in solo specifici domini scientifici quanto piuttosto diversificano il più possibile il loro sistema di ricerca. Questo dovrebbe spingere l’Italia a un cambio di rotta, rispetto alle attuali politiche di accentramento

Pubblicato il 03 Mag 2018

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Misurare la qualità della ricerca scientifica di un paese è di grande interesse per i decisori politici allo scopo di definire sia il suo finanziamento sia le sue priorità. Articoli e citazioni rappresentano una misura dell’output dell’investimento in ricerca: il numero di articoli scientifici è correlato all’attività svolta e il numero di citazioni da questi ricevuti è un surrogato della qualità scientifica, la loro popolarità. Mentre quando ci si riferisce a un singolo ricercatore questi numeri vanno trattati con grandissima cautela (si veda ad esempio qui, qui e qui), quando si considera la produzione di un intero paese si può ragionevolmente assumere, grazie ai grandi numeri in gioco, che ci sia una proporzionalità tra il numero totale di articoli e citazioni e la significatività della ricerca.

Come misurare l’impatto dei sistemi di ricerca delle nazioni

Per misurare l’impatto dei sistemi di ricerca delle nazioni abbiamo utilizzato i dati disponibili sul sito Scimago che riguardano 238 paesi, 27 campi scientifici che a loro volta sono suddivisi in 307 sotto-campi. Nell’analisi non abbiamo incluso (in prima battuta) i dati per le scienze sociali e le scienze umane, poiché è noto che le banche dati sono ampiamente incomplete per questi settori: lo stesso non avviene per le scienze naturali, la matematica, l’ingegneria e la medicina in cui le pubblicazioni sono, nella quasi totalità, in lingua inglese e su riviste internazionali. Questa situazione non è solo dovuta a una diversa convenzione adottata nei differenti campi del sapere, ma è anche il riflesso di un problema sostanziale. Nelle scienze naturali, ad esempio, si studiano fenomeni che sono universali, cioè che occorrono qui e ora come in ogni altro luogo e istante: per esempio, il tempo della fisica è privo di posizione storica, mentre il tempo per i fenomeni sociali è proprio il tempo storico. Nelle scienze sociali il dove è il quando sono perciò fondamentali e questo implica una minore internazionalizzazione dei problemi e una maggiore attenzione a casi in specifici paesi e situazioni.

È ovvio che quando si confrontano paesi molto differenti (ad esempio, gli Stati Uniti e la Svizzera) bisogna tener conto del fatto che la produzione scientifica globale dipende dalle dimensioni del paese stesso: ad esempio dal numero di ricercatori o dall’investimento totale in ricerca. Poiché il numero di ricercatori non è semplicemente misurabile (ad esempio, in Italia c’è un problema non banale nel censimento dei ricercatori non permanenti), abbiamo usato, come indicatore per comparare diversi paesi, la spesa in ricerca scientifica e sviluppo. Più precisamente, a tale scopo, abbiamo utilizzato, come prassi in questo tipo di analisi, i dati della spesa dell’istruzione superiore per la ricerca e sviluppo (la cosiddetta HERD) che viene censita dall’OCSE.

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Impatto della ricerca, come si pone l’Italia

Nella figura che segue, è riportato il rapporto tra il numero totale di citazioni e la spesa HERD (espresso in dollari equivalenti – PPP$) per ogni paese (considerando il numero d’articoli si ottiene un risultato simile). La linea verde è (quasi) una retta: questa relazione implica semplicemente che la produzione della ricerca scientifica dipende linearmente dalle risorse che una nazione ha investito in essa. Le nazioni sopra/sotto la retta (ad esempio, Regno Unito, Israele, Canada, Nuova Zelanda, sopra; Giappone, Cina, Messico, Turchia, sotto) sono più/meno efficienti nella loro produzione scientifica rispetto all’andamento medio: un’analisi più raffinata, di cui discuterò in seguito, è quindi necessaria per identificare le ragioni di queste fluttuazioni. Tuttavia in prima battuta possiamo concludere che nella ricerca scientifica il risultato che si ottiene a livello di paese dipende dall’investimento, con delle deviazioni dalla media piuttosto contenute in quasi tutti i paesi al mondo e sicuramente per l’Italia che, anzi, si posiziona abbastanza bene. Sembra un risultato banale ma vale la pena ricordarlo, data la confusione che leggiamo spesso sul funzionamento della ricerca in Italia.

