rapporto Censis

Che fare se la Scuola ha il terrore del digitale

Il digitale è una bestia ostica e un pericolo per la Scuola, per il suo attuale assetto organizzativo, culturale e didattico. Perché scardina schemi e idee dogmatiche e impone il coraggio di un cambiamento radicale, basato su zone franche e nuove logiche di apertura. Ecco dove intervenire per evitarne il rigetto tout court

Pubblicato il 14 Dic 2018

Roberto Maragliano

docente di Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento, Università Roma Tre

DigitalSchool

Collocare il tema del digitale all’interno del dibattito sull’apertura e l’autonomia della scuola è oggi quanto mai opportuno anche alla luce di quanto emerso dall’ultimo Rapporto Censis, secondo cui “la scuola, la formazione, lo sviluppo del capitale umano ancora una volta sono ambiti di intervento scomparsi dalle priorità dell’agenda politica, coperti dal cono d’ombra di altre priorità nazionali”.

Il “calo di reputazione” dell’istituzione scolastica

Certo, non c’è bisogno dell’autorevolezza del Rapporto Censis 2018, appena reso pubblico, per confermare quello che è ormai un dato di fatto evidente a tutti, vale a dire il disagio o addirittura la repulsione che la comunità scolastica è andata via via provando nei confronti dei tanti e disomogenei tentativi messi in atto dagli anni Novanta in poi per introdurre cambiamenti di un qualche peso all’interno del sistema. A lungo andare, questo stato di disorientamento, che è stato ed è di docenti, dirigenti, amministratori, ma anche di studenti e famiglie, e che trova eco e amplificazione nelle prese di posizione dell’intellettualità diffusa, si è tradotto in un “vistoso calo di reputazione” dell’istituzione scolastica e della sua immagine sociale (è ancora il Censis a sostenerlo).

Questo, indubbiamente, è un fatto grave.

Ma va riconosciuto che in tutti i fenomeni negativi c’è una componente positiva su cui far leva e operare. In questo caso, ammettiamolo, il fatto che l’attuale legislatura e il governo oggi in carica abbiano interrotto la sequenza dei grandi annunci e dei successivi atti di cambiamento consente di calmare gli animi, che si sono mostrati così accesi in occasione della vicenda della Buona Scuola, e invita noi tutti a dedicare un po’ di tempo e di impegno a cercare di individuare e interpretare le ragioni del risentimento psicologico che s’è apertamente manifestato all’interno di quella vicenda, e che molto probabilmente viene da processi di più lungo periodo.

Indagare le origini della crisi d’identità della scuola

Avrebbe poco senso dividersi, oggi, tra chi pensa che il calo di reputazione sia dovuto alla perdita di un’identità che un tempo era forte e chi ritiene invece che esso dipenda dall’averla forzatamente mantenuta. Sarebbe più sensato, invece, partire dal dato di fatto della crisi di identità che c’è, e indagare sulle sue origini.

In tale prospettiva l’intera faccenda porta alla luce due questioni di fondo: l’apertura e l’autonomia, ossia due prospettive importanti con cui la scuola ha tentato di misurarsi, forse timidamente, forse maldestramente, e dal cui esercizio ha ricavato più disagi che sicurezze.

Dunque, aprire le culture e le pratiche scolastiche a quelle mondane è sbagliato? È sbagliato dare alle scuole una parte di potere decisionale per quanto riguarda il che cosa e il come insegnare e far apprendere?

Vade retro digitale?

Non è improprio, io ritengo, anzi è più che doveroso che ci si impegni a collocare il tema del digitale all’interno di un simile contesto.

Per evitare che esso funga, nell’attuale frangente, da capro espiatorio per una situazione generale di ben altre origini, e che dunque la sensazione di disturbo che l’impegno sulle tecnologie “virtuali” avrebbe comportato per la comunità scolastica, distraendola dai suoi “reali” compiti, conquisti più presa di quanta già non ne abbia, si potrebbe cominciare con l’accettare che il vade retro che non pochi ora pronunciano, dentro e fuori delle aule, abbia un suo legittimo fondamento.

Più volte m’è capitato di denunciare che i tanti discorsi sui pericoli del digitale finiscono col lasciare pochissimo spazio e autonomia alla presa di conoscenza delle opportunità ch’esso introduce. Col tempo mi sono convinto della ragione profonda del capovolgimento di logica di cui quel comune sentire è manifestazione.

Perché il digitale dà fastidio

Effettivamente il digitale è pericoloso.

Ma per chi? Per l’apprendimento? Per l’insegnamento?

No, il digitale è pericoloso per la Scuola stessa.

Lo è per il suo attuale assetto organizzativo, culturale e didattico.
Lo è per l’idea, sottostante a quell’assetto, che tutto possa essere risolto facendo centro sulle logiche del “leggere, scrivere e far di conto” e che rispetto ad esse le logiche del “vedere, ascoltare e operare” siano marginali; tutt’al più possano risultare rilevanti per il complesso dell’esperienza, ma si presentino comunque come sprovviste di un autonomo spessore conoscitivo (“cosa leggi in quella immagine”, “descrivi quella musica”, “spiega come ottieni questo col tuo tablet”, ecc.).

Lo è per l’idea, anch’essa raramente discussa, che l’apprendimento sia sostanzialmente un fatto personale, individuale, da dirigere e governare attraverso l’insegnamento e da tenere al riparo da “aiuti” di una qualsivoglia alterità, sia essa di tipo tecnico o di tipo umano (“non si copia”, “non si suggerisce”, ecc.).

