il presente e la memoria

Una tecnologia per cancellare i cattivi ricordi: quali conseguenze etico-filosofiche

Conservare i ricordi, anche i più dolorosi, è un bene che vale più o meno del risparmio di sofferenza connesso con la dimenticanza? È dilemma antico cui la tecnologia rischia di dare una risposta sin troppo definitiva. Un’analisi sul presente e sulla memoria che prende il via dal film Eternal sunshine of the spotless mind

Pubblicato il 18 Set 2018

Alessio Musio

Professore ordinario di Filosofia Morale presso Università Cattolica del Sacro Cuore

eternal-sunshine

Senza alcun accento melanconico, si può dire che la vita dell’uomo sia fatta di memoria. Certo, quando parliamo di ricordi, solitamente pensiamo a persone, eventi e luoghi ben precisi di cui siamo consapevoli, in modo quasi ineluttabile, perché dicono di noi, della nostra identità biografica, della nostra storia.

La memoria e il tema della ripetizione

Eppure, il complesso dei nostri ricordi è in realtà molto più ampio di quanto riveli la nostra capacità di racconto. Perché la vita umana – come ha sostenuto Peter Sloterdijk, il filosofo che ha mostrato come persino la vita morale possa essere ridotta a una sorta di inquietante addestramento privo di respiro critico – è fatta di ripetizioni e le ripetizioni, va da sé, implicano e portano con sé dei ricordi.

Per il filosofo tedesco, ogni nostra azione – parlare, scrivere, discutere, leggere, ma anche amare, odiare, sedurre, mentire… – suppone, infatti, una vasta gamma di gesti ripetuti e di esercizi replicati (così in: Devi cambiare la tua vita, trad. it., Cortina, Milano 2010) che nel tempo costituiscono un prezioso fondo di ricordi senza il quale, in effetti, non potremmo agire. Ed è proprio questo secondo tipo di memoria – una sorta di memoria-del-corpo, di cui una malattia come l’Alzheimer non cessa di ricordare in chiave drammatica l’importanza – che spesso dimentichiamo di mettere a tema.

Così, per quanto non sia vero che “ciò che accade solo una volta è come se non fosse mai accaduto”, come si spinge a suggerire la bella espressione della lingua tedesca “einmal (una volta) ist keinmal (nessuna volta)” – perché, si sa, ci sono atti per i quali basta una volta sola per cambiare interamente il corso di un’esistenza – resta in ogni caso che il tema della ripetizione è fondamentale per parlare della memoria in modo adeguato.

Eppure, la memoria non riguarda il passato, come solitamente si pensa, ma del tutto al contrario il presente. Per questo ci sono ricordi che fanno stare bene e altri che, nonostante il tempo trascorso, continuano a far soffrire. Di qui le due forme di smemoratezza che, come ha spiegato bene in un suo recente testo Alessandra Papa, vengono a parola nella lingua italiana: il dimenticare, appunto, e lo scordare, il venir via (soltanto) dalla mente e il venir via (anche) dal cuore (Natum esse. La condizione umana, Vita e Pensiero, Milano 2018).

Cancellare i ricordi che fanno male: studi e ricerche

Ma che cosa accadrebbe se una tecnologia potesse cancellare in modo selettivo proprio quei ricordi che sentiamo pesare sulla mente e sul cuore? Come diventerebbe la nostra vita? E come dovremmo valutare eticamente una simile possibilità?

  • In realtà, sono molti gli studi e le ricerche che cercano di andare in questa direzione: per esempio nel Center for Memory & Brain della Boston University, dove è stata messa a punto, iniziando dai topi, una tecnica laser di intervento sulle strutture cerebrali proprio al fine di modificare i ricordi (il ricercatore che ci ha lavorato, Steve Ramirez, immagina un futuro in cui sarà possibile farlo anche con gli umani);
  • oppure nei 19 ospedali francesi in cui è stato realizzato il progetto «Paris Mem», condotto dallo psicologo canadese Alain Brunet, con l’obiettivo di modificare i ricordi umani di gravi eventi traumatici, riconvertendo farmacologicamente le emozioni che li accompagnano.

