Il nuovo piano Impresa 4.0 dovrebbe osare di più, affrontando gli aspetti meno banali e più profondi del cambiamento digitale, ovvero quelli legati alla formazione delle persone (dagli operatori diretti agli imprenditori) e all’introduzione del paradigma della virtualizzazione nei processi e nei sistemi delle imprese manifatturiere.
Soprattutto si dovrebbe evitare un processo di decisione chiuso ed autoreferenziale e riaprire, invece, il confronto con tutte le parti portatrici di conoscenza. Solo così il supporto pubblico a un processo di trasformazione fondamentale, maturo e dai chiari ritorni, come l’Industria 4.0 potrà continuare a produrre benefici in termini di crescita e produttività a partire dal valido punto di partenza rappresentato dal precedente impianto di incentivi agli investimenti.
Lo shock positivo del primo piano Industria 4.0
Il piano nazionale Industria 4.0, lanciato nel settembre 2016, ha rappresentato uno shock positivo per la manifattura italiana. Le aziende sono tornate ad investire in modo cospicuo dopo anni di quasi immobilità (+9% nel 2017[1]) e a far crescere il valore aggiunto manifatturiero (+2,1% nel biennio 2016-171); le aziende dell’offerta, anche grazie al Piano, hanno visto incrementi del loro mercato dell’ordine del 30%[2], come rilevato dall’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano. L’Italia della manifattura digitale ha vissuto, a partire dal settembre 2016, un momento di grande euforia, al punto che intitolammo la Ricerca 2016-2017 del nostro Osservatorio “la grande occasione”.
La successiva versione del piano, Impresa 4.0 – settembre 2017, si mosse nel solco della continuità, dando stabilità alle misure inizialmente previste, e anzi rafforzandole con l’inserimento di incentivi alla formazione, una misura mancante nel provvedimento della prima ora.
Le misure del nuovo piano nazionale
La nuova versione del piano – attualmente all’esame del Parlamento – prevede una serie di interventi, di cui quelli più rilevanti si possono così riassumere:
- una riconferma del beneficio dell’iper-ammortamento, che viene rimodulato al ribasso per investimenti di cospicua entità (una modifica introdotta per favorire le PMI, ma che potrebbe avere un effetto di disincentivo per i grandi investimenti);
- la cancellazione del super-ammortamento per beni strumentali generici, parzialmente sostituito dalla mini-IRES al 15% sugli utili reinvestiti;
- la cancellazione degli incentivi a vantaggio della formazione sui temi di Industria 4.0.
Così formulato, il nuovo piano nazionale purtroppo non prefigura l’auspicato potenziamento dell’azione pubblica avviata nel 2016, ma anzi una sua restrizione e, allo stato attuale delle cose, credo sia giusto dare sia un giudizio di merito sia di metodo: entrambi non positivi.
Un giudizio di metodo e di merito
Nel metodo, se ripercorriamo la genesi del primo provvedimento (Piano Nazionale Industria 4.0, o Piano Calenda, pubblicato nell’autunno 2016), esso fu frutto di un importante lavoro di confronto e di concerto tra le numerose parti che erano coinvolte, a vario titolo, nella trasformazione industriale e manifatturiera italiana (industriali ed imprenditori, accademia, sindacati, fornitori).
Da tale confronto emerse un Piano che ha dimostrato – nel merito – di avere numerosi pregi. Ne citerei quattro, i più importanti:
- Ha incrementato il livello di consapevolezza sulla trasformazione digitale della manifattura, attirando in modo efficace l’attenzione anche del più disattento degli imprenditori e/o dei manager;
- Ha adottato un meccanismo di grande semplicità ed immediatezza, quello del moltiplicatore di ammortamento per investimenti in beni materiali (e taluni software 4.0), investimenti di cui il paese aveva estremo bisogno per svecchiare rapidamente il parco macchine delle nostre imprese, drammaticamente invecchiato dai tempi della crisi finanziaria del 2009;
- Pur nella semplicità del meccanismo, ha posto delle condizioni di eleggibilità corrette e lungimiranti quali la connessione dei macchinari ai sistemi informativi aziendali ed il vincolo di fare ricorso solo a collegamenti e a metodi d’indirizzamento basati su specifiche esplicitamente documentate, disponibili pubblicamente e internazionalmente riconosciut, vincoli di cui probabilmente le imprese percepiranno l’utilità ed il valore solo tra qualche anno, quando la visione sottostante Industria 4.0 si sarà meglio dispiegata;
- Infine, favorendo gli investimenti in nuovi macchinari, la norma ha sviluppato il proprio impatto sull’intera della catena del valore, avvantaggiando non solo le imprese utilizzatrici, ma anche le tante eccellenze italiane produttrici di macchinari e beni strumentali, e quindi creando un secondo positivo effetto indotto sulla nostra economia (a differenza, ad esempio, di quanto accadde con i benefici che furono concessi al fotovoltaico, di cui beneficiarono i produttori del far east).