Chiunque faccia ricerca in un certo campo scientifico conosce bene quali sono i paesi e le università in cui, tradizionalmente, si trovano le migliori scuole scientifiche. Per studiare in maniera sistematica, utilizzando degli indicatori, l’impatto scientifico delle nazioni, sono stati utilizzati i dati riguardanti il numero di articoli e citazioni prodotti dai singoli paesi. Robert May è stato tra i primi a compiere questo tipo di analisi per gli anni 1981-1994; in particolare ha confrontato gli investimenti e i risultati della ricerca scientifica in diverse nazioni. David King ha presentato nel 2004 un’analisi simile, ma più raffinata per gli anni 1993-2002. In particolare, con l’obiettivo di determinare l’impatto scientifico delle nazioni, King costruì una classifica in cui le nazioni sono state ordinate secondo la loro quota di citazioni del mondo.

Più recentemente altri studi, utilizzando una simile metodologia, hanno mostrato, tra le altre cose, che la produttività della ricerca accademica italiana, confrontata con altre nazioni è molto buona sia in termini di articoli scientifici che di citazioni ricevute in confronto alla spesa in ricerca e sviluppo accademica (tecnicamente la spesa in HERD = Spesa in istruzione superiore relativa al Prodotto Interno Lordo). I dati mostrati nella figura sono tratti dall’International Comparative Performance of the UK Research Base 2011 e riguardano il periodo 2006-2010.

Oltre al contributo nazionale alla produzione scientifica mondiale David King ha fatto un confronto tra le cinque principali discipline scientifiche (medicina, scienze naturali, scienze agrarie, ingegneria e tecnologia, scienze sociali) in diversi paesi. La quota di citazioni rispetto al totale nel mondo in quel periodo, per ogni disciplina, è stata poi utilizzata come metrica specifica per quantificare l’impatto scientifico delle nazioni nelle diverse discipline. Quest’analisi ha mostrato, per esempio, che la Russia e la Germania sono relativamente forti in fisica, la Francia in matematica, mentre il Regno Unito e gli Stati Uniti eccellono in medicina e scienze dell’ambiente.

Ricerca, il bivio dell’Italia

Le implicazioni politiche di queste analisi sono di due tipi. Da una parte si nota le nazioni che sono leader tecnologici, hanno la più grande produzione di articoli scientifici e raccolgono il maggior numero di citazioni. Questi paesi hanno anche la più alta frazione di spesa in ricerca e sviluppo rispetto al PIL (quasi il 3%). Dall’altra parte, un’analisi comparata dell’impatto dei diversi settori di ricerca può fornire informazioni su quale sia la maniera più efficiente di implementare il proprio sistema di ricerca: specializzarsi in alcuni settori scientifici o piuttosto diversificarsi per quanto possibile?

Entrambe le domande sono molto rilevanti per l’Italia che ha una spesa in ricerca e sviluppo intorno all’1,2%, circa la metà di paesi come la Francia e la Germania, e soprattutto sta avendo in questi anni una allarmante spinta a accentrare le risorse su pochi poli di eccellenza e progetti scientifici, entrambi decisi “dall’alto”. Siamo sicuri che quest’ultima sia una politica che abbia senso?

