Cultura digitale

Dilaga la tecnofobia in Italia: allarme rosso

I conservatori dell’analogico utilizzano tutte le cartucce e attaccano internet con forza inaudita. Ecco perché è un pericolo da non sottovalutare

Pubblicato il 02 Set 2014

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La “tecnofobia” è molto diffusa in Italia. Questo tema, poi, è particolarmente rilevante oggi perché i media generalisti, i giornali e la televisione in questi ultimi due anni stanno diffondendo più che in passato un diffuso “panico morale” rispetto all’uso delle tecnologie digitale e di Internet soprattutto da parte dei bambini e dei preadolescenti.

Di che cosa si preoccupano i genitori. Fonte Eu Kids on-line

Da sempre Internet è stata vista con grande “sospetto” a causa dell’accelerazione nella possibilità di “scambi sociali” sul web che genera. Come si evidenzia dalla figura sopra, tratta da un recente report del progetto di ricerca EU Kids on line, la paura legata alle tecnologie ed in particolare, il fatto che i figli possano entrare in contatto con sconosciuti e vedere immagini violente o sessuali è al quinto posto in Europa tra le paure dei genitori. Questo “panico morale” è in crescita. Con questo termine Stanley Cohen, sociologo britannico, identifica la spirale di paura e spesso di “terrore” generata dai media che amplificano una minaccia sfruttando le paure del “pubblico” e dei “lettori” e la sensazione di correre rischi. Il risultato, quindi, è una crescente e spesso esponenziale sensazione di pericolo rispetto a quel fenomeno (ad esempio gli “omicidi efferati” o i “furti in villa”), anche se la possibilità reale di rischio non è realmente aumentata, anzi spesso è diminuita. Il problema è che il panico morale verso la tecnologia si sta diffondendo in Italia sempre di più’ attraverso i giornali, che del resto appartengono a gruppi editoriali “tradizionali”, tra l’altro, molto danneggiati dalla loro scarsa comprensione del fenomeno Internet.

Il capostipite dei nuovi “Savonarola” è Nicholas Carr, noto giornalista e saggista statunitense, che ha pubblicato nel 2010, un fortunato volume tradotto in Italia con il titolo italiano Internet ci rende stupidi?, (2011, Raffaello Cortina Editore, tr. it., The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains 2010). Le posizioni di Carr riassumono efficacemente quelle degli “apocalittici” in tema di effetti delle tecnologie digitali sul nuovo modo di comunicare e di apprendere dei nostri figli. In particolare Carr sostiene come sono e saranno a rischio il pensiero astratto, la memoria associativa, e quella a lungo termine. In sostanza l’intelligenza dei nostri figli sarebbe messa a rischio dal predominio della fruizione digitale e non lineare dei contenuti sul web cos e ancor di più dalla diffusione dei tablet e degli smartphone. Questa tesi “ideologica” è supportata da un corredo di “pseudo conferme” ricavate, indebitamente, da seri studi neuro scientifici. Il modo di utilizzare i dati delle neuroscienze che adotta Carr è scorretto perché anche a pare dei neuro-scienziati più autorevoli come Eric Kandel premio Nobel per la medicina nel 2000. Non sappiano ancora interpretare le differenti “immagini” (PET; TAC ecc.) delle attivazioni neurali rispetto alle loro conseguenze pratiche, tanto meno in un fenomeno così complesso come l’apprendimento. Possiamo dire che il cervello che svolge compiti attraverso macchine digitali funziona diversamente da un cervello che svolge gli stessi compiti in modo analogico, ma non sappiamo valutare questa differenza. Il cervello è un organo così complesso costituito da 100.000 miliardi di neuroni, interconnessi attraverso centinaia di miliardi di sinapsi. Non conosciamo ancora molto del modo in cui il cervello governi le funzioni superiori dell’uomo – la memoria o addirittura l’intelligenza e quindi è difficilissimo derivare dalla diversità delle attivazioni neurali, quale sia la conseguenza pratica di tutto questo. Ora sull’onda di Carr anche in Italia, paese molto resistente all’innovazione, hanno cominciato a fiorire posizioni di “tecnofobia culturale” in particolare prendiamo in considerazione la posizione di Roberto Casati, autore nel 2013 di Contro il colonialismo digitale (Laterza, 2013). Il nuovo “colonialismo digitale”, di cui ad esempio io sarei un rappresentante, s’incarna, per lui, nell’idea che se una qualsiasi pratica, attività o processo può essere svolta – non importa se meglio o peggio – attraverso strumenti digitali, allora si “deve” farlo … a prescindere da risultati.