Lo è per l’idea, anch’essa dominante, che ogni acquisizione scolastica di sapere possa essere misurata fisicamente e temporalmente, e che la misurazione (fatta di orari e di verifiche e di pagine da studiare) rappresenti la condizione stessa per l’esercizio di quella acquisizione (“la campanella è suonata, consegnare il compito”, “per domani, studiare da pag. a pag.”, ecc.).

Perché nascondercelo? Il digitale porta rotture su tutti questi fronti, dunque dà fastidio. A meno che non accetti di subordinarsi a quell’assetto, rinunciando alle sue prerogative.

E’ una linea, questa, che una parte dell’editoria ha recentemente messo in atto, con risultati alterni: positivi, quando lo stesso contenuto da tradurre in libro è stato ripensato in funzione del nuovo orientamento di cultura garantito dall’universo digitale (come è il caso dei testi di arte e di lingua della Zanichelli, coraggiosamente affidati a figure di garanzia come Emanuela Pulvirenti e Alessandro Baricco), più negativi, quando s’è trattato di tradurre la novità del contenuto in un più coraggioso e pervasivo impiego della tecnologia digitale (come mostrano i limiti “materiali” e inevitabilmente “concettuali” che caratterizzano l’impiego delle pratiche digitali all’interno dei due progetti di cui ho detto).

Il digitale è una bestia ostica

Si parla tanto di ecologia del digitale. Io direi, piuttosto, che dovremmo misurarci con la sua etologia. Detto a chiare lettere, il digitale è una bestia ostica. Ostica per la scuola. Ma è una realtà che ha conquistato il mondo. Anzi, è il mondo, ormai. Non la si può ignorare. Non la si deve sottovalutare. Né si può pensare di addomesticarla troppo facilmente.

Dunque, profittiamo di questo periodo di assenza di dibattito su una scuola buona, buonina, cattiva, pessima (per ragioni di volta in volta attribuite al politico di turno) e chiediamoci, piuttosto, se non sia opportuno puntare, come obiettivo di un prossimo intervento, non troppo futuro, ad un sia pure parziale ma deciso incremento di apertura e di autonomia non tanto per la scuola in senso generale, ma per le singole scuole.

Cominciano ad esserci non pochi elementi di positività nelle esperienze di digitale intelligente costruttivo e creativo che si stanno maturando dentro le classi. Ma spesso l’assetto di cui ho detto (l’orario, la materia, il libro di testo, l’esame) toglie ossigeno e forza a quelle esperienze, impedendo loro di fare sistema.

Occorrerebbe dunque un po’ di coraggio e provare prefigurare, dentro l’attuale ordinamento, una “zona franca”, comunque istituzionale ma libera dai vincoli dell’assetto vigente. Per esemplificare, un quarto del curricolo generale potrebbe esser lasciato libero, sì che le singole scuole possano utilizzarlo per loro progetti autonomi, tali anche per quanto riguarda l’aspetto organizzativo, disciplinare, tecnologico, ecc. Ciò aiuterebbe anche a ripensare il tre quarti restanti, sacrificando qualcosa e dunque ridimensionando l’antica vocazione alla totalità.

Già sarebbe molto se di queste idee si potesse e volesse discutere.

Dove matura il risentimento e come intervenire

Sarebbe molto, infatti, se chi è disposto a riflettere sul rapporto fra scuola e mondo e su come cambiano, nel tempo, i regimi della produzione e della riproduzione di sapere aiutasse tutti noi a riconoscere che all’origine del cambiamento di cultura che ha portato alle tecnologie digitali c’è la crisi dei fondamenti delle scienze e delle arti maturata nel passaggio tra Ottocento e Novecento, proprio in quello stesso periodo in cui l’Europa ha diffuso in tutto il mondo il suo modello di scuola centrato sul libro e parallelamente ha dato origine ai mass media, del tipo di cinema e radio (per questo rimando al mio precedente intervento su agendadigitale.eu)

Tutto il secolo passato è stato segnato dagli effetti di quella crisi che, soprattutto per quanto riguarda la perdita di superiorità dell’intelligenza scrittoria rispetto a quella visiva e acustica e di esclusività nella riproduzione sociale del sapere, ha alimentato e sostenuto la fortuna storica dei mezzi della comunicazione audiovisuale, mentre alla scuola s’è riservato il compito di riprodurre le forme e i modi della cultura libraria, tipico rappresentante dell’intelligenza scrittoria. Con il digitale si è pienamente affermata l’integrazione dei codici, e sono saltati i presupposti della divisione tra mass media scritturali (sapere di scuola) e mass media audiovisuali (sapere di intrattenimento).

Di conseguenza, è venuta alla luce una logica di pensiero diversa da quella che abbiamo per molto tempo considerato dominante (il che era giusto) ed esclusiva (il che era sbagliato).

Come definire sinteticamente le due logiche? Lo si potrebbe fare anche ricorrendo a semplici espressioni, non senza raccomandare a chi le accoglie di sottrarle a un giudizio di valore.

Da una parte, come ho detto, c’è la logica della chiusura, dall’altra la logica dell’apertura. Da una parte, verrebbe da aggiungere, c’è la logica della profondità, dall’altra la logica della superficie. In una rappresentazione standard dell’intelligenza individuale si è portati a vedere chiusura e profondità. In una rappresentazione standard dell’intelligenza collettiva si possono cogliere apertura e superficie.

Nella cultura, nell’antropologia del presente è dato cogliere la presenza delle due logiche. Nelle istituzioni scolastiche del presente vediamo perlopiù la presenza dell’una, assunta come l’unica possibile, e la negazione dell’altra.

Lì, su questi assunti, sta la loro attuale e irreversibile debolezza.

Lì matura il risentimento.

Lì occorre intervenire, non solo dal basso ma anche dall’alto, per costruire e legittimare spazi di libertà per il digitale.

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