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Riuso software nella PA, linee guida e oltre: così risolviamo i problemi storici

Le linee guida Agid sul riuso software, adesso in consultazione, permettono di colmare alcune carenze che ne hanno limitato la diffusione, ma per rendere strutturale il risultato, occorre agire verso la costruzione della collaborazione come metodo di sistema, con vere e proprie infrastrutture di connessioni

Pubblicato il 02 Mag 2018

Nello Iacono

Esperto processi di innovazione

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L’apertura della consultazione Agid sulle linee guida per l’acquisizione e il riuso del software nella pubblica amministrazione (che ha l’obiettivo difacilitare le pubbliche amministrazioni nell’acquisizione e nel riuso dei software tramite il ricorso al paradigma open source”) ripropone un tema chiave per lo sviluppo digitale, e che va oltre la semplice ottimizzazione del meccanismo di riutilizzo di applicazioni già realizzate in ambito PA. Credo si possa porre come il tema “della valorizzazione e del potenziamento delle connessioni” di esperienze, relazioni, intelligenze in ambito di “ecosistema dell’innovazione”. Sapendo che gli ecosistemi esistono a prescindere dalla loro efficacia e dalla loro capacità di dare valore aggiunto a ciascun componente, e che due delle criticità che maggiormente influenzano negativamente la “crescita digitale” dell’Italia sono senz’altro legate alla carenza di “infrastrutture di connessioni”:

  • l’elevata frammentazione nella governance e negli investimenti per quanto riguarda le iniziative della pubblica amministrazione;

  • la scarsa capacità di “fare sistema” tra gli attori dell’ecosistema, tra i centri di ricerca, le università, la pubblica amministrazione, le aziende private, gli investitori privati.

Il riuso nella PA

La scarsità di esperienze sistematiche di riuso è stata una costante della pubblica amministrazione, nonostante quanto definito nel Codice dell’Amministrazione Digitale (per cui la ricerca di esperienze già presenti deve essere privilegiata rispetto all’acquisizione o alla realizzazione di applicativi software), nonostante la definizione di azioni specifiche, come il “catalogo del riuso”. Le ragioni del fallimento sono da ricercarsi a mio avviso in più fattori, tra i quali:

  • la mancanza di un meccanismo di gestione e supporto al riuso (in termini di processi, risorse, governance, oltre che tecnico) e l’idea che il funzionamento del catalogo potesse essere simile a uno scaffale self-service;

  • la mancanza di un meccanismo di incentivazione al riuso per le pubbliche amministrazioni (sapendo che gestire un processo di riuso, e quindi anche di relazione con altre amministrazioni, è più complesso della gestione di un processo di acquisizione da fornitori privati, e non necessariamente consente tempi più rapidi);

  • la mancanza di regole orientate a incentivare la realizzazione di software riusabile, in termini soprattutto di qualità e di architettura (anche le linee guida in consultazione non si spingono molto su questo sentiero).

Le linee guida adesso in consultazione, costruite in modo molto dettagliato rispetto alle diverse possibilità di acquisizione di software da parte delle PA, cercano di colmare alcune di queste mancanze, ma in un ambito che purtroppo non include il riuso di esperienze “in progress”, di studi di fattibilità e documentazione, e non tratta il funzionamento dei modelli di collaborazione.

Altre recenti iniziative nazionali vanno anch’esse nella stessa direzione, cercando di creare le condizioni per connessioni efficaci tra le amministrazioni. Si possono citare, ad esempio:

  • Developers Italia, l’ambiente creato dal Team per la Trasformazione Digitale e da AgID per la condivisione di software pubblico (non quindi ristretto ad utenti delle pubbliche amministrazioni) e dove le linee guida indicano debba essere registrato tutto il software sviluppato dalla PA;

  • il PON Governance indirizzato a finanziare dei progetti di riuso (purtroppo con tempi lunghissimi di avvio per i progetti vincitori) e che esplicita per la prima volta in senso concreto il “modello PA Open Community 2020” (PAOC 2020), annunciato già nel 2015 dall’Agenzia per la Coesione (frutto di un Protocollo d’Intesa tra Agenzia e Politecnico di Milano), ma senza altre apparizioni significative;

  • il modello di interoperabilità definito nel Piano Triennale per l’informatica nella PA, che pone dei primi indirizzi che favoriranno, nel medio termine, anche l’incremento della riusabilità del software sviluppato, prima di tutto spingendo verso la realizzazione di applicazioni non monolitiche ma costruite come insieme di componenti interoperabili.

Sarebbe bene che questo tema trovasse un posto di rilievo nel prossimo Piano Triennale in corso di definizione, in modo da fornire un quadro robusto di sviluppo e applicazione, affrontando il nodo della governance e del supporto alle connessioni. Qui certamente dovrebbe avere un ruolo di coordinamento “l’articolazione tecnica” di AgID, insieme alle in-house (anche costituite in Agenzie territoriali).

In particolare, i meccanismi di incentivazione dovrebbero trovare uno spazio coerente (e qui è necessario l’intervento del nuovo Parlamento) rimodulando le politiche Consip e consentendo anche più facili possibilità di connessione con start-up e Pmi, e con le in-house ICT. Conciliare ottimizzazione degli sforzi, rapidità di realizzazione, sviluppo di una cultura della collaborazione e apertura del mercato non può che essere uno degli obiettivi strategici per una efficace trasformazione digitale della PA.

Operare sulle infrastrutture di connessioni

Il riuso è però solo uno dei temi chiave per sviluppare una cultura della collaborazione nella PA, essenziale per il successo delle politiche sul digitale.

Non solo perché, spesso, il valore maggiore della collaborazione deriva da una efficace co-progettazione, e quindi dalla condivisione “in progress” delle esperienze e delle realizzazioni, senza aspettare i tempi di un consolidamento che non consentirebbero di soddisfare le esigenze delle amministrazioni. Ma, soprattutto, perché è necessario operare nell’ambito complessivo delle connessioni, per costruire un quadro organico che consenta lo sviluppo rapido del digitale nella PA.

Il recupero del ritardo italiano nell’ambito del digitale è possibile soltanto con la messa in campo di più interventi strutturali, e tra questi i più urgenti che possono operare nel superamento delle due criticità citate (frammentazione e scarsa capacità di fare sistema) mi sembrano quelli che puntano a supportare e favorire la collaborazione tra le amministrazioni, così come quelli che favoriscono e incentivano la costruzione di ecosistemi di innovazione. Entrambi, però, in un’ottica strutturale e di sistema, andando oltre gli approcci legati a specifici progetti.

In questo senso, dovrebbe ad esempio essere estesa la strategia del modello PAOC 2020 a tutte le iniziative per la crescita digitale, rendendolo un modello utile anche per la co-progettazione e lo scambio “in progress” tra più iniziative. Così, anche, legare gli incentivi all’innovazione delle PMI ad interventi sul fronte dello sviluppo delle competenze digitali e per l’e-leadership, o costruire dei meccanismi di finanziamento intorno a politiche pubbliche centrate sullo sviluppo di ecosistemi di innovazione, realizzando sistemi di misurazione che vadano nella logica del potenziamento dell’intero “ciclo della conoscenza”.

Questo significa operare per lo sviluppo di infrastrutture di connessioni, valorizzando quelle esistenti e rendendole fulcro delle politiche dell’innovazione, verso modelli di governance a rete, adeguati alla complessità della nostra società, e che sono possibili e attuabili solo se, allo stesso tempo, si investe sulla crescita delle competenze, la cui carenza in Italia è una delle principali zavorre di qualsiasi strategia nazionale di crescita.

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