Fin qui Casati non ha torto, molti aspetti della vita umana fortunatamente non si prestano a essere trasposti in digitale. Il fatto è che poi l’argomentazione di Casati deraglia un po’ … e si diparte – invero in maniera un po’ altalenante – si tratta di una raccolta di articoli pubblicati sul Sole 24 ore e poi corposamente rimaneggiati – su due linee di ragionamento, che rischiano di spargere “panico” tra i genitori e gli insegnati. La prima sostiene che la lettura su carta sia molto più efficiente e cognitivamente efficacie di quella su tablet o e-reader. La seconda tesi di Casati sostiene che l’introduzione di tecnologia nella scuola fa male alla scuola e agli alunni perché abbassa di preparazione degli allievi. Analizziamo più in dettaglio le sue posizioni.

Libro versus tablet: ma perché?

Sul primo argomento la posizione di Casati è “romantica” ma davvero piuttosto debole. Perché mai leggere su schermo, deve essere “inferiore” a leggere sulla carta? In prima battuta verrebbe da controbattere che sono spazi della lettura differenti, supporti differenti, con caratteristiche differenti ma sempre di supporti per la lettura stiamo parlando. Invece, secondo Casati che interpreta e fomenta – il diffuso “panico morale” di molti genitori e insegnanti “immigranti digitali” verso l’innovazione – l’Ipad e i tablet porterebbero a una maggior “distrazione” essendo dispositivi multifunzione e per di più contaminati dalla “demonica” presenza della rete Internet. Casati sottovaluta il potere di Internet e anche l’Intelligenza dei lettori. Intanto noi “ricercatori” ormai “leggiamo” articoli in pdf piuttosto che libri, e lavoriamo solo con schermi digitali e non mi pare che la comunità scientifica mondiale sia diventata tutta “stupida”, come dice Carr, negli ultimi anni. Ma perché, poi, leggendo un libro su un tablet io o mio figlio saremmo costretti a distrarci e subito passare a un’altra App, a un videogioco, a un quotidiano o a un social network ? Se voglio leggere sul mio tablet leggo, se voglio giocare gioco, se voglio leggere un quotidiano lo faccio. Perché dovrei abbandonare un romanzo che mi appassiona per mettermi a video-giocare o a leggere un quotidiano?

Afferma, a questo proposito Casati «sei a un click di distanza da letteralmente milioni di App e video potenzialmente più interessanti e comunque meno faticosi da visionare, e di messaggi della rete sociale sempre molto urgenti e appetitosi»? (p. 46)”. E’ vero che la lettura è “fatica” ma è anche “passione” e questo tipo di “hard fun” (Papert, Connected Family, 1996, tr, it, Connected Family, Mimesis, 1996) piace molto ai bambini, che possono anche non essere “ingolositi” dai libri e anche dai videogiochi: perché contrapporli? Perché Casati non prende in considerazione l’ipotesi di considerare il tablet come un supporto che potenzia la lettura e che permette, oltre a leggere di svolgere i molti altri compiti cognitivi, attraverso il potenziamento che gli garantisce il “demone” Internet:

– approfondire la biografia e la bibliografia dell’autore del testo;

– confrontare i pareri critici sull’autore stesso;

– visualizzare i luoghi in cui si svolge l’azione del romanzo o approfondire attraverso video e grafici i temi del saggio ad esempio;

– svolgere analisi del testo in collaborazione con altri lettori, studenti o esperti;

– pubblicare il risultato delle proprie riflessioni sul web;

– utilizzare video e immagini per approfondire;

In questo caso la mia lettura è sicuramente molto arricchita, “aumentata digitalmente” e non credo ne trarrei grandi svantaggi, anzi grandi vantaggi.

