Che l’innovazione digitale, l’industria 4.0, i big data e le IA siamo parte del futuro prossimo è un dato di fatto. Nomi, termini e concetti che sono tutti parte di un ecosistema nuovo, foriero di grandi sviluppi. Il problema, tuttavia, è che ad ogni sviluppo, nella storia dell’umanità, è corrisposto un periodo più o meno lungo di sofferenza per la popolazione; specialmente per i ceti medio-bassi.
Dai Sabot nelle prime macchine delle manifatture europee, alle proteste dei metalmeccanici della Fiat contro i primi robot, i casi di lotte di classe non mancano (generalmente tutti persi da chi cercava di fermare l’innovazione).
Innovazione, quello che i governi non fanno
Non sono contro l’innovazione, al contrario, la trovo utile in molti aspetti della vita quotidiana; tuttavia osservo con crescente preoccupazione che i governi (il colore politico è indifferente) stanno fallendo ad analizzare e creare scenari di protezione sociale per la popolazione.
Partiamo da alcune considerazioni occidentali. La percezione che l’innovazione potrà creare maggiore disoccupazione in molti settori è corretta. Di solito si parla di produzione; tuttavia l’industria manifatturiera non sarà l’unica ad essere interessata. Uno degli assiomi principali che sono alla base dell’automazione è la sostituzione di lavoratori umani per tutte quelle operazioni che sono ripetitive. Le IA possono aggiungere una variabile in più. Tutte quelle operazioni che oltre ad essere ripetitive implicano un’abilità di analisi e personalizzazione della risposta (o del prodotto).
Le analisi che trattano questo tema sono andate via via crescendo a partire dal 2015-2016.
Le (devastanti) ricadute civili dell’automazione
Se l’automazione in sé non è il male del mondo, le sue ricadute sulla società civile possono tuttavia essere devastanti.
Uno dei fattori che destano maggiore preoccupazione è che la forte diffusione, in differenti sistemi e industrie, di unità automatizzate (che si tratti di effettori fisici come i robot oppure unità digitali come le IA) crea la ridondanza del fattore umano. La letteratura in merito si è divisa di recente. Tra chi sostiene che l’innovazione porterà a molti nuovi posti di lavoro vi sono, difficile pensare altrimenti, tutte le aziende che vendono software e hardware “innovativi”. Si aggiungono ad esse tutte le think tank, università, centri studi, singoli economisti e sociologi che hanno qualche forma di interesse o interazione con le aziende menzionate prima.
Il precedente: la globalizzazione
Se osserviamo il leitmotiv sul capitalismo standard non viene difficile trovare un precedente. Durante l’era della globalizzazione (di fatto l’esportazione del debito americano all’estero) le grandi multinazionali occidentali (prime tra tutte quelle americane) scaricarono la produzione manifatturiera in paesi dove il costo del lavoro era basso (reso basso da una serie di visioni “leggere” sul concetto del lavoro, diritti degli operai etc..).
La tendenza è andata avanti per decenni. Di fatto, da fabbrica del mondo (nell’immediato dopo guerra) l’America si è scoperta essere un guscio vuoto dal momento che l’effettiva produzione avveniva in Cina, India, Thailandia o altre regioni asiatiche. Questa strategia ha creato, nel breve periodo – “il battito di un trimestre” si potrebbe dire – ottimi risultati.
Le esternalizzazioni primarie delle aziende venivano equamente suddivise tra occidente moderno e oriente sotto sviluppato.
Se le industrie manifatturiere inquinavano, per esempio, la produzione si spostava in oriente dove la gestione ambientale sollevava, per cosi dire, le industrie occidentali da molti fardelli (basta vedere il colore arcobaleno dei fiumi cinesi, l’acidificazione del terreno e la qualità dell’aria per comprendere il concetto). Dove le industrie rilocalizzavano a est, i dipendenti esodati in occidente venivano esternalizzati e diventavano un peso per il sistema sociale nazionale. La fragilità di una serie di politiche tra cui l’off-shoring della produzione si è svelata pienamente solo dopo il crollo del 2008.
