L’Italia si sta dimostrando pioniera nella associazione tra industria videoludica e settore culturale, con una serie di interessanti e inedite iniziative lanciate da diversi musei, tra cui spiccano quelle recenti dei musei di Taranto, Firenze e Napoli (vedi sotto).
Ora, per compiere un salto avanti nella discussione, sarebbe opportuno iniziare a guardare i videogiochi come una intersezione tra arte e tecnologia, attribuendo loro un valore intrinseco che vada al di là dei potenziali benefici in ambito educativo e di coinvolgimento dei pubblici più giovani. Vediamo perché, anche alla luce e per ridimensionare un po’ gli allarmanti dati legati al consumo culturale nel nostro Paese.
Nuovi paradigmi di “consumo” e “produzione” culturale
Le generazioni cresciute durante o dopo la rivoluzione post industriale, di cui internet è l’emblema, presentano fortissimi distacchi nelle modalità di “consumo” e “produzione” culturale.
Mai come nell’ultimo ventennio, a partire dalla cesoia ideologica del 1997 come anno di propagazione di internet nelle case europee, sono stati consumati e prodotti così tanti contenuti creativi. Miliardi di persone nel mondo che quotidianamente leggono, scrivono, caricano fotografie, producono video dando vita ad una liquidità culturale senza precedenti che sfugge alle rilevazioni basate sui formati e supporti tradizionali. Prendendo ad esempio l’ultima indagine Istat Produzione e Lettura di Libri in Italia [1] rileva un progressivo calo dei lettori a partire dall’inizio di questa decade con solo il 40.5% degli italiani che ha letto almeno un libro nel 2016 (escludendo motivazioni scolastiche/professionali). La fascia dai 15 ai 24 anni sembra essere quella in maggior affanno, una generazione che all’apparenza sembra aver rinunciato alla lettura a favore di forme creative legate all’immagine, ancor meglio se in movimento. Ed invece mai come negli ultimi anni si è letto così tanto in modalità “non convenzionali”.
Purtroppo i dati non prendono in considerazione le migliaia di post che leggiamo su Facebook, Instagram e Twitter. I dati non rilevano che molti videogiochi hanno più narrativa di diversi libri messi insieme. Stiamo leggendo tanto, tantissimo e ancor di più stiamo scrivendo. La stessa indagine Istat rileva un aumento del 3.7% dei libri pubblicati in Italia, ma ancora una volta questo è un dato parzialissimo che non tiene in considerazione cosa giornalmente accade su piattaforme online come Wattpad, dove milioni di persone leggono e condividono storie per un totale di 15 miliardi di minuti[2] spesi mensilmente su scala mondiale.
Storie come quella di Cristina Chiperi, che ha rilasciato gratuitamente su Wattpad il suo primo romanzo a 14 anni, My dilemma is You, ed è stata letta oltre 25 milioni di volte (per poi essere cooptata nel mondo editoriale tradizionale), testimoniano ancora una volta come sia impossibile oltre che anacronistico continuare a perpetrare vecchie classificazioni che rischiano di depistare i decisori pubblici invece di aiutarli.
I dati che ci arrivano dai nuovi modelli di fruizione e produzione culturale invitano tutti a riflettere sulla necessità di una de-compartimentalizzazione della cultura, un abbandono della idea industriale di verticalità a favore di una orizzontalità in cui l’individuo diventa protagonista dell’esperienza.
Il minimo comune denominatore delle piattaforme fin qui citate è stimolare il passaggio continuo di ruoli tra produttore e consumatore di contenuti. Le stesse persone guardano e caricano video su YouTube, si ispirano ai post di influencer su Instagram e al tempo stesso caricano le proprie immagini opportunamente arricchite di filtri e tag. Questa è una sfida immane per le istituzioni culturali, ancora oggi strutturate verticalmente e con distinguo ben precisi tra il visitatore di una mostra ed il suo curatore.
Un nuovo concetto di cultura
I cambiamenti sociali e tecnologici in atto stanno contribuendo ad accelerare il passaggio definitivo verso una cultura prodotta da “tanti per tanti”, superando il modello lungamente dominante di una cultura prodotta da “pochi” e consumata da “tanti”. Per numerosi secoli ad una élite di specialisti era demandata in toto la produzione che trovava nelle istituzioni preposte (musei, biblioteche, pinacoteche, teatri…) la cinghia di trasmissione verso un pubblico progressivamente più ampio, almeno nelle intenzioni.
Le istituzioni culturali tutte dovrebbero iniziare a guardare a Netflix, Spotify e Clash of Clans come modelli, e rivali, nell’attenzione economica e temporale dei visitatori. Cosa accadrebbe se i luoghi culturali, le città, la scuola, le aziende ripartissero dalla idea di coinvolgimento come motore primario di ogni processo? Vi è un media, che più di altri, si è affermato come “engagement machine” riuscendo a ribaltare le logiche di fruizione passiva.
