Mi sto interessando al movimento dei “maker” da circa due anni. Ho iniziato a considerarlo un argomento di ricerca quando è diventato un fenomeno di massa, uscendo dai laboratori per andare a “contaminare” musei, municipi e soprattutto scuole. Nell’ultimo anno in particolare, anche in Italia si è assistito ai primi contatti tra il mondo della scuola e i maker-space, i luoghi fisici dove gli “artigiani digitali” si incontrano per scambiare risorse e conoscenza, lavorare su progetti, collaborare e socializzare.
A livello internazionale esistono studi accademici che hanno analizzato diverse esperienze, cito come esempio quello svolto dal Transformative Learning Technologies Lab dell’Università di Stanford che conta numerosi articoli, conferenze, studi applicati sul campo in numerose scuole americane dove sono stati allestiti laboratori di questo tipo.
A livello nazionale ancora non sono state svolte ricerche approfondite, la diffusione dei maker-space nelle scuole è infatti iniziata da pochissimo tempo. Le iniziative al momento avviate non sono, nella maggior parte dei casi, ideate da insegnanti o dirigenti scolastici ma vedono nella scuola il soggetto destinatario dell’azione. Tre esempi su tutti, il primo, a Milano, presso la Scuola Primaria Stoppani, dove nel 2014 l’associazione genitori ha finanziato un progetto di formazione per gli insegnanti e conseguente attività con i bambini con la stampante 3D. Il secondo esempio è FabLab a Scuola, qui la Fondazione Nord Est, con il sostegno di UniCredit, DWS Systems e Roland ha avviato la creazione di una rete di fablab nelle scuole del Nord Est attraverso un’azione di “crowdfounding”. Il terzo progetto si chiama FaberSchool, è organizzato dal laboratorio FaberLab di Tradate (Varese) e coinvolge per il momento 7 Istituti Superiori, ma è in programma un allargamento alle scuole primarie e secondarie. In questi giorni anche il Salento si sta organizzando con il progetto RepRap che doterà sette scuole capofila di stampanti 3D.
Osservando il fenomeno è emersa una profonda differenza fra le modalità con cui i ragazzi sviluppano conoscenze e competenze nei maker-space e come lo fanno invece nella scuola, con i modelli didattici tradizionali. Di seguito alcune caratteristiche che contraddistinguono l’agire e l’apprendere in questi spazi:
- Un approccio hacker alla conoscenza. Secondo Steven Levy “gli hackers credono che gli insegnamenti fondamentali sui sistemi – e sul mondo – possano essere appresi smontando le cose, analizzandone il funzionamento e utilizzando la conoscenza per creare cose nuove e più interessanti”. Quindi si apprende modificando il software e l’hardware, anche quello proprietario, “mettendoci le mani sopra”, al fine di ottimizzarne l’uso e acquisire conoscenza.
- Una medodologia “tinkering”, basata sul trinomio think-make-improve, che prevede una fase di ideazione, di definizione dei problemi, di studio, di brainstornming, di pianificazione; una fase di messa in pratica, di creazione, programmazione, osservazione, prototipazione; e un’ultima fase di verifica e miglioramento di quanto fatto, che può portare alla ridefinizione delle idee e degli assunti di partenza. In questo senso l’errore non è visto negativamente ma è un’occasione per progredire e migliorare.
- La collaborazione e la condivisione della conoscenza in perfetta filosofia “open”. Ad esempio, copiare non vuol dire barare, anzi viene promosso come attività da praticare. Il mentor nei maker space recita il mantra “chiedi a tre e poi chiedi a me” favorendo il dialogo tra studenti e l’influenza reciproca, lasciando che i ragazzi copino, sbaglino e siano corretti dai loro compagni.
Affinchè queste specificità vengano introdotte con successo nella scuola – mi preme sottolineare -, sarà fondamentale il ruolo del docente, la sua “visione globale” della scuola, occorrerà dunque valorizzarne la centralità in tutte le fasi di messa a sistema dell’innovazione.
Quello che il team di ricerca di cui faccio parte presso Indire vuole capire è quali specificità del modello maker possono rappresentare innovazioni per il mondo della scuola. E se queste innovazioni possano contribuire a superare il modello didattico ancora dominante, cioè quello basato prevalentemente sulla trasmissione delle conoscenze “dalla cattedra”, ormai inadeguato per rispondere alle sfide poste dalla società della conoscenza.
