Sono davvero le aziende italiane le uniche e sole colpevoli della nanoscopica dimensione della filiera italiana del venture business, come si tende a far credere? Le ragioni, in realtà, sono diverse e complesse, ma hanno un comune denominatore: la cultura non si improvvisa.
“Le corporate italiane non acquisiscono startup, mancano le exit” è un’affermazione ricorrente che fa sempre più il paio con “Le corporate italiane non fanno Corporate Venture Capital” (in acronimo di mercato CVC), seguita da “nel mondo il CVC pesa in media il 30% del totale investimenti, mentre questa quota in Italia è mancante”. Il combinato di queste affermazioni – tutte intrinsecamente vere – vorrebbe portare a far intendere che ci sia quindi una grande responsabilità in capo alle grandi aziende nostrane, se l’industria dell’innovazione nel nostro paese non decolla. Ma come tutte le volte che si impiegano osservazioni vere, per dipingere la realtà è necessaria una loro contestualizzazione.
Le ragioni del nanismo del venture business in Italia
Io ritengo che nessuna delle affermazioni riportate descriva i motivi del nanismo del nostro venture business, e vado a spiegare con facilità il perché.
Non è una questione di exit ma di finanziamento nell’early stage
Primo: il fatto che le corporation italiane non acquisiscano startup non ha niente a che vedere con la scarsità di exit nel paese; anche i sassi hanno compreso che il venture business produce innovazione su scala globale, ed è su scala globale che vengono acquisite le startup che hanno successo nell’innovare e conquistare un segmento di mercato. Le corporate che acquisiscono startup sono attivamente in caccia di opportunità su scala globale, per cui una startup italiana può essere indifferentemente acquisita da un’azienda americana, giapponese, cinese, britannica, etc. Che manchino ‘acquirenti’ italiani, in questa attività, ha impatto esclusivamente sulla limitata capacità futura di queste aziende di rinnovarsi, ma non certo sul numero di exit di startup italiane. Se queste non vengono frequentemente acquistate è perché sono poche e lente nello scalare internazionalmente, e questo è solo colpa della scarsità di capitale di rischio nell’early stage, cioè della scarsità di investitori italiani capaci di riconoscere progetti con alto potenziale.
Le grandi aziende italiane ignorano cosa sia l’Open Innovation
Veniamo alla seconda affermazione, per cui le corporate italiane non fanno CVC: il Corporate Venture Capital, che va distinto profondamente dall’attività tradizionale di Merger & Acquisition (M&A), è uno dei molti strumenti di Open Innovation che un’azienda può (e a mio avviso deve) mettere in campo per evitare il rischio di ingessarsi in modelli operativi e proposizioni di mercato che possano essere facilmente superate da una concorrenza sempre più globale, veloce ed agguerrita. Verissimo. Ed è altrettanto verissimo che sia una pratica ancora molto rara nel paese, nonostante in alcuni casi pesi perfino più di quanto non investa il Venture Capital puro (pensiamo a colossi dell’investimento come Google Ventures e ai tanti rami di CVC delle big della Silicon Valley, per esempio).
Ma l’affermazione va per l’appunto contestualizzata in un paese come l’Italia in cui l’intera filiera del Venture Business ha attecchito con quasi vent’anni di ritardo sugli altri paesi occidentali, ed in cui le corporate stesse hanno avuto grande difficoltà ad orientarsi sia per colpa dei consulenti sia di troppa stampa che confonde invece di istruire, quando non è proprio collusa con il business della consulenza.
Guardando a cosa è successo in Italia a partire dal 2010, periodo che seguiva alla grave crisi economica iniziata nel 2007, vediamo che ogni agenzia di comunicazione e molti cosiddetti incubatori si sono messi a spacciare per “Open Innovation” il coinvolgere le corporate in premi per startup, hackathon, programmi di accelerazione sponsorizzati, senza però aiutare le corporate ad acquisire la cultura dell’innovazione e soprattutto a conformare i propri processi interni in modo da recepire l’innovazione esterna e scaricarla a terra – cioè sul mercato.