Se qualcuno preferisce il libro di carta, più dispendioso e meno comodo può ovviamente continuare a utilizzarlo e la sovrapposizione dei due supporti durerà ancora un certo numero di anni. Perché ostinarsi a usare il cavallo come mezzo di trasporto quando è stato inventato il treno! La verità, però, è più dolorosa per i bibliofili e per gli editori che non vogliano accettare la nuova realtà digitale. Il sistema di archiviazione su carta dei testi appartiene al passato e …. non si torna più indietro. La Galassia Gutenberg è finita e abitiamo la Galassia Internet. Non è un problema di “colonialismo digitale” ma un cambio di paradigma comunicativo, economico e sociale di portata globale (M. Castells, Internet Galaxy, 2001, tr. it., La Galassia Internet, Feltrinelli 202). Chi preferisce il passato dovrà suo malgrado adattarsi al nuovo mondo. Quella che potremo chiamare la “filiera della lettura” è ormai tutta digitale, salvo, ancora per pochi anni, l’ultima fase: quella della stampa e della distribuzione. Per ragioni economico-sociali anche quest’ultimo baluardo sta cadendo. Il taglio dei costi di carta, stampa e distribuzione sono troppo rilevanti perché si possa tornare indietro … in un’economia di mercato evoluta. E’ un taglio, tra l’altro, che abbatte del 60%/70% il “costo della conoscenza” per lettori, genitori e famiglie.

Tecnofobia e formazione: “fuori il digitale dalla scuola, “fuori la scuola italiana dall’Europa”

La seconda linea di argomentazione di Casati è quella più difficile da accettare per chi abbia a cuore la formazione dei nostri figli e la nostra tanto bistrattata scuola italiana. “Proteggiamo la scuola dal digitale”, afferma Casati. Secondo lui sono “colonialisti digitali”, probabilmente pagati da qualche multinazionale dell’hardware o del software, anche tutti quelli che pensano, io tra questi, che la scuola e la formazione possano trarre grande vantaggio dall’uso significativo delle tecnologie digitali. Un vantaggio sociale e di democratizzazione del sapere prima che un indubbio vantaggio nell’”accesso” al sapere. Casati sostiene che la scuola deve letteralmente “continuare a fare il suo mestiere di sempre (…) essere uno spazio protetto in cui lo zapping è vietato per definizione” (p. 130). Sostiene, inoltre, che l’arretratezza tecnologica della scuola – cito quasi testualmente – può rappresentare un grande vantaggio per la difesa della nostra risorsa intellettuale primaria – immagino l’intelligenza … o forse i libri di carta? La scuola è, prosegue, “Una zona di tranquillità da cui guardare allo sviluppo della società in tutta calma”.

Qui la argomentazione di Casati diventa “elitista” oltre che francamente molto moto “conservatrice”. Inoltre è in contrasto con tutte le indicazioni dell’Agenda Digitale Europea, prima che di quella italiana sulle competenze digitali. Quando ho letto queste frasi Sono trasecolato, “zona protetta”, “fare il mestiere di sempre”, “guardare la società con tutta calma”. Si rende conto il Professor Casati che la scuola è un fattore strategico, forse il più rilevante, nella competizione globale economica, politica e culturale e che in Italia è l’unico settore della pubblica amministrazione a non essere stato dotato di un’infrastruttura digitale … le molte altre amministrazioni pubbliche e le imprese lo sono da almeno quindici anni. Casati vive all’estero tra gli Stati uniti e la Francia. Mio figlio e la maggior parte dei nostri figli sono in Italia e non vedo perché non dovrebbero usufruire dell’enorme vantaggio di avere “accesso” a tutto il sapere del mondo anche a scuola, oltre che a casa con una “connessione a banda larga” degna di questo nome. Per non parlare, poi, di tutti i bambini che nel mondo la connessione a Internet, a casa, non lo hanno. Evitiamo di dargliela anche a scuola così saranno sempre “esclusi” da ogni opportunità di emancipazione. E’ un problema di equità sociale globale prima che di “estetica della lettura”. Più Internet: più cultura e più sviluppo, cioè più lavoro e opportunità, questo fatto è inconfutabile; tutti i dati OCSE e FMI lo dimostrano. Ora, caro Casati, il “si stava meglio quando si stava peggio” è un ragionamento che, di solito, si possono permettersi solo le ristrette élite di privilegiati che in ogni caso poi a Internet ci accedono lo stesso a casa loro e con banda ultra larga.

Dare Internet a tutti gli edifici pubblici, le scuole ovviamente per prime, e garantire una “cittadinanza digitale consapevole”, attraverso la formazione, a tutti i cittadini italiani è un dovere di chiunque abbia a cuore l’equità sociale e la democrazia educativa … do you remember Don Milani?

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