L’attività di ricerca di Indire in questo ambito si articola in due azioni: la prima è di studio e monitoraggio di tutti i progetti di rilievo in corso a livello nazionale e internazionale; la seconda consiste nell’avviare delle sperimentazioni su determinati ordini di scuola, proponendo specifiche attività didattiche fondate sulla metodologia maker e osservando, insieme agli insegnanti, cosa accade a livello didattico e cognitivo.
Una di queste sperimentazioni, attualmente in corso, ha visto l’installazione di un determinato numero di stampanti 3D in alcune scuole dell’infanzia e prevede una serie di attività che gli insegnanti dovranno svolgere in classe, insieme ai bambini, in un periodo stabilito.
Perché abbiamo deciso di iniziare con le stampanti 3D? I motivi risiedono nella natura di questi strumenti, che funzionano in modo appropriato solo se il disegno iniziale, il progetto, è ben congegnato. Rispetto ad altre attività manipolative tridimensionali come il Lego, il DAS, il Pongo, dove è possibile modificare in corsa il disegno che si ha in mente, la stampante 3D richiede un’attenzione particolare nella fase di progettazione. Un errore in questa fase comporterà infatti la stampa di un oggetto sbagliato. Riteniamo interessante osservare i bambini della Scuola dell’Infanzia che si confrontano con questo modo di procedere, per loro inedito, e cercheremo di indagare se sono in grado di comprendere questo concetto e di sviluppare competenze in grado di aiutarli durante il prosieguo degli studi.
Inoltre, verranno sperimentati diversi “setting tecnologici” composti da diversi modelli di stampante, e diversi software, in modo tale da comprenderne i punti di forza e le criticità nei vari contesti scolastici. Lo scopo è individuare possibili configurazioni ottimali per le diverse tipologie di scuole interessate a queste attività.
Con lo stesso metodo, Indire si sta muovendo nei confronti della robotica e del coding.
I progetti di ricerca sono tutt’ora in corso, quindi è prematuro descrivere nel dettaglio le varie sperimentazioni, tantomeno azzardare generalizzazioni. Però è certo che il mondo maker e quello della scuola hanno stabilito un contatto che con ogni probabilità sarà sempre più stretto. E’ dunque fondamentale osservare in modo lucido e consapevole quanto sta succedendo affinché rappresenti un’opportunità di arricchimento per la scuola, gli insegnanti, gli studenti.
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La scheda: chi sono i maker
“Gli artigiani digitali, o “maker”, costituiscono un movimento culturale contemporaneo che rappresenta un’estensione su base tecnologica del tradizionale mondo del fai da te. Tra gli interessi tipici degli artigiani digitali vi sono realizzazioni di tipo ingegneristico, come apparecchiature elettroniche, realizzazioni robotiche, dispositivi per la stampa 3D, e apparecchiature a controllo numerico”, questa la definizione del termine maker fornita da Wikipedia.
In essa convivono “vecchio” e “nuovo”. I maker sono infatti sempre esistiti. I nostri nonni erano tutti “maker”: costruivano da soli una considerevole percentuale delle cose che venivano utilizzate in casa, acquisendo nel corso della vita competenze da falegname, fabbro, elettricista, ecc. Inoltre prima di buttare via qualsiasi cosa tentavano, spesso riuscendoci, di accomodarla.
Negli anni 70-80, prima dell’elettronica integrata, appartenevano alla “maker culture”, senza sapere di farne parte, tutti coloro che in garage, in cantina o in piccoli laboratori progettavano e costruivano apparecchiature meccaniche ed elettroniche da soli, partendo da componenti singoli come transistor, resistenze, condensatori. In Italia è “la generazione di Nuova Elettronica” che attraverso quel mensile, o altri simili, imparava ad assemblare amplificatori, allarmi, timer e altri oggetti. Ricordo il padre di un amico, un radio-amatore che si era costruito da solo una immensa radio ricevente; situazione per niente rara in quegli anni.
Riferendosi a quel periodo, Steve Jobs era solito affermare come fosse stato fortunato a vivere gli anni della sua giovinezza in un’epoca dove era possibile costruire nel proprio garage qualcosa di interessante con strumenti alla portata di tutti, anziché comprarla.
Una inversione di tendenza si ebbe alla fine degli anni ‘90 e nei primi anni 2000 quando si passò dall’elettronica dei componenti all’elettronica integrata (e proprietaria) dove una minuscola scheda conteneva tutti i componenti assemblati in modo indissolubile tra loro; questo ridusse moltissimo la libertà del singolo di modificare, accomodare, trasformare gli oggetti in questione. I maker non sparirono del tutto, nell’ambiente hacker continuarono a operare e scambiarsi progetti, ma diventò progressivamente più difficile “giocare” con l’elettronica e la meccanica.