La letteratura in proposito è ampia e crescente. Basta andare su qualunque banca dati bibliografica medico-scientifica per rendersene conto, intercettando una dinamica che dai modelli animali si sposta direttamente sull’uomo, sulla base di tecnologie capaci di superare l’ambito di applicazione terapeutico, in una linea tendenziale in cui ogni esperienza può diventare negativa o traumatica solo sulla base del giudizio del soggetto che la vive.

Eternal Sunshine of The Spotless Mind

Come valutare, dunque, questa tendenza?

Per provare a rispondere, può essere significativo riprendere un film di qualche anno fa del regista Michel Gondry, Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004), capace di attirare su di sé una colta attenzione filosofica, malgrado il tentato “omicidio artistico” organizzato da chi ha pensato di cambiarne il titolo per il pubblico italiano.  Eternal Sunshine of The Spottles Mind è infatti un verso tratto da un testo di Alexander Pope (“Eloisa to Abelard”, 1717), tradotto in italiano con l’espressione «infinita letizia» (o più letteralmente: «tramonto eterno») della «mente candida». Un titolo difficile per un film – si dirà. Sicché è probabilmente per questo motivo che nel nostro Paese il film è noto con il terribile e commercialissimo Se mi lasci ti cancello, un titolo in cui finisce del tutto perduto il fatto che la mente candida del verso popeano è quella di una soggettività ambivalente, perché «dimentica del mondo» e «dal mondo dimenticata» – ed entrambe le cose non sono prive di qualche problematicità – capace nello stesso tempo di accettare «ogni preghiera» avendo rinunciato «a ogni desiderio».

Ma se accettare e rinunciare sono verbi che nel loro contenuto implicano un’azione del soggetto, un lavoro che è foucaultianamente comunque una forma di cura di sé, nella trasposizione contemporanea del film, la «letizia» in questione diventa, invece, l’esito di un intervento tecnologico esterno sulla mente del soggetto sulla falsariga degli esperimenti e delle ricerche sopra ricordate. E sta già tutto qui il cuore del problema.

Vale la pena richiamare allora alcuni passaggi di un racconto-trama in grado di intercettare recondite speranze e paure umane, che non solo dice quanto siamo vicini a dare del tutto per scontato che sia possibile fare profitto di ogni esperienza umana, ma che la soluzione ai più fondamentali bisogni personali venga dalla tecnologia.

Nella finzione del film, Lacuna.Inc è un’azienda biotech che offre ai suoi clienti la possibilità di cancellare in modo accurato e selettivo ricordi – di persone, avvenimenti e persino animali – la cui memoria continua a far soffrire. Per poter procedere con la cancellazione, coloro che nel presente soffrono del passato devono prima aver scritto e consegnato al personale dell’azienda una sorta di diario, attraverso cui rintracciare con rigore scientifico quanto si vuole dimenticare. Spesso a fare la differenza fra una buona cancellazione e una venuta male non sono i cosiddetti “fatti essenziali”, ma proprio quei dettagli erroneamente considerati ininfluenti e per questo tralasciati (è il tema delle ripetizioni da cui abbiamo cominciato). Bastano poche tracce mnestiche, infatti, che resistano alla procedura di cancellazione, per portare il soggetto a una sorta di inconsapevole ricerca ossessiva di ciò che è stato tecnologicamente raschiato dalla sua mente. Il soggetto non sa dire propriamente che cosa stia cercando, pur percependolo come qualcosa di maledettamente importante.

Il rischio di una cancellazione venuta male, però, non è solo quello di una quotidianità incoerente, ma quello di rivivere ancora una volta lo shock connesso al ricordo. Ancora una volta, ma in modo esponenziale, perché alla scoperta del dolore, si assocerà il senso di fallimento connesso a quella di aver voluto cancellare, di averne sentito il bisogno, cioè di non essere riusciti a far fronte al dolore da soli, con le proprie forze, da uomini.