L’IA e una nuova evoluzione industriale
È in questo scenario che si può vedere un nuovo tipo di evoluzione industriale che ha il suo fulcrum rotatorio intorno alle IA (e tutto il processo che esse possono gestire che implica gestione dati, produzione personalizzata, efficientamento dell’intero processo). Se evitiamo di sposare la tesi positivista sulle IA (e il loro seguito), possiamo prevedere che le IA possano, una volta applicate in ogni fattore dell’industria, colpire il mercato del lavoro in modo violento e negativo. Secondo Fortune, che riporta un’analisi di Pwc, si stima una perdita del 40%, dell’attuale forza lavoro americana, entro il 2030.
Numeri simili si possono tracciare nell’Unione europea e nelle altre nazioni occidentali avanzate.
Se escludiamo la manifattura, anche altri settori possono essere fortemente influenzati. Dai trasporti (prima o poi Elon Musk riuscirà a costruire un tir che si guida da solo) alla logistica sino al settore retail, molte industrie saranno infiltrate massicciamente dalle IA.
Già nel 2016 Amazon robotics (prima conosciuta come Kiva) aveva oltre 45.000 robot magazzinieri nei suoi centri gestionali. Se si considera che un singolo robot può gestire oltre 600 prese (acquisizione di un oggetto e posizionamento in un carrello di acquisto) contro le 100 di un umano il calcolo è presto fatto.
Non è una critica all’innovazione ma un semplice conteggio di quanti umani possono essere sostituiti.
IA e il rischio di una guerra (commerciale) mondiale
La critica che si può muovere ai governi occidentali è la mancanza di un piano B. Il massimo di impegno sino ad oggi profuso nella discussione “Robot vs umani” è la proposta (più di immagine che di sostanza) di tassare i robot, oppure le proteste di Elon Musk, Hawking e Gates sul rischio che le IA possano scatenare una guerra mondiale
Sorprendentemente questa ultima tesi, per quanto non è mia intenzione sollevare scenari alla Skynet, è più realistica di quanto si possa credere.
Dato per assunto che le IA possono alterare il mercato del lavoro e colpire, quanto meno all’inizio, tutti quei lavori ripetitivi (che di norma non richiedono un livello di istruzione elevato e quindi adatti per cassi sociali medio basse) che possono essere facilmente sostituiti, non è ancora dato comprendere quanto questo scenario può impattare l’industria.
Se facciamo mente locale all’epoca dell’offshoring delle produzioni in paesi meno sviluppati (principalmente in Asia) il rischio che le IA possano scatenare una guerra (più realisticamente si parla di guerra commerciale più che militare), è quanto mai corretto nei prossimi 10-20 anni.
Le analisi menzionate prima ci dicono che nei paesi occidentali il 30-40% dei lavori potranno essere svolti da macchine (o software a seconda che si parli di processi fisici o virtuali). Tale percentuale è più o meno corretta anche se si parla del mondo orientale.
Uno scenario apocalittico
Già oggi la Cina, dopo un boom di produzione a basso costo, sconta un aumento degli stipendi, un’infiltrazione di fenomeni virulenti (proteste per lo sfruttamento, sindacati, movimenti dei lavoratori) e in generale una iniziale presa di coscienza delle masse. Siamo ancora agli albori di una effettiva presa di coscienza dei lavoratori, e in vero, considerando la velocità di evoluzione delle industrie, difficilmente gli operai cinesi avranno il tempo mentale per maturare una visione completa sul loro ruolo nella società.
Ora se teniamo ferme le percentuali prima menzionate la Cina rischia di avere un surplus di forza lavoro. Se ricordiamo che la curva demografica cinese è destinata a scendere velocemente tra un paio di decenni, il rischio di una generazione perduta (che fa difficoltà a trovare un lavoro ben remunerato) è presente ma non cosi rischioso.
Un caso differente lo vediamo in India, la nazione che nel 2025 (circa) sarà la nazione con il numero più alto di giovani (su base assoluta) nel mondo. Come rileva l’Hinduistan Times il rischio maggiore dato dalle IA (e tutto l’ecosistema ad esse legate) è il danno che porteranno alle classi medio basse. I lavori a bassa specializzazione, che spesso richiedono un tipo di attività ripetitiva, sono quelli a maggior rischio di essere assorbiti dall’automazione.
