Perplessità e scetticismo stanno accompagnando la notizia cyber che negli ultimi giorni ha scosso l’opinione pubblica: la rivelazione del presunto impianto di un chip su alcune schede madri Supermicro (una famosa ditta di hardware specializzata in sistemi server). Facciamo allora un po’ di sano fact checking su una vicenda che presenta più di un punto poco chiaro, esaminando i due possibili approcci alla compromissione delle schede madri.
Cosa sarebbe successo
Secondo quanto rivelato da Bloomberg, obiettivo della compromissione sarebbe stato apparentemente quello di poter aggirare ogni difesa anti-intrusione messa in opera dal sistema operativo del server, operando al livello più basso possibile. L’impianto sarebbe stato opera dei militari cinesi, ed ovviamente la produzione di queste schede – come oggi accade per la maggior parte dei prodotti elettronici di consumo e non – avviene in Cina.
Bloomberg può essere considerata una agenzia di informazione tra le più qualificate al mondo, abituata a trattare informazioni di carattere delicatissimo (quali dati economico-finanziari) con la massima professionalità. I server in questione sarebbero stati forniti – anche – ad Apple e Amazon, e Amazon se ne sarebbe accorta facendo una operazione di due diligence in vista dell’acquisizione di una società specializzata, tra le altre cose, in server per la gestione di streaming video.
La smentita delle aziende coinvolte
C’è un piccolo dettaglio, però: e cioè che Apple e Amazon, oltre ovviamente a Supermicro, smentiscono categoricamente – in termini palesemente dettati dai loro studi legali, coscienti del fatto che si tratta di società quotate in borsa le cui dichiarazioni devono quindi essere veritiere. Abbiamo dunque uno scontro fra titani dell’industria e dell’informazione, in cui i media italiani, in modo un po’ sciatto, si sono buttati a capofitto dipingendo scenari apocalittici. Non mancano le immancabili citazioni della vicenda Snowden.
Vediamo dunque di fare un po’ di reality check in questa vicenda, di cui a tutt’ora si sa poco: in particolare sottolineiamo che nessuna delle schede madri incriminate – che dovrebbero essere migliaia – è finita nelle mani di ricercatori indipendenti o è stata esibita pubblicamente. Occorre anche segnalare l’opinione di alcuni dei maggiori esperti di sicurezza informatica, che oscillano tra la perplessità e lo scetticismo, e la dichiarazione dell’Homeland Security e degli inglesi del National Cyber Security Centre, che hanno dichiarato di credere, fino a prova contraria, ad Apple e ad Amazon, e la presenza di altre stranezze nella narrazione su cui non mi pronuncio in quanto non mi considero competente (ad es. se l’investigazione va davvero avanti da 3 anni, perché l’FBI non ha fatto bloccare il rifornimento di tale materiale alle pubbliche amministrazioni americane?). Occorre anche segnalare che in seguito all’articolo di Bloomberg, Supermicro è arrivata a perdere il 55% in borsa.
I possibili scopi
Quale potrebbe essere lo scopo di impiantare – ovvero di aggiungere surrettiziamente – un chip in una scheda madre?
Bene, a tale scopo occorre ricordare che molte schede madri per sistemi server implementano già un sistema chiamato BMC – Baseboard Management Controller – che è sostanzialmente un piccolo computer nel computer, tipicamente dotato di un processore ARM, e cioè della stessa famiglia di processori utilizzata nei cellulari, dotato di un sistema operativo proprio e che permette l’accesso a tutte le funzioni della scheda madre a cui tradizionalmente si accede solo a computer “giù” direttamente dalla console, fisicamente davanti al server medesimo. Tale BMC è spesso presente anche in switch ed in altri sistemi infrastrutturali, parte cioè dell’infrastruttura di rete che permette ad una rete locale di funzionare e di collegarsi al resto di Internet. Lo scopo di tale sistema è evidente: semplificare la manutenzione dei server e dei sistemi infrastrutturali.
In sua assenza, tutti gli interventi di manutenzione che necessitano di abbattere il sistema operativo devono essere fatti in locale, cioè fisicamente davanti al server, nella sala server, complicando parecchio la manutenzione; oppure tocca dotarsi di complessi sistemi KVM (Keyboard, Video and Monitor, sistemi, cioè, che si interfacciano alla porta video e alle USB dei server ed instradano in rete i rispettivi segnali; parliamo ovviamente di sistemi professionali, non gli scatolotti da 40 euro in vendita nei negozi di elettronica consumer). BMC ha ovviamente accesso alla rete.