Il film possiede una notevole finezza etica: nel modulo contrattuale di Lacuna.Inc è infatti spiegato in modo chiaro come essere superficiali nel racconto e nella ricostruzione, o più semplicemente aver pudore nel raccontare a un tecnico sconosciuto qualche particolare della storia che si vuole dimenticare, sia un errore imperdonabile di cui il cliente dovrà portare il peso, nella sua più totale e completa autonomia (la sostituzione del paradigma del paziente con quello del cliente/consumatore, emblema della medicalizzazione dell’esistenza contemporanea, è un’altra delle cifre ermeneutiche più riuscite del film). Per questo Lacuna.Inc esige che vengano consegnati oltre che i più intimi pensieri anche gli oggetti personali che hanno fatto da sfondo a una relazione finita male.

Ma Lacuna.Inc in fondo è solo un’azienda che fa profitto rispondendo tecnologicamente a un bisogno umano. Nella finzione cinematografica, essa è leale con i suoi clienti: non promette spensieratezza o leggerezza, anzi sin dal suo nome soltanto una lacuna, cioè una privazione, una porzione del proprio sé che scompare.

«Beati gli smemorati – scriveva in modo implacabile Nietzsche – perché avranno la meglio anche sui loro errori». A ben vedere, in queste parole si trova la ratio del successo di Lacuna Inc: la possibilità di cambiare vita, di ottenere un inizio nuovo, liberando la capacità umana di iniziare dai cascami e dai condizionamenti di una vita precedente, permettendo di dimenticarli. Eppure la dimenticanza resta in fondo qualcosa di diverso dall’essersi lasciati alle spalle una vicenda venuta o finita male.

Cosa c’è in gioco se ci cancellano i ricordi che fanno soffrire

In gioco ci sono molte cose. Innanzitutto, il fatto che dimenticare una parte di sé è essere ‘marchiati’ da una lacuna che rende la propria biografia monca e incoerente. E in fondo: sapere e conservare la verità sulla propria vicenda è un bene che vale di più o di meno del risparmio della sofferenza che è indiscutibilmente connesso con la dimenticanza? È un dilemma antico cui la tecnologia rischia di dare una risposta sin troppo definitiva, sprezzante del fatto che la cancellazione della memoria può, sì, togliere il vissuto soggettivo connesso alla privazione, ma non la sua dimensione oggettiva.

Questo nel film emerge con molta chiarezza: nelle prime scene i personaggi agiscono in una forma che non riescono a comprendere, si cercano senza saperlo, vanno negli stessi luoghi senza sapere perché, agiscono in modo che allo sguardo esterno – il nostro se non sappiamo cosa è successo – e al loro stesso sguardo appare sconclusionato (“non so perché”, dice Joel, il protagonista maschile, “ma perché mi innamoro della prima ragazza qualunque?”, quando invece sta parlando della sua partner dimenticata grazie a Lacuna).

Nel film, poi, se è interessante che la procedura sia presentata come una sorta di «danno cerebrale», ancora di più lo è il fatto che la vicenda sia costruita come un tentativo di sottrarsi alla procedura di cancellazione cui pur si è chiesto di dare avvio. Il protagonista sedato e sottoposto alla tecnologia di cancellazione cerca infatti in tutti i modi di impedirla e nel sonno farmacologico mette in atto un dialogo struggente con la partner ancora amata, non per eliderla dalla memoria, ma per rimediare agli errori fatti, cercare una soluzione, perdonarsi.