Le percentuali di popolazione interessate da questa automazione sono importanti. Se consideriamo i 3 maggiori continenti (Latam, Africa, Asia,) ci sono almeno 3 miliardi di persone che potrebbero essere interessate da questo crollo del lavoro.
Cina e India da sole possono essere colpite da numeri che superano i 200 milioni.
Questo scenario, per certi aspetti apocalittico, necessiterebbe un piano B di contingenza da parte dei governi. Se già osserviamo una totale carenza di soluzioni da parte dei governi occidentali, viene molto difficile immaginare che i paesi dei Brics, il Latam o l’Africa, possano avere soluzioni alternative.
Una recrudescenza dei nazionalismi
Se per Africa o Latam esiste, al momento almeno, un rischio minore, data la mancanza di un governo centrale che possa agire in modo strutturato, lo stesso non vale per Cina e India.
Diviene importante porsi questa domanda: come agirebbe un politico spregiudicato per acquisire voti e quindi diventare primo ministro? In uno scenario di elevata disoccupazione Carl Smith insegna che dare la colpa ad un nemico esterno è il mondo più efficace per creare coesione interna. Per un esempio pratico si consideri le scelte di Trump sia in fase di promesse elettorali che dopo. Il biondo marito di Melania ha generato una serie di aspettative nelle classi medie (colletti bianchi e specialmente colletti blu e agricoltori) che si sono sentiti traditi dal partito globalista (in Usa i democratici, in Italia il PD, per fare un paragone). Oggi in Usa il concetto di America first è ormai un leitmotiv. Si può dire che allo stato attuale si è fortunati. Questo approccio nazionalistico (con i suoi pro e contro) è localizzato in una nazione che ha perso da tempo l’istinto di una guerra militare.
Cosa differente si può ipotizzare per nazioni dove il livello medio di povertà e voglia di un riscatto sociale potrebbe portare all’elezione di politici più rozzi e potenzialmente violenti. Già oggi Modi è un leader nazionalista piuttosto manifesto. Azzoppato dalle lotte intestine indiane non ha la capacità di manifestare una vera politica estera violenta. Un caso simile è il governo cinese. Anche qui non si può parlare, al momento, di un rischio di guerra, ma il concetto di invasione e guerra commerciale sono ormai associati alla politica estera cinese. Dove non è possibile un’invasione commerciale (come in Africa e Latam) si arriva a una guerra commerciale. Per guerra non mi riferisco all’attuale guerra dei dazi (che è solo la parte più visibile) ma una serie di attività che il governo cinese ha applicato, negli anni, per dare maggior potere di trattativa e sviluppo alle sue aziende. Pensiamo agli investimenti dati a pioggia alle grandi aziende di costruzioni civili nazionali. Oppure al supporto dato alle strategie di conquista dei porti (in Europa consideriamo il Pireo) o al dumping di prodotti semi lavorati (l’acciaio) o lavorati (il caso oil for product in Iran).
Le implicazioni politiche dell’IA: la teoria del caos
In tutto questo scenario andiamo ad inserire la variabile IA. La spinta alla automatizzazione (percepita come necessaria anche nelle grandi nazioni come Cina e India) dovrà, necessariamente, implicare un crollo dell’occupazione in molti settori di queste nazioni. Di qui il rischio che una popolazione affamata, che ha perso le illusioni, possa spingere per dei politici forti, è manifesto. Di rado, quando si parla di IA, si considerano le implicazioni. Una delle migliori teorie che potrebbe aiutare a comprendere il danno collettivo che le IA possono portare al sistema mondiale (se non saranno attivat soluzioni di supporto sociale da parte dei governi) è la teoria del Caos. La famosa farfalla che sbatte le ali a New York e scatena una tempesta a Hong Kong. Con uno scenario di scalabilità, tutto ancora da comprendere, rischiamo che la IA potrebbe essere una farfalla delle dimensioni di Mothra nel prossimo film di Godzilla.