Abbiamo visto cifre importantissime regalate a consulenti di varia natura che hanno prodotto una infinità di “photo opportunity” per gli amministratori delegati e pacche sulle spalle (o più raramente premi da quattro spicci) alle startup, ma quasi nessuna grande azienda andare oltre. Come si fa a chiedere a soggetti impreparati a recepire l’innovazione esterna, privi di una strategia ed una struttura sottostante a ciò finalizzata, di mettere sul campo addirittura cifre più importanti per il CVC? Non suona come chiedere ad uno che non ha mai visto un’automobile, che non ha la pista su cui correre, né i box dove fare i cambi gomme, di acquistare un’auto da corsa?
Le grandi organizzazioni sono fatte sempre e comunque di persone, e se le persone non vengono formate su cosa sia l’Open Innovation e, più nello specifico, quali siano le metodologie del Venture Business, pretendere di far loro adottare degli strumenti è privo di senso oltre che dannoso per l’azienda e per chi vi entra in contatto. E vi garantisco che chi scrive ha vissuto in prima persona, con la propria startup, quanto sia dannoso relazionarsi con un’azienda che non aveva sviluppato una strategia completa di Open Innovation e quindi di CVC.
Purtroppo siamo un paese che si muove per mode, intorno a delle parole, senza studiare la cornice in cui tali parole e le loro implicazioni tecniche vanno inquadrate. Si finge sempre di non sapere che acquisire i nuovi tipi di competenze è il passo propedeutico a qualsiasi azione, altrimenti si scade nell’approssimazione.
La cultura non si improvvisa
E veniamo alla terza affermazione: verissima anch’essa, la media è proprio quella, forse anche crescente. Ma perché concentrarsi sulla percentuale minore, quando la quota maggioritaria – il 70% degli investimenti – che sarebbe in capo al Venture Capital finanziario, è la vera grande assente? Si potrebbe andare in parallelo, è vero, ma la disinformazione e la scarsa competenza che ha regnato perfino tra gli operatori finanziari in questi anni ha fatto già morti e feriti tra le startup: mi sento comprensivo verso le corporate se queste non si sono infilate con tutte le scarpe dentro ad uno scenario non chiaro, dove non si capisce o non gli viene fatto capire se con le startup devono acquisire idee, se devono fare da clienti, se devono investirci in early oppure in late stage, o se invece non gli si chieda solo di sponsorizzare eventi e passerelle.
L’Open Innovation Club di Roma Startup
E torniamo quindi all’aspetto della cultura: essendo questo l’aspetto critico nonché quello da cui partire, con l’associazione che ho il privilegio di presiedere pro tempore – Roma Startup – abbiamo deciso di mettere in piedi una iniziativa di knowledge sharing tra Corporate: l’Open Innovation Club. Il progetto si fonda su cicli di incontri ricorrenti a cui far partecipare vertici di varie divisioni delle grandi imprese (e alcune PA) aderenti, ed attraverso cui sviluppare sia lezioni frontali che momenti di condivisione di esperienze positive e negative. Lo scopo di questo “portare a scuola” le grandi aziende è proprio quello di creare una base comune di conoscenza su architettura di filiera, metodologie, terminologie, logiche, strumenti, per porre delle fondamenta solide all’ingresso delle grandi aziende italiane in quello che diventerà il mercato italiano del venture. Il CVC arriverà, man mano che ogni azienda colmerà il proprio gap conoscitivo e deciderà come posizionarsi. Nel frattempo sarebbe bene se anche i “veri” VC, gli operatori intermedi, ed anche i giornalisti che pretendono di parlare del settore, facessero un ripassino o un viaggio di studio all’estero. Sia mai che non si vada ben più avanti che con l’arrivo delle Corporate.