In fondo, di fronte alla sofferenza per una vicenda finita male, è come se dischiudesse un’alternativa radicale che, da una parte, vede un complesso di verbi impegnativi di temporalità e relazione come imparare, correggere, perdonarsi, accettare e, dall’altra, qualcosa di sbrigativo come l’iconcina delete, cancella. Sembra che si possa preferire un’alternativa rispetto all’altra. Ma in realtà il pensiero e l’animo umani non si lasciano trattare come un computer docile alla rimozione dei suoi file. Perché i ricordi sono legati agli eventi e alle persone secondo un’imprevedibile infinità di intrecci: luoghi, vestiti, odori, sapori, libri, canzoni…, vale a dire un insieme di “realtà” variamente ricordate che sono, sì, in sé autonome, ma che restano, comunque, qualcosa di significativo nel rapporto con chi o con ciò che si vorrebbe dimenticare. Come direbbe Romano Guardini, nella dinamica di ogni grande amore, tutto ciò che accade, anche di apparentemente insignificante, assume infatti i contorni di un avvenimento nel suo ambito. Nel film Joel a un certo punto dice: «non mi ricordo niente in cui non ci sia tu». Non perché lei fosse presente in ogni istante della sua vita, ma perché il passato vive del ricordo che se ne ha nel presente e dunque è continuamente modificato dal presente stesso e da ciò che gli dà forma – e così lei finisce per farne parte, come se ogni evento fosse stato (anche) una preparazione al loro incontro.

Tecnologia di cancellazione vs rielaborazione psicologica

Ma che dire del desiderio di dimenticare attraverso l’intervento esterno di una tecnologia di cancellazione? Al di là dei riflessi bio-politici, che meriterebbero ben altre considerazioni (nella misura in cui lasciano intravedere una forma di aggregazione sociale che sarebbe la più totalitaria di sempre), l’idea è che senza rendersene conto si finisca per sottostimare, se non per saltarla completamente, l’importanza di una presa di distanza dal proprio passato che derivi invece da un giudizio personale adeguato, fors’anche passando attraverso i difficili e lunghi processi della rielaborazione psicologica. Un conto, infatti, è giudicare il contenuto di un ricordo o di un insieme di ricordi; un altro è dimenticarli (o scordarli) spontaneamente; un altro ancora è farseli cancellare tecnologicamente o farmacologicamente, a prezzo della perdita di una dimensione fondamentale del sé. «Chi vive eticamente – scriveva Kierkegaard – ha memoria per la sua vita, chi invece vive esteticamente [bruciando cioè ogni esperienza in modo incessante] non l’ha affatto».

Il film aiuta poi a mettere in evidenza un altro aspetto significativo questa volta in chiave bioetica: il protagonista infatti a un certo punto della procedura urla, pur non potendo più essere udito, di non voler più fare il trattamento; chiede scusa, dice di esseri sbagliato. Sono momenti estremamente drammatici, in cui gli artefici della cancellazione, che non sentono le sue urla di rifiuto, possono però constatare come egli continui a fuggire e a sottrarsi al processo di cancellazione. Nondimeno, anche se si accorgono del manifestarsi di una volontà diversa, vincolati da un contratto di prestazione, lo portano comunque avanti. Ed in fondo in uno scenario di questo tipo a pensarci bene non esiste alcuna possibilità di quello che in gergo medico si chiama “consenso al trattamento”, perché il soggetto post-cancellazione non può acconsentire alla procedura che su di lui, e su sua richiesta, è stata fatta prima.

La moralità della memoria

Esiste in conclusione – come ha notato in un suo bell’articolo sul film Cristopher Grau (“Eternal Sunshine of the Spotless Mind” and the Morality of Memory, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», Vol. 64, No. 1, 2006, pp. 119-133) – anche un problema di moralità della memoria. Nel senso che, se non abbiamo il dovere di avere per forza un buon ricordo o di amare ciò che ricordiamo, abbiamo però il dovere di non falsificare la nostra storia. Tant’è che persino nelle psicoterapie farmacologiche legate alla memoria, i documenti più eticamente accorti (tra cui va ricordato anche il testo Beyond Therapy: Biotechnology and the Pursuit of Happiness, The President’s Council on Bioethics, Washington, D.C., October 2003) insistono sul fatto che esse non devono essere considerate funzionali a cancellare i ricordi, ma a lavorare sulle emozioni legate ai ricordi, in fondo una questione di giudizio.

Nessun ricordo, infatti, può essere considerato in se stesso come una patologia, perché il tema di un ricordo che si vuole dimenticare, se non cancellare, è in realtà la domanda nel presente, qui e ora, di qualcosa che possa far salva la nostra vicenda esistenziale. Se una cosa è certa, è che non può trattarsi di una lacuna.

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