L'ANALISI

L’ICT “chiavi in mano” rallenta l’Italia digitale: che fare

Serve superare la logica di un’automazione a silos e investire in risorse in grado di “personalizzare” il digitale, accompagnando l’azienda – pubblica o privata – in modo flessibile. Solo così metteremo le basi per una vera trasformazione digitale dell’Italia

Pubblicato il 07 Mar 2019

Enrico Nardelli

dip. di Matematica, Università di Roma

crisi telco

La strada verso la digital transformation di un Paese, Pubblica amministrazione e aziende private, passa da una svolta culturale e politica. Serve andare oltre le vecchie logiche di automazione a silos. E abbracciare una visione in cui la tecnologia cambia a seconda dei tempi e delle esigenze. Per questo andrebbe attuato un massiccio programma di supporto alla formazione dei lavoratori attivi, così da renderli in grado di personalizzare la tecnologia adattandola ai diversi contesti.

Un tema fondamentale su cui molto si discute è quello dell’informatica (anche se adesso è di moda dire “digitale”) come strumento fondamentale per ridare competitività ed efficienza al sistema produttivo del Paese ed alla sua Pubblica Amministrazione. Vorrei esporre in merito alcuni spunti di riflessione.

Norme troppo rigide per la PA

La Pubblica Amministrazione è drammaticamente indietro in termini di comprensione di come l’informatica possa dare efficienza ed efficacia alle sue azioni. Da un lato vi sono le normative alle volte troppo rigide nel rispetto della forma perché ossessionate dal binomio corruzione/sprechi quando invece sarebbe necessario un radicale cambiamento di approccio, ora inadeguato alla realtà dello sviluppo dei sistemi informatici.

Dall’altro pesa una carenza culturale dei suoi dirigenti nel capire le implicazioni dell’usare l’informatica nelle organizzazioni. Il mio collega universitario Paolo Coppola nella precedente legislatura ha guidato la commissione parlamentare d’inchiesta sulla digitalizzazione della PA che ha messo in luce, durante le sue audizioni, come in molti, troppi, ministeri ed enti pubblici si sia rimasti fermi ad una visione dell’informatica come automazione “a silos” di singole funzioni di elaborazione dati, slegate da una visione globale e di processo delle relazioni tra l’organizzazione in sé, le sue interfacce nella rete della PA e i cittadini. Il tutto complicato da una visione “tradizionale” dell’automazione, che assume che una volta che l’esecuzione di una funzione sia stata affidata ad una macchina, il problema si possa considerare risolto.

Nel caso dell’informatica non è così: la vera informatizzazione dei servizi è sempre in fase di manutenzione, perché è la realtà ad essere in continua evoluzione. Ma se non si hanno “in casa” le persone in grado di realizzare questa manutenzione, se si deve ricorrere continuamente al fornitore esterno, costi e tempi lievitano in modo intollerabile.

L’innovazione non decollerà senza risorse competenti

Purtroppo la nostra classe politica si è spesso riempita la bocca del digitale, ma non ha mai messo in gioco la sua influenza e il suo peso per far cambiare davvero le cose. Nei vari partiti ci si limita ad inseguire i termini più alla moda nella sfera del digitale (ieri il cloud e i big data oggi l’intelligenza artificiale e la blockchain) senza affrontare alla base un tema fondamentale per il nostro futuro. Come ha scritto magistralmente Evgenij Morozov qualche anno fa (I signori del silicio) “per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia”.

Adesso la ministra Giulia Bongiorno vuole spingere l’acceleratore sulla trasformazione digitale della PA, ma temo che nominare generali senza dotarli di adeguati eserciti non servirà a molto. In assenza di un significativo numero di assunzioni di diplomati e laureati in informatica, efficienza ed efficacia della PA non riusciranno a migliorare.

Un atteggiamento parallelo, ma con diverse motivazioni, lo ha tenuto il sistema produttivo. Questo in Italia è costituito essenzialmente da micro e piccole imprese, che non usano il digitale o lo usano poco non perché – come dice qualcuno – sono pervase dal familismo amorale o non ne hanno capito il potenziale di vantaggio competitivo, ma perché sistemi informatici troppo rigidi costituirebbero la melassa che li ucciderebbe rapidamente. Il tipico industriale italiano – per niente stupido e che della flessibilità e velocità di cambiamento ha fatto la sua arma strategica – l’ha intuito ed è rimasto un po’ a guardare: primum vivere!

Anche questo atteggiamento deriva da una carenza culturale, ovvero dal non aver capito che l’unica informatica buona è quella “personalizzata” che accompagna l’azienda in modo flessibile, come se fosse una persona, ma che è in grado di lavorare senza stancarsi e senza sbagliare, come purtroppo accade alle persone. E questo non si può ottenere semplicemente comprando soluzioni “chiavi in mano”, come è avvenuto per le precedenti innovazioni tecnologiche.

Mentre gli imprenditori sono sempre stati agili nel modernizzare le linee produttive ogni qualvolta hanno intravisto un’opportunità di mercato, nel caso dell’automazione digitale, capendo il pericolo della sua rigidità, gli imprenditori, dovendo mettere in gioco i loro capitali, sono prudentemente rimasti alla finestra, senza sprecare risorse economiche.

Via a un programma di supporto alla formazione

È un problema culturale, ma anche politico. La spesa pubblica di Impresa 4.0 è certamente positiva, ma se poi questa serve a comprare soprattutto macchinari e soluzioni estere, è difficile che possa contribuire al rilancio del Paese. Andrebbe attuato un massiccio programma di supporto alla formazione dei lavoratori attivi, che non può limitarsi alle pur necessarie competenze digitali dell’utente finale.

Gli Usa lo hanno capito benissimo tanto da istituire l’anno scorso il “Consiglio Nazionale per il Lavoratore Americano” con l’obiettivo di migliorare istruzione e formazione professionale dei lavoratori, in modo da renderli competitivi nel sistema industriale, sempre più pervaso di digitale, che ci aspetta in futuro.

La sfida per capire l’informatica è comprendere che, da soli, hardware e software sono soluzioni migliorative solo sul breve periodo. A medio e lungo termine serve avere le persone che siano in grado di adattare queste soluzioni digitali (che io chiamo “macchine cognitive”, perché sono costituite da intelligenza umana cristallizzata in forma di meccanismo) alle mutare delle esigenze al contorno.

Gli scenari di business cambiano quasi settimanalmente, il software non è in grado di adeguarsi, servono le persone in grado di farlo. Serve anche incentivare la crescita di un settore italiano dell’informatica, in grado di sviluppare e far evolvere soluzioni appropriate per la nostra società.

I politici del cambiamento riusciranno a cambiare questo stato di cose?

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