In sintesi, da un metodo di lavoro corretto, nacque un Piano che si rivelò molto efficace anche nel merito.
Ora, in questa diversa fase storica, superata l’emergenza del 2016-2017 (quando – si ricorderà – l’Italia era l’unica potenza manifatturiera al mondo priva di un piano nazionale), era necessario un nuovo importante sforzo di concertazione e di raccolta delle migliori energie di pensiero del paese, per far evolvere l’azione di supporto del soggetto pubblico da quel valido punto di partenza.
Cosa è rimasto fuori
Diverse voci sottolinearono, già nel 2016, ed io con esse, come aver focalizzato l’effetto di incentivo sui soli investimenti (CAPEX) abbia avuto il pregio dell’immediatezza e della semplicità, ma abbia lasciato fuori una parte rilevante del potenziale cambiamento sottostante ad Industria 4.0: tutte le piattaforme online di collaborazione (che per tante PMI rappresentano la più concreta ed immediata leva per entrare in una visione 4.0 del proprio business), i software cloud di supporto all’Ingegneria e all’ R&D, le piattaforme IoT e di Analytics (dai servizi base ai più avanzati servizi cognitivi), persino l’offerta di cyber security sono oggi quasi esclusivamente offerti con modelli As a Service”, in cui non si acquista un asset (materiale o immateriale), ma si paga il suo utilizzo con dei canoni periodici, e sono pertanto esclusi da ogni incentivo pubblico, come se non fossero invece complementi essenziali alla connettività delle macchine.
E’ chiaro che includere queste azioni in una nuova versione del piano avrebbe richiesto uno sforzo di comprensione dello scenario tecnologico e applicativo, nonché di messa in opera (“operationalization”), molto superiore a quello del meccanismo dell’iper-ammortamento, ma questo era quello di cui c’è bisogno adesso, e andava fatto.
La cancellazione degli incentivi alla formazione
Lo stesso dicasi della formazione: l’esperienza fatta nell’Osservatorio e numerose ricerche empiriche sono concordi nell’indicare come l’acquisto di nuovi macchinari interconnessi, e applicativi di ultima generazione, debba essere supportato dall’acquisizione di nuove competenze che permettano di mettere a terra il potenziale effettivo delle nuove tecnologie. Il fatto che il credito di imposta a vantaggio della formazione (introdotto nella versione 2017 del Piano Nazionale Impresa 4.0) non sia stato così prontamente recepito dalle imprese quanto la facilitazione di investimento in beni strumentali avrebbe dovuto aprire un processo di riflessione, per rivedere e rendere più efficace questa misura, e non portare invece alla sua cancellazione.
Usando un’immagine, così come è inutile acquistare una vettura potente e performante senza preparare adeguatamente il suo pilota, così è inutile acquistare un macchinario connesso e che genera grandi quantità di dati senza sapere come immagazzinarli, analizzarli, sfruttarli e proteggerli: o non se ne sfrutterà appieno il potenziale, oppure, se si tenterà di farlo, ci si farà del male.
Riaprire il confronto per migliorare il nuovo piano
Queste sono, a mio avviso, le principali evoluzioni che, nel merito, sarebbe necessario imprimere al nuovo piano nazionale Impresa 4.0. E credo fermamente che il metodo corretto per arrivare alla migliore formulazione del nuovo piano sarebbe di riaprire una fase di confronto con tutte le parti portatrici di conoscenza, e di valutare insieme (politica e società) cosa e come fare, evitando un processo di decisione chiuso ed autoreferenziale.
Partendo da un contesto più consapevole ed evoluto di quello precedente, e potendo toccare con mano sia il considerevole successo sia anche i punti deboli del piano in essere, il nuovo piano Impresa 4.0 dovrebbe osare di più, affrontando gli aspetti meno banali e più profondi del cambiamento digitale, ovvero quelli legati alla formazione delle persone (dagli operatori diretti agli imprenditori) e all’introduzione del paradigma della virtualizzazione nei processi e nei sistemi delle imprese manifatturiere.
Per alcuni versi, questo governo ha mostrato sensibilità verso il tema dell’innovazione digitale, aprendo altri fronti di investimento e di partecipazione internazionale su temi importanti per il futuro digitale del Paese, come Blockchain e intelligenza artificiale. È un fatto positivo, tuttavia un piccolo investimento su temi promettenti ma che ancora devono dispiegare il proprio potenziale non può compensare un provvedimento timido e incompleto su un processo di trasformazione fondamentale, maturo e dai chiari ritorni, come l’Industria 4.0.
Il mio auspicio è dunque che si possa riaprire subito un confronto sulla nuova versione del Piano, trovando mezzi e modi per arricchirlo nelle direzioni che ho provato a suggerire, e in altre direzioni che possano essere suggerite dall’ampia comunità di aziende, professionisti, associazioni, forze sociali che credono nel futuro industriale dell’Italia.
Se si continuasse su questa strada, temo, ci troveremo tra non troppi mesi a rammaricarci per l’ennesima grande occasione perduta dal nostro Paese.