Poiché la scienza non è altro che uno dei differenti risultati di una società, questi problemi sono strettamente legati a quello della produzione industriale delle nazioni, per la quale alcune delle principali teorie economiche classiche prescrivono la specializzazione, mentre, recenti studi mostrano che le nazioni sono estremamente diversificate e tendono a produrre tutto il possibile, vale a dire, tutto ciò compatibile con le loro capacità determinate dall’insieme delle infrastrutture, livello tecnologo, sistema educativo, efficienza dello Stato, ecc. Nella scienza avviene lo stesso? È più efficiente e conveniente per un paese diversificare la propria produzione scientifica o specializzarsi? Distribuire le risorse in vari campi di ricerca o accentrarle in pochi “centri di eccellenza”?

L’importanza della diversificazione nella ricerca

Per valutare quantitativamente il vantaggio comparato della diversificazione scientifica è possibile utilizzare un nuovo approccio, che permette di definire una misura sia per la competitività dei sistemi di ricerca scientifica delle nazioni sia per la complessità dei settori scientifici. Quest’approccio usa come dati grezzi le citazioni nei diversi campi scientifici normalizzate alla spesa HERD ed è basato su un algoritmo ispirato a Google PageRank. In questo modo si ordinano i paesi in base alla loro “fitness” scientifica dove la fitness è una variabile che tiene conto della competitività scientifica di una nazione misurando, al contempo, il livello di diversificazione e di complessità dei campi scientifici in cui quel paese è attivo: un paese con alta fitness è competitivo scientificamente in campi scientifici molto complesso, e un campo è molto complesso se è sviluppato solo dai paesi con alta fitness. Le due definizioni sono autoconsistenti ed è dunque possibile utilizzare i dati sulle citazioni per calcolare, attraverso l’algoritmo matematico, la fitness di ogni paese e la complessità. Ad esempio solo le nazioni più avanzate e competitive sono attive in alcuni campi specialistici delle scienze mediche, mentre la gran parte delle nazioni sono attive in campi come la fisica e la matematica.

I domini top, ovvero quelli che vengono svolti dalle sole nazioni più competitive, sono complessi nel senso che richiedono uno sviluppo sistema di ricerca (che comprende già tutti gli altri domini più fondamentali), nonché una società sviluppata. Le nazioni sottosviluppate invece sono ancora in una fase di costruzione del loro sistema di ricerca e sviluppo, i cui mattoni fondamentali sono ovviamente le scienze “di base” (fisiche e formali) e quelle che sono più legate ai ritorni economici (ingegneria e tecnologia), che corrispondono così a una bassa complessità. Secondo questa visione, la complessità di un dominio scientifico è associata non necessariamente a requisiti tecnici, ma a un substrato sociale ed economico complesso che consente (e richiede) di effettuare ricerche su di essi. Le discipline più complesse non sono necessariamente quelle di elevate esigenze tecnologiche. Al contrario, sono discipline (come la conservazione dell’ambiente, la ricerca medica e gli studi socio-economici) che affrontano i bisogni di una società più sviluppata che non sono direttamente collegati alla ricerca economicamente più rilevante. A loro volta, questi domini svolgono il ruolo di buoni “marcatori” per la capacità scientifica di una nazione: solo le nazioni altamente competitive, in termini di ricerca scientifica, possono disporre delle risorse umane e finanziarie necessarie per lo sviluppo di queste discipline.

La conclusione è, dunque, che, come avviene per la produzione industriale, le nazioni leader di maggior successo tecnologico non si specializzano in solo specifici domini scientifici quanto piuttosto, diversificano il più possibile il loro sistema di ricerca. La diversificazione è l’elemento chiave per le nazioni di realizzare un sistema di ricerca di successo e competitivo: questa conclusione suggerisce che l’eccellenza scientifica si può intendere come un effetto collaterale naturale di un complesso, eterogeneo, diversificato, e quindi sano, sistema di ricerca. In un mondo ideale, questo tipo di analisi dovrebbe essere usata dai decisori politici a livello nazionale e europeo per meglio strutturare l’organizzazione della ricerca, che dovrebbe essere interesse pubblico dal momento che un sistema efficiente è una condizione necessaria, ma certamente non sufficiente, per stimolare innovazione e sviluppo nel sistema economico.

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