Gli ultimi cinque/sei anni hanno rappresentato una stagione di rinascita per il movimento “maker” che ha visto una enorme espansione su scala mondiale. Il fenomeno è da imputare ad alcune circostanze avvenute in questi anni. In primo luogo la diffusione di dispositivi “open hardware”, fra cui spicca per importanza la scheda italiana Arduino, inventata e prodotta a Ivrea dall’azienda fondata da Massimo Banzi. Questi prodotti elettronici vengono venduti assemblati e pronti per essere installati, configurati e integrati in strumenti elettronici. Allo stesso tempo viene rilasciato liberamente lo schema di funzionamento in modo che possa nascere una comunità di sviluppatori aventi l’intento di migliorare il prodotto, creare delle copie potenziate, individuarne i difetti, interagendo spesso con lo stesso produttore. In pratica, la filosofia del software “open source” è stata traslata e applicata con successo all’hardware.
Tra tutti i progetti nati in questi anni, Arduino, è diventato uno dei più diffusi nel mondo. Come Arduino, anche il micro-computer RaspberryPi ha avuto lo stesso tipo di diffusione e successo dal momento che è piccolo come una carta di credito, economico (costa circa 38€), molto versatile e circondato da una community di sviluppatori (hardware e software) molto numerosa dato che è fondamentalmente basato su Linux. RaspberryPi può facilmente diventare il cuore di un robot “Do It Yourself”, un media-center per fruire musica e video, un vero e proprio computer con sistema operativo Linux, una console per giocare a Minecraft o infine una stazione per programmare con Scratch.
In questo contesto, è facile capire quanto sia stato breve il passo che ha portato questi dispositivi elettronici ad essere il cuore pulsante di altri strumenti che hanno un ruolo centrale nei maker-space, prima tra tutti la stampante 3D.
Attualmente la maggior parte delle stampanti 3D ad uso domestico o semi professionale di piccole dimensioni sono comandate da una scheda Arduino, RaspberryPi o equivalenti. Molte delle stampanti oggi in commercio sono derivazioni del progetto open hardware denominato “RepRap” che è l’acronimo di REPlicating RApid Prototyper, la prima stampante low cost, open, pensata per un uso domestico, replicabile e in grado di stampare i pezzi necessari per costruire un clone di se stessa. Questo strumento è stato uno dei simboli dell’attuale affermazione della “maker culture” dimostrando in modo concreto come sia possibile costruire in proprio gli oggetti di uso comune, azzerando gli intermediari e portando la produzione realmente al Km 0.
Questo interessantissimo fenomeno, come si è detto poco sopra, si è sviluppato principalmente all’interno di laboratori attrezzati denominati “maker-space” che sono nati in ogni angolo del mondo. Molti di essi si sono associati, si sono dati delle regole etiche e un codice di comportamento diventando, di fatto, delle reti mondiali. La più famosa associazione è quella che lega tra loro i “FabLab”, sigla che significa Fabrication Laboratory. Ad oggi c’è almeno un laboratorio per ogni regione italiana ma spesso il numero è molto maggiore, come è possibile vedere consultando una mappa interattiva aggiornata.
Bibliografia Essenziale
Blikstein, Paulo. Digital fabrication and ‘making’ in education: The democratization of invention, FabLabs: Of Machines, Makers and Inventors, 2013
David Thornburg Ph.D. (Author), Norma Thornburg MA (Author), Sara Armstrong Ph.D. (Author), Gary S. Stager (Foreword). The Invent To Learn – Guide to 3D Printing in the Classroom, Recipes for Success, Thornburgh Center, 2014
Gabrielson, Curt. Tinkering: Kids Learn by Making Stuff. Maker Media, Inc., 2013.
Levy, Steven. Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica, ShaKe, Milano 1994
Martinez, Sylvia Libow, Gary S. Stager. Invent To Learn: Making, Tinkering, And Engineering In The Classroom, Constructing Modern Knowledge Press, 2013
Papert, Seymour. Mindstorms: Children, computers, and powerful ideas, Basic Books, Inc., 1980.
Sitografia
[ Lorenzo Guasti da gennaio 2014 è ricercatore tecnologo presso l’Indire, istituto con il quale collabora fin dal 2006. Negli anni si è occupato di comunicazione cartacea e web, documentazione fotografica, innovazione tecnologica. Attualmente è referente di un progetto di ricerca che studia il fenomeno dei “makers” e gli scenari che questo movimento genera nel sistema scolastico italiano e internazionale. ]