Miliardi di persone nel mondo si aspettano di ritrovare in ogni momento della vita quotidiana quell’alternanza di emozioni, coinvolgimento, premialità e partecipazione attiva sperimentata nelle lunghe sessioni di gaming[3]. Proprio la partecipazione attiva è uno degli elementi di rottura rispetto ad altre industrie creative e dell’intrattenimento. L’ultimo dei media, per età anagrafica, consente, seppur nei limiti delle regole e della struttura generale concepita dal creatore, di prendere decisioni indipendenti: vado a destra o sinistra, utilizzo la pozione magica subito o la conservo per dopo, salvo un personaggio o un altro. Questo framework decisionale, abbinato al learning by doing, rende i videogiochi delle straordinarie macchine del coinvolgimento e dell’apprendimento. Esistono altri media creativi che conferiscono una analoga libertà di decisione al punto da consentire al fruitore di alterare finanche il finale in base alle decisioni intraprese?
Videogiochi e cultura, Italia capofila
L’Italia si ritrova ad essere una delle nazioni mondiali capofila nell’intersezione tra industria videoludica e comparto culturale sia in quanto a pubblicazioni sia a progetti sul campo. Il museo Archeologico Nazionale di Napoli, diretto da Paolo Giulierini, ha tracciato una strada inesplorata con la produzione di Father and Son. Per la prima volta al mondo un museo pubblica un videogioco non più e non solo come strumento di edu-tainment a supporto del pubblico scolastico che accedere in struttura ma come vero e proprio linguaggio narrativo e culturale per portare il “museo fuori dal museo”. Il gioco narrativo 2D è stato sviluppato dal collettivo TuoMuseo ed ha ottenuto quasi 4 milioni di download in tutto il mondo contribuendo a creare un intero nuovo filone ed ad avvicinare generazioni di nuovi pubblici sostanzialmente estranei ai consumi museali.
Sulla stessa scia ho avuto la fortuna di coordinare progetti diversi negli obiettivi, ma identici nel linguaggio, come Firenze Game pensato per favorire la delocalizzazione dei flussi turistici in una città ad alta concentrazione come Firenze. O ancora il recentissimo Past for Future realizzato in collaborazione con il Mibac ed il Museo Archeologico Nazionale di Taranto diretto da Eva degl’Innocenti. Quest’ultimo prodotto aggiunge una dimensione inedita, il voler stimolare il turismo videoludico alla stregua di quanto accade da decenni col cine-turismo. Inoltre concorsi come il Playable Museum Award, indetto dal Museo Marino Marini di Firenze, hanno indicato la strada verso il passaggio da musei quali luoghi di “consumo” a veri centri di “produzione” culturale e spazi attrattivi per creativi e makers da tutto il mondo.
Il connubio videogiochi-musei non è un ossimoro
Eppure, ancora oggi, per molti curatori e direttori, videogiochi e musei rappresentano un ossimoro in continuità con le paure suscitate dal Museo della Scienza di Londra nel 1931. In quell’anno l’importante istituzione inglese aprì la prima area interamente dedicata ai bambini. In un numero dell’epoca, il quotidiano Sunday Times descrisse l’iniziativa “a playground at once amusing and illuminating[4],” mentre il giornale interno del museo nel suo numero di Aprile osservò “We could not help fearing that all this may be going too far and not quite in the right direction.” Una tensione che tutt’oggi pervade il mondo culturale e che sembra aver trovato un punto di equilibrio nell’utilizzo del gioco digitale solo ed esclusivamente con finalità educativa. Quasi che il videogioco potesse in qualche modo minare la credibilità dell’istituzione stessa spostando l’asse dalla conservazione, tutela ed esposizione alla Disneyification del luogo.
Con il definitivo ingresso dell’ “audience engagement” tra gli obiettivi statutari delle istituzioni culturali di stampo anglosassone la dicotomia museo vs parco giochi si è progressivamente rarefatta; pur nel rispetto delle differenti missioni è ormai pratica consolidata l’adozione di strumenti, anche tecnologici, che mirano a creare un effetto wow ed a rendere memorabile e speciale la visita e di contro sempre più parchi tematici hanno abbracciato contenuti culturali per conferire un senso più profondo all’esperienza di intrattenimento.
Su una nuova tipologia di tela, completamente digitale, i creatori esprimono idee, sviluppano modelli creativi e linguistici, raccontano storie e restituiscono visioni del mondo. E lo fanno dando al fruitore la possibilità di agire e reagire, rendendo la produzione autoriale in qualche misura liquida, e in questo profondamente diversa da tutte le altre espressioni artistiche in cui la meta-riflessione resta a un livello interiore e mai estetico. In ogni produzione è possibile ravvisare una pluralità di espressioni artistiche tradizionali: scultura e architettura sotto forma di modellazione 3D, poesia per gli archi narrativi e dialoghi, pittura per la realizzazione degli ambienti e personaggi e musica.
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- https://www.istat.it/it/files/2017/12/Report_EditoriaLettura.pdf?title=Produzione+e+lettura+di+libri+-+27%2Fdic%2F2017+-+Report_Editoria%26Lettura.pdf ↑
- https://www.wattpad.com/about/ ↑
- http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/quale-cultura-i-nativi-digitali ↑
- https://www.independent.co.uk/news/education/education-news/thats-edutainment-1363993.html ↑