Bene, cosa può andare storto? È evidente: come il sistema operativo di un computer può avere dei bachi ed essere vulnerabile, così il “sistema operativo” che gestisce il chip BMC può avere anche lui delle vulnerabilità, con la differenza che
- non è caricato dal disco ma fa parte del firmware della scheda madre, e quindi il suo aggiornamento è più complesso di quello del sistema operativo “normale”;
- agendo al di sotto e prima del sistema operativo del server, può operare in modo nascosto, impedendo al sistema operativo medesimo di accorgersi che qualcosa, sotto, non va.
Il modo più semplice per accorgersi di un problema col BMC consiste nell’analizzare il traffico di rete, soprattutto quello in uscita, allo scopo di rivelare eventuali canali di comunicazione nascosti (in altri termini consiste nell’avere un buon sistema di Intrusion Detection). Ne segue che tutta la questione BMC costituisce, per usare un termine anglosassone, una colossale can of worms, un problema potenzialmente di dimensioni epiche, soprattutto se pensiamo che firmware farlocchi potrebbero essere inseriti nella scheda madre in qualche fase della supply chain del prodotto: basta pensare che la fabbrica che produce la scheda madre, che riceve il software dal produttore per essere caricato in memoria, potrebbe sostituirlo con un altro. E, nel contesto attuale, pensare di fare a meno di BMC o di qualcosa di analogo è impensabile. Il problema dell’integrità della catena di approvvigionamento dei prodotti informatici è dunque davvero un problema che richiede attenzione.
Pro e contro della modifica dell’hardware
Ma che dire della possibilità di compromettere la sicurezza dell’hardware modificando direttamente l’hardware? Certo, è possibile. Possiamo pensare, ad esempio, che un chip inserito nelle vicinanze di alcune piste del circuito stampato della scheda madre possa leggerne il traffico (o modificarlo) e, se dotato di un opportuno sistema operativo, potrebbe utilizzare la connessione di rete per esfiltrare dati. Una fabbrica potrebbe aggiungere tale chip durante la produzione della scheda madre.
Quali sono i pro e i contro dell’impianto hardware rispetto alla compromissione del firmware della scheda madre? È evidente che una scheda madre compromessa a livello del firmware è fisicamente indistinguibile da una integra, e, se la compromissione è fatta bene, osservandone solo il comportamento in pratica potrebbe essere molto difficile accorgersi del problema. Codice firmato con la firma digitale del produttore potrebbe essere d’aiuto, ma la fabbrica ha accesso totale e completo al processo produttivo e quindi ogni protezione può essere aggirata.
D’altro canto, una scheda compromessa mediante un impianto hardware è facilissima da rivelare: basta confrontarla con una integra, o semplicemente con le blueprints del progetto, per accorgersi che c’è qualche pezzo in più. “Un chip piccolo quanto un chicco di riso”, come dice l’articolo di Bloomberg, è una frase ad effetto ma che ha poco senso: tolta la CPU, la RAM e poco altro, la maggior parte dei chip presenti su una scheda madre sono piccoli quanto un chicco di riso. Inoltre, la ricerca di eventuali difformità tra il progetto ed il prodotto potrebbe portare ad una quantità enorme di falsi positivi; come ha fatto notare Robert Graham di ErrataSec nel suo blog sopra citato, le produzioni orientali sono alla costante ricerca di riduzioni di costi, in ogni possibile modo: anche sostituendo ai chip indicati nel progetto dei loro “cloni”, più o meno funzionanti nel modo previsto ma di costo inferiore, nella speranza di aggirare il quality control e di lucrare qualche centesimo in più a pezzo.
Scegliere da quale parte stare
Non solo. È chiaro che è molto più semplice ed economico scrivere firmware contraffatto che creare hardware dedicato compatibile, testarlo e metterlo “in produzione”. Abbiamo dunque due approcci alla compromissione delle schede madri: uno basato sul firmware, relativamente semplice e più difficile da rivelare, ed uno più complesso e costoso, e più facile da rivelare.
Ora, nel clima di trade wars sui dazi tra USA e Cina, dobbiamo scegliere a chi vogliamo credere. Anche se non è facile.
LINK:
https://www.apple.com/newsroom/2018/10/what-businessweek-got-wrong-about-apple/
https://www.supermicro.com/newsroom/pressreleases/2018/press181004_Bloomberg.cfm
https://blog.erratasec.com/2018/10/notes-on-bloomberg-supermicro-supply.html
https://www.lawfareblog.com/china-supermicro-hack-about-bloomberg-report
https://securinghardware.com/articles/hardware-implants/
https://medium.com/@thegrugq/supply-chain-security-speculation-